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RECENSIONI

ACETI

EZIO ACETI, ACCAREZZARE IL CONFLITTO – TAU, TODI 2022

Lo psicologo Ezio Aceti si occupa di educazione infantile-adolescenziale e di supporto alla genitorialità. L’ultimo suo volume, pubblicato presso l’editrice umbra Tau, fa riferimento nel titolo (Accarezzare il conflitto), alla frase pronunciata da Papa Francesco in un discorso del marzo 2014, “Il futuro sarà accarezzare il conflitto”, auspicando una propositiva comunicazione tra i popoli e gli individui, e prospettando una nuova modalità di convivenza pacifica. Non celare o reprimere il conflitto, quindi, ma riconoscerlo nella sua energia dinamica “come coessenziale, come costitutivo della vita”, operando per disarmarlo negli effetti ostili e dannosi per la comunità.

Il libro è suddiviso in quattro capitoli: partendo dall’analisi della complessa e pluralistica società contemporanea nelle sue tendenze disgregatrici e ansiogene, propone risposte di fede, nutrite dall’insegnamento evangelico e dalla lettura dell’enciclica papale “Fratelli tutti”, per offrire poi alcune indicazioni concrete atte a prevenire e risolvere i contrasti personali e sociali, facendo leva su atteggiamenti, esperienze e valori utili a disinnescarli. Senza lasciarsi andare a un malinconico rimpianto del passato e senza catapultarsi verso una modernizzazione esasperata e imprudente.

Oggi le persone sembrano smarrite, prive di orientamenti etici, indifferenti al trascendente, isolate tra di loro, sclerotizzate nei sentimenti e sempre in tormentosa ricerca di significati esistenziali cui aggrapparsi: “una coltre di nebbia e di sconforto ci avvolge”. I due anni di pandemia hanno aggravato lo stato di ansia generalizzato, provocando spesso reazioni scomposte alla crisi economica e sanitaria (determinate dai timori per la salute e dai sospetti verso i provvedimenti presi dalle autorità e dagli scienziati), che hanno messo in crisi i comportamenti nelle dinamiche relazionali. “È un’abitudi ne al buio, al negativo che ha intaccato le nostre relazioni, sia dentro che fuori di noi”.

Quali strumenti suggerisce quindi l’autore del volume per “accarezzare i conflitti” nati all’interno di comunità ristrette come le famiglie e le scuole, e più ampie come gli agglomerati urbani, e addirittura nel panorama politico nazionale e mondiale? Secondo il Professor Ezio Aceti le persone devono riuscire a superare i pregiudizi nei confronti degli altri, siano essi uniti da vincoli di parentela e amicizia, siano invece provenienti da realtà diverse dalle proprie. “Per poterci risollevare e riprendere il cammino verso una umanizzazione del vivere” è fondamentale recuperare il senso di solidarietà ed empatia nei confronti del prossimo, anche sacrificando in parte i privilegi di cui si gode, e cercando un contatto di vicinanza attraverso il dialogo e piccoli gesti di sostegno quotidiano.

Amare, dunque, in maniera concreta, cercando di realizzare un programma di azioni e parole mirato al bene. E, per chi ha la fortuna di credere, lasciandosi illuminare dalla Grazia, secondo l’esempio di due grandi donne che hanno saputo consegnare al mondo un generoso messaggio di solidarietà, coraggio e speranza: Madre Teresa di Calcutta ed Etty Hillesum.

Di quest’ultima, morta ad Auschwitz, vengono riportate alcune frasi tratte dal Diario: “Signore, fammi vivere di un unico grande sentimento – fa’ che io compia amorevolmente le mille piccole azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni ad un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore. Allora quel che farò, o il luogo in cui mi troverò, non avrà più molta importanza”.

 

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SoloLibri.net › Accarezzare-il-conflitto-Ezio-Aceti             17 febbraio 2023

 

 

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ACITELLI

FERNANDO ACITELLI, CANTOS ROMANI – ES, MILANO 2012

Diversamente dai Cantos Pisani di Pound, così tormentati formalmente, e complessi contenutisticamente, i Cantos Romani di Fernando Acitelli (Roma, 1957) si sviluppano in sessantaquattro (LXIV) momenti di pacata e malinconica osservazione del passato storico della città eterna, quasi una celebrazione priva di fasti e retorica: intenerito omaggio – umano, molto umano – a personaggi grandi e minimi che hanno reso l’Urbe, appunto, eterna.

Una Roma esplorata nelle viscere, dall’età imperiale a quella paleocristiana, dal rinascimento all’ottocento, per spingersi fino all’attualità: e raccontata con la fedeltà amorosa che riesce a soprassedere su colpe e tradimenti, per sottolineare invece e decantare virtù e bellezze incontaminabili da qualsivoglia vergogna e volgarità.
L’amico fognarolo, “custode di falde acquifere”, che “tanto sapeva / di strade, cunicoli, vicoli, intoppi / del sottosuolo” introduce l’autore nei sotterranei urbani, alla scoperta di urne, monete antiche, cimeli: non solo testimonianze di vite famose, ma reperti di esistenze anonime, di ossa riaffiorate da ipogei fangosi. Di un Aureliano sconosciuto, magari, le cui tracce fisiche sono rimaste più tangibili di quelle del più celebre edificatore della cinta muraria; di un bambino dell’anno 100 d.C.; di qualche vergine adolescente: Sabina, Plotina, Drusilla…

“Se vago tra i reperti, / la diagnosi è sospesa. / Chiunque, a quest’ora, da Lucio Vero a un bimbo / dell’Impero, è più in salvo / di me”. Storia e cronaca, passato e presente, sacro e profano, vita collettiva e individuale si confondono e compenetrano, in questi versi densi di immagini e di pensiero, vaganti per una Roma concreta dell’oggi, nella sua toponomastica (Via Cairoli, Campo Marzio, il Celio, il Teatro Quirino, Porta Furba, Via Selinunte…), nei suoi bar, nelle basiliche, tra gli sfasciacarrozze e nei negozi eleganti, nei corridoi degli uffici ministeriali o nei cantieri periferici. La città trafficata e pulsante di chi la vive quotidianamente, onorandola o imbrattandola (“Porta Maggiore di notte. / Via Giolitti con le sue mignotte”, “gli operai esibivano fieri il copricapo di giornale”, “un vecchio si distinse per bestemmia”, “L’autista del 409 amava il cambio di marcia”, “i vecchi passeggiano pettinati, rasati / per bene nella penultima finzione”), tra presenze fantasma di attori scomparsi, e gatti, piccioni, levrieri che si muovono tra le rovine.

L’arte antica di Masaccio, Filippino Lippi, Solimena ha lasciato tracce nella pittura novecentesca di De Chirico, Guttuso, Schifano; la politica sporca dei “profittatori di sempre”}» trova un suo riscatto nella solidità pulita degli affetti domestici; le tombe dei martiri cristiani sono velate dalla stessa malinconia che incornicia le sepolture dei parenti più cari. Su tutto aleggia (mai macabro, e piuttosto ineluttabile, fatalistico) lo spirito del dissolvimento, di una fine a cui ogni esistenza, sentimento, gesto, oggetto è inesorabilmente destinata (i corpi di “Tiberio, Giuliano e Decio”, come i mozziconi di sigarette abbandonati sull’orlo dei tombini, o come i peli di barbe e capelli scivolati giù nei lavelli: “Finite dove le rasature degli anni ’30?”). Tuttavia a questo “nulla / da cui veniamo e a cui siamo diretti” Roma, con i suoi millenni di storia, presta uno scenario di fascino particolare, in cui (come suggerisce il postfatore del volume, Raffaele Manica), “non è detto… se siano più morti i vivi o più vivi i morti”. A questa eternità di vita che accoglie presente e passato all’interno delle stesse mura, ai suoi abitanti ignari o colpevolmente disinteressati, Fernando Acitelli rivolge un’accorata e innamorata preghiera: “Accudite quei sarcofaghi isolati / quelli che come conforto possono contare solo / sulla pioggia, o sul muschio che ne indora / l’incavo, l’intimità già scaldata dal sole. / Ponetegli attorno girandole di lumini, portate / il Natale anche al fanciulletto Aulo / Massimo, al bimbo Publius Aelius Felicissimus, che sia / loro narrato, dunque, il miracolo del Natale / che a quell’epoca non accadeva ed è paura / adesso il considerare questo”.

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/Cantos-romani-Acitelli.html      31 ottobre 2016

 

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ADORNO-CELAN

ADORNO-CELAN, SOLO, CON ME STESSO E LE MIE POESIE – ARCHINTO, MILANO 2011

Il pregio di questo elegante e curato volume edito da Archinto non sta tanto nella presentazione dell’epistolario, abbastanza rapsodico e scarsamente esemplificativo del rapporto instauratosi tra Theodor Adorno e Paul Celan. Si tratta infatti di poche lettere in cui il poeta rumeno si lamenta del disinteresse e della persecuzione che circonda il suo lavoro (“Vengo depredato… E poi coperto di sputi, calunniato…”), e sembra auspicare una maggiore attenzione critica da parte del filosofo tedesco, forse sperando in una solidarietà più esplicita dovuta alle comuni radici ebraiche. E Adorno, qua e là, tra le righe, si sbilancia: “Il suo testo incomparabilmente bello… il suo testo in prosa estremamente interessante ed enigmatico…”, senza tuttavia decidersi mai a scrivere l’intervento promesso sulla poesia del suo interlocutore. Ma appunto il merito di questa proposta editoriale sembra soprattutto essere nel saggio introduttivo di Joachim Seng, molto appassionato ed esaustivo, che ripercorre la relazione tra i due personaggi, a partire dall’incontro mancato di Sils Maria nel 59 (quasi temuto da Celan, che più volte si sottrasse a ripetute occasioni di conoscere importanti esponenti della cultura dell’epoca: non solo Adorno – poi effettivamene incontrato nel 60, alla Buchmesse di Francoforte- ma anche Beckett). Se il filosofo sembrava accordare alla trepidante attesa del poeta un’attenzione un po’ superficiale (nella sua biblioteca furono trovati solo due libri di Celan), quest’ultimo seguiva ogni pubblicazione di Adorno con un’ammirazione e un coinvolgimento totale, traendone ispirazione anche per i suoi versi. La famosa sentenza adorniana secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe dovuto più scrivere poesia aveva aperto in Celan abissi di inquietudine e di sensi di colpa, cui tuttavia egli seppe rispondere con la tragica disperazione della sua scrittura. Il volume si conclude con due interessanti note biografiche di Roberto Di Vanni.

IBS, 7 marzo 2012
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ADY

ENDRE ADY, IL PERDONO DELLA LUNA – MARSILIO, VENEZIA 2018

Caramore ci introduce, con sapienza e rigore, alla poesia di Endre Ady situandola storicamente e socialmente nel cuore dell’Ungheria di inizio ‘900, paese dilaniato e sottomesso, in perpetua lotta contro gli oppressori austriaci e lacerato da contrasti interni. L’accurata ricostruzione biografica effettuata dalla curatrice (che insieme a Vara Gheno si è occupata anche della traduzione dei testi) viene accompagnata da un commento che ne ricollega gli snodi fondamentali ai nuclei più rilevanti della produzione poetica, a partire dalle origini familiari, e poi attraverso gli studi, i viaggi, gli amori, la malattia: soprattutto esplorando evoluzioni e involuzioni del credo ideologico e spirituale dell’autore.

Endre Ady nacque nel 1877 da una famiglia di piccola nobiltà decaduta e di tradizioni calviniste a Érmindszent, villaggio al confine con la Transilvania, oggi facente parte della Romana: indirizzato verso studi giuridici, si dedicò presto al giornalismo, desideroso di interpretare e influenzare gli avvenimenti politici della sua terra magiara («Mia odiosamata nazione»), con un generoso impegno democratico e liberale, antinazionalista e anticlericale, decisamente ostile alla dominazione degli Asburgo. Trasferitosi presto nella città industriale di Nagyvárad, iniziò a comporre le prime poesie, immergendosi in un’esistenza inquieta di sregolatezze, alcol ed esperienze sessuali promiscue che lo portarono a contrarre la sifilide, malattia che lo tormentò negli anni a seguire, conducendolo alla paralisi e a una morte precoce nel 1919.

Ady esibiva provocatoriamente il suo lato di poeta maudit, lussurioso e blasfemo, sfidando il fariseismo benpensante della comunità cui apparteneva: «Siamo in tre sulla grande pianura: / Dio, io e una maledizione contadina. / So bene che tutti moriremo, / ma io lancio un forte grido spietato. // Io da solo non temo, non tremo, / tanto ormai il mio guscio è di Satana», «Né lieto avo né discendente, / né parente né conoscente, / non sono di nessuno, non sono di nessuno», «E quando dovevo comprare un bacio, / chiudevo gli occhi e chiudevo anche il cuore: // …Però le amo tutte, una per una, / Maddalena e la vergine Maria // … Io le amo appena son nate, / infanti, giovani, vecchie e mature; / Io amo ognuna che è donna: / un uomo vero, un uomo triste io sono». Trasferitosi a Parigi, entrò in contatto con le avanguardie artistiche, lasciandosi travolgere dalla loro energia visionaria, e soprattutto da un amore folle per una donna sposata, sensuale e affascinante, cui dedicò versi appassionati: «Sono ferita rovente. Brucio, dolente. / Mi strazia la brina, mi strazia la luce, / te voglio…// Baciami. Bruciami. Baciami», «Questi occhi vecchi, questi occhi tristi / non guarderanno più nessun’altra. // Scacciami pure, Léda: / a questi occhi di vecchio cane fedele / mai potrai davvero fuggire».

Sofferente nel corpo, tormentato nell’anima e nei pensieri, presagiva la morte con una sorta di “cupio dissolvi” che lo avvicinava alla pena di ogni effimera creatura: «Sono malato, molto malato. / Sii giusto, mio Dio, / e benedicimi per quanto ora soffro», «Io sono parente della morte / … Amo le rose malate / donne sfiorenti bramose, / atmosfere d’autunno / amare e radiose. // Amo i delusi, i mutilati, / e quelli che si sono fermati; amo chi non crede e chi si è turbato: / questo è il mondo che amo».

Oltre all’amore per la donna, lo teneva in vita la volontà di combattere per la sua «terra di sconfitte e trionfi», lottando «come un antico sovversivo»: «Se cento volte ti voltassi le spalle, / con o senza una motivazione, / finché mi terrà in piedi la vita, / mai potrò stare con gli infami, / ma ti starò accanto, mia bieca nazione. // … Agire, anche solo scrivendo, / ma agire comunque, irrequieti. / Con orgoglio e in alto la testa, / far sapere che qui nulla accadrà / finché rimarrà anche una sola protesta», «Né cieli né inferni al fiero magiaro / avrebbero potuto mai dare destino più bello / che essere uomo nell’inumano, / essere magiari perseguitati, / di nuovo vivi o morti ostinati». L’Ungheria, trascinata in guerra, smembrata, devastata, non riuscì a sollevarsi dalla desolazione, a cui Ady dovette assistere nei suoi ultimi disperati anni: «Tutto ciò in cui credemmo, / è perduto, perduto, perduto», «Triste e funesto il popolo ungherese, / vissuto sempre nella rivolta, per guarirlo / gli infami dannati gli hanno affibbiato / tutte le guerre e gli orrori fin dentro la tomba».

Appellarsi a Dio, allora, come estrema ancora di salvezza? Gabriella Caramore nella sua prefazione insiste molto sul rapporto che il poeta intratteneva con il divino, nelle liriche espresse con la stessa violenza interrogante e supplicante dei Salmi, ripercorrendo le Scritture (in una ritrovata memoria della severa educazione calvinista), dalla Genesi ai Profeti all’Apocalisse. Del misticismo furente di Ady, Massimo Cacciari scrisse: «È l’ateo che crede, ma il cui credere non può superare l’ateismo». La sua preghiera assume infatti le sembianze della maledizione e della bestemmia, fieramente ostile a ogni clericalismo e devozionismo, estranea all’interesse teologico. Una preghiera che si sa inascoltata nella sua richiesta di giustizia, impossibilitata a comprendere l’abissalità del mistero: «Credo, incredulo, in Dio. / Io voglio credere per davvero. / Mai nessuno ne ha avuto tanto bisogno, / né un vivo né un morto», «Di continuo disputavo col Signore / … dicono che ho offeso molte cose antiche, / dicono, così dicono», «Egli è tutto. Ma non sa benedire. / Egli è tutto. Ma non sa punire. / …Sorride. Ordina. Nient’altro. / Il suo volto è un sole di ghiaccio. // … Anche se i nostri tendini son lacerati, / e siamo in un grande, infernale dolore, / Lui si diverte soltanto: non ci ama //… romba scrosciando, risuona ridendo, / trascina, fracassa, corre incessante, / non lo tiene né diga né torpida sponda. /… Egli è Tutto ed è inconsolabile, / un Dio unico e terrificante».

Endre Ady nel corso della sua breve e turbinosa esistenza, conobbe incomprensioni e ostilità, rifiuti letterari e persecuzioni politiche, ma fu molto amato dal popolo, delle cui angustie e speranze seppe farsi portavoce. Alla sua morte, la partecipazione alle esequie fu enorme, e nel 1990 il suo viso intenso e sofferto fu incorniciato in una banconota della Repubblica Ungherese da 500 fiorini.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 19 marzo 2018

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AFFINATI

ERALDO AFFINATI, ELOGIO DEL RIPETENTE – MONDADORI, MILANO 2013

Eraldo Affinati, stimato e impegnato narratore quanto appassionato insegnante, racconta in questo volume la scuola italiana di oggi, prendendo una decisa e coraggiosa posizione a fianco degli ultimi, dei più deboli: dei bocciati. Cinquant’anni dopo Don Milani, la sua lettera pedagogica non ha più come destinatario una ipotetica professoressa appartenente a una borghesia intellettualmente e moralmente striminzita, bensì uno dei tanti pinocchi (spilungone, annoiato, strafottente, addirittura violento) che occupano sbadigliando gli ultimi banchi delle nostre classi. Il ritratto che fa Affinati di questa dilagante massa di irrecuperabili alunni è impietoso e disperante: maschi e femmine provenienti da famiglie inadeguate, culturalmente ed economicamente povere, spesso straniere. Adolescenti che esibiscono provocatoriamente la loro ignoranza, assistono alle lezioni in stato semi-catatonico oppure opponendo resistenza attiva, esprimendo la loro rabbia verso oggetti e persone, frustrati dall’indifferenza delle istituzioni e disperati nelle loro prospettive future. Affinati, forte della sua decennale esperienza in istituti professionali della periferia romana, solidarizza completamente con questi incolpevoli paria della nostra istruzione, vittime di anacronismi didattici, confinati in scuole fatiscenti, incapaci di qualsiasi dialogo con il mondo degli adulti, privi di curiosità intellettuali e insensibili alla politica. Consapevole dell’importanza del suo ruolo di educatore, e del rilievo affettivo (da vice-padre) della sua figura di docente, convinto anche di esercitare «il mestiere più bello del mondo», Affinati tratteggia i ritratti di questi suoi alunni: li segue nei loro tortuosi percorsi esistenziali e scolastici, li va a cercare a casa, se li porta in giro per Roma o li recupera nelle discoteche, sui campetti da calcio, nelle officine dove lavoricchiano in nero, nei bar, sul litorale quando ci si rifugiano in gruppetti per fumare canne. Ogni risposta esatta nelle interrogazioni è una conquista, ogni promozione una vittoria, la maturità ottenuta un riscatto davanti alle macroscopiche ingiustizie sociali. Lo studente preferito non è tuttavia quello promosso, ma quello che esprime una sua eccellenza umana, fatta di generosità e solidarietà verso i compagni. Perché se è legittimo scagliarsi contro sistemi di valutazione obsoleti e castranti (griglie, voti, note, dettati, prove Invalsi, DSA, programmazioni assillanti), è altrettanto doveroso sottolineare che a questi «ragazzi persi» è stato rubato qualcosa di fondamentale: la fiducia in se stessi e nel domani, la possibilità di un riscontro positivo in chi li giudica solo dai risultati e mai dagli sforzi compiuti, l’autostima, o semplicemente uno sguardo più comprensivo, affettuoso, incoraggiante.

«Incroci» n.29,  giugno 2014

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AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, IL MISTERO DEL MALE – LATERZA, BARI 2013

In questo volume pubblicato da Laterza, Giorgio Agamben – forse il più noto filosofo italiano in ambito internazionale- riunisce due suoi brevi e recenti saggi, impegnativi ma affrontabili anche da un pubblico non specialistico, che riflettono su argomenti di profonda rilevanza teologica.
Il mistero del male  indaga il problema filosoficamente più dibattuto già dai primi albori del pensiero religioso (unde malum? cur malum?), coniugandolo con un’empatica meditazione sulle ragioni che hanno indotto Benedetto XVI alle dimissioni. Il primo intervento (Il mistero della Chiesa) si sofferma inizialmente sulla crisi della società contemporanea, dovuta non solo alla diffusa illegalità delle istituzioni, ma soprattutto al fatto che esse hanno perso la loro legittimità, che dovrebbe fondare e autorizzare il loro potere. Non è quindi solamente la corruzione che disaffeziona il cittadino dalle istituzioni democratiche, ma l’interrogativo sulla effettiva necessità e legittimità dell’esercizio del potere. In questo senso Agamben legge il “gran rifiuto” di Ratzinger come un gesto coraggioso e rivoluzionario, perché la sua abdicazione è stata una rinuncia al potere temporale in nome di un richiamo forte e lungamente meditato alla superiorità del potere spirituale, «rispetto a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia».
Con questa prospettiva il filosofo ripercorre tutta la parabola teologica di Benedetto XVI, a partire dai suoi studi ecclesiologici degli anni ’50, su Ticonio e Agostino, sulla coesistenza di bene e male all’interno della stessa Chiesa («Gerusalemme è nello stesso tempo Babilonia, la include in sé»), per arrivare alla lettera paolina ai Tessalonicesi, che profetizza la fine dei tempi. Il brano di  2 Tess 2,1-11  è stato commentato, contestato, chiosato dalla Patristica fino alle interpretazioni di Dostevskij, Carl Schmitt, Ivan Illich, Quinzio e Cacciari: chi sia l’Anticristo qui adombrato (se l’Impero Romano o la Chiesa stessa nei suoi membri più ipocriti e corrotti), e in che modo la parusia venga ritardata dalla sua opera malvagia, è ciò su cui da sempre gli studiosi si sono interrogati.
Benedetto XVI ha costantemente riflettuto sia sul corpo bipartito della Chiesa, scissa tra bene e male, sia sulla “discessio” , la separazione finale tra malvagi e fedeli che avverrà alla fine dei tempi. Con la sua rinuncia, ha invitato i credenti a tornare a pensare al tema escatologico così spesso trascurato dalla teologia contemporanea, e al senso delle cose ultime che devono «guidare e orientare l’azione nelle cose penultime» nella storia, nella politica, nell’agire sociale e comunitario, «nell’intervallo fra la prima e la seconda venuta, cioè nel tempo storico che noi stiamo ancora vivendo»: la sua abdicazione afferma che «non è possibile che la Chiesa sopravviva, se rimanda passivamente alla fine dei tempi la soluzione del conflitto che ne dilania il ‘corpo bipartito’», se non riesce a scegliere tra l’economia e l’escatologia, tra l’elemento mondano-temporale e quello spirituale. Lo stesso parallelo vale per la società politica, scissa tra mercato e legge, crimine e onestà, incapace oggi di scelte coraggiosamente e radicalmente etiche.
Sempre prendendo spunto dalla Seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi, Agamben nel secondo saggio del volume indaga il  Mysterium iniquitatis, ambiguamente riletto dalla filosofia contemporanea in una sorta di ontologia del male. Il filosofo romano dà invece del testo paolino un’ interpretazione più radicata nella concezione cristiana della storia, che conferisce al tempo, lineare e irreversibile, un significato soteriologico. Quindi, rivalutando la traduzione del termine greco «mysterion» non più come «segreto» ma piuttosto come azione drammatica realizzata nel “qui e ora” per la salvezza di chi vi partecipa, nella concretezza del dramma storico della passione di Cristo, e nella prassi in cui si rivela «la presenza divina nel mondo delle creature», Agamben colloca il mistero paolino nello spazio teatrale della storia, dove si gioca la salvezza e la dannazione degli uomini, al di là e oltre ogni potere costituito, violento e delegittimato. Compito di una Chiesa che assicuri salvezza è quindi di reinserire il mistero del male nel suo contesto escatologico, senza trasformarlo in una struttura intemporale, ma concretizzandolo in ogni azione storica in cui «il conflitto decisivo è sempre in corso», e in cui «ciascuno è chiamato a fare senza riserve e senza ambiguità la sua parte». E’ forse quindi il caso di ricordare un versetto di Matteo, troppo poco citato, (Mt.12, 6): «Qui c’è qualcosa di più importante del tempio». Qui, adesso, in questo luogo in cui viviamo.
E viene spontaneo allora interrogarsi sui motivi che hanno spinto Agamben, e pochi mesi fa Cacciari, a dedicare le loro ultime pubblicazioni a un tema teologico così spinoso e dibattuto, ma insieme tanto avulso dalle questioni che più tormentano la contemporaneità, e così lontano dall’ inconcludenza che ci sta affondando in un pantano morale e politico: se i filosofi laici si occupano oggi con tanta acribia delle Scritture, forse dobbiamo sperare più coraggiose indicazioni di comportamento etico e di resistenza civile dai gesuiti?

«incroci on line»,  26 agosto 2013

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AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, PILATO E GESU’ – NOTTETEMPO, ROMA 2013

Giorgio Agamben continua la sua acuta disamina delle Scritture e della tradizione cristiana (iniziata nel 2000 con il commento alla Lettera ai romani di Paolo di Tarso) in questo prezioso piccolo libro, Pilato e Gesù, dedicato al più famoso dei processi, quello che portò alla condanna di Gesù: «uno dei momenti chiave della storia dell’umanità, in cui l’eternità ha incrociato in un punto decisivo la storia».

Lo fa mettendo a confronto i Vangeli canonici (e soprattutto quello giovanneo) con quelli apocrifi, ma anche indagando le fonti extrabibliche e patristiche. Ne deriva una ricostruzione accurata di tutte le fasi del processo, dal punto di vista delle formalità procedurali previste dal diritto romano; ma anche un’analisi filologica approfondita di alcuni termini fondamentali nella narrazione: per esempio, quali diversi significati assumesse nella narrazione evangelica il vocabolo “paradosis-consegna”, o quale ruolo rivestisse il “bema”, il seggio del giudice.
La figura di Pilato, «personaggio storico e persona teologica», viene ricostruita nelle sue incoerenze e nelle sue durezze, nelle leggende che lo condannarono o che tentarono di farne «un segreto campione del cristianesimo contro gli Ebrei e i pagani» nelle sue celebri e lapidarie frasi, a partire da quella che Nietzsche definì «la battuta più sottile di tutti in tempi»: “Che cos’è la verità?”.

Raccontato da santi, filosofi e letterati (sarebbe da citare anche Anatole France, che ne Il procuratore di Giudea lo immagina anziano e dimentico di un tale Nazareno), Pilato fu inserito nel Credo del Concilio di Costantinopoli solo nel 381, evidentemente per fissare «cronologicamente il carattere storico della passione».

Ma come conciliare storia ed eternità, potere temporale e spirituale, giustizia e salvezza?
Testimoni di realtà irriducibili, Pilato e Gesù si fronteggiano in un processo-farsa, e nelle loro due verità che inchiodano entrambi a una croce diversa.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Pilato-e-Gesu-Giorgio-Agamben.html    26 maggio 2016

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AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, CHE COS’È REALE? – NERI POZZA, VICENZA 2017

«La sera del 25 marzo 1938, alle 22.30, Ettore Majorana, considerato fra i fisici più dotati della sua generazione, s’imbarcò da Napoli, dove da un anno ricopriva la cattedra di Fisica Teorica, su un piroscafo della società Tirrenia diretto a Palermo». Così si apre il saggio che il filosofo Giorgio Agamben dedica a La scomparsa di Majorana, come recita il sottotitolo del volume Che cos’è reale?, in cui indaga sulla misteriosa sparizione del ricercatore trentunenne, che da quella fatidica serata non venne più ritrovato. Le lettere da lui scritte il giorno della partenza e in quello successivo a un collega e ai familiari sembravano «suggerire per il suo gesto spiegazioni divergenti, come se volesse confondere le tracce, lasciandolo intenzionalmente aperto a interpretazioni contrastanti»: suicidio, partenza per l’estero, reclusione volontaria in un monastero.

Sulle modalità e le motivazioni di questo imprevedibile e incomprensibile dileguarsi nel nulla del giovane scienziato furono compiute molte ricerche (tutte senza esito) dalle forze dell’ordine, da giornalisti, colleghi, parenti e amici. Leonardo Sciascia lavorò a lungo sul caso, pubblicando nel 1975 un pamphlet di successo in cui ipotizzava che Majorana avesse intuito le tragiche conseguenze che sarebbero derivate per l’umanità dalla scissione dell’atomo di uranio, a cui lavorava insieme al suo maestro Enrico Fermi, e avesse voluto sottrarsi «con sgomento, con terrore» alla responsabilità di contribuire a tale scoperta, rifugiandosi in incognito presso un convento certosino. Giorgio Agamben si spinge più in là di Sciascia nell’esplorare l’episodio particolare della scomparsa del fisico siciliano, inserendolo all’interno di considerazioni più generalmente filosofiche che ne oltrepassano la contingenza.

Majorana aveva scritto un articolo, pubblicato postumo nel 1942, in cui affrontava «l’abbandono del determinismo della meccanica classica a favore di una concezione puramente probabilistica della realtà», secondo le rivoluzionarie intuizioni della fisica quantistica, applicabili non solo agli esperimenti scientifici, ma anche ad altri aspetti della vita culturale, quali la statistica sociale e la politica. Probabilismo al posto del determinismo; inconoscibilità, imprevedibilità e manovrabilità del reale in uno scenario teorico inaudito e spaventevole, che postula la sua sospensione, inglobandolo nella sfera del possibile. Il filosofo romano ripercorre in un veloce e sommario excursus la strada che ha condotto il pensiero moderno ad arrendersi di fronte a una realtà non più definibile, casuale, imprevedibile: Planck, Bohr, Born, Heisenberg, Schrödinger portarono alle estreme e paradossali conseguenze la relatività einsteiniana. Il caso e non più la necessità, il caos nel mondo subatomico, un universo dominato dall’azzardo e dalla probabilità, erano già stati presagiti da correnti filosofiche del mondo antico: Agamben le richiama alla memoria del lettore, recuperando la definizione aristotelica di potenza e atto, l’atomismo di Lucrezio e l’analisi del gioco dei dadi di Gerolamo Cardano, e poi Pascal, Bernoulli fino a Poincaré, mettendo in rilievo l’opposizione tenace di una concretissima e donchisciottesca Simone Weil, per constatare quindi che «la possibilità pura si è sostituita alla realtà e ciò che la conoscenza conosce è ora soltanto la conoscenza stessa». A tale conclusione dovette giungere secondo lui Ettore Majorana, scegliendo «di sparire nel nulla e di confondere ogni traccia sperimentalmente rilevabile della sua scomparsa», in modo da produrre così «un evento insieme assolutamente reale e assolutamente improbabile».

Il taglio interpretativo che Giorgio Agamben dà della sparizione del giovane scienziato affonda nel divorante buco nero di «una domanda che aspetta ancora la sua inesigibile e, tuttavia, ineludibile risposta: che cos’è reale?»

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/Che-cos-e-reale-Giorgio-Agamben.html

19 ottobre 2017

 

 

 

 

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AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, QUANDO LA CASA BRUCIA – GIOMETTI & ANTONELLO

MACERATA 2020

Qual è la casa/cosa che sta bruciando, crollando sulle proprie fondamenta, riducendosi a cenere, secondo il filosofo Giorgio Agamben? L’individuo, la famiglia, lo stato? L’Italia, l’Europa o il mondo intero? Certo, nella drammatica fase pandemica che stiamo vivendo, sembra non esserci più spazio per alcuna salvezza, personale o collettiva che sia. Agamben con amara lucidità avverte: intorno a noi solo “panico e furfanteria” di un potere che si illude di governare attraverso uno stato di eccezione permanente, di divieti, di esperti e di medici, di furbi tecnicismi intesi a nascondere “splendore e miseria”. Splendore di un passato come radice comune (“Ci sono ancora rami e fiori nel passato. E se ne può fare ancora miele”), in cui gli uomini mostravano con orgoglio, verità e autonomia il loro volto, rispetto a un presente di rovine, di maschere, in cui prevale la cecità di una vita puramente biologica, “una nuda vita muta e senza storia, in balia dei calcoli del potere e della scienza”, placata e soddisfatta della propria rassegnata mediocrità.

Il ’900, con le sue due guerre mondiali, ha senz’altro contribuito a far divampare le fiamme dell’incendio, che tuttavia già da secoli covavano minacciose sotto le braci, senza che nessuno volesse prestarvi attenzione, per paura o superficialità. “Ora la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda”, ma continua a distruggere nell’indifferenza dei più, “così inconsapevoli da sembrare quasi innocenti”.

L’eterna contesa tra corpo e spirito, tempo ed eternità, terra e cielo, sembra oggi risolversi nel segno di una trionfante e banale materialità, in attesa che tutto frani definitivamente. Ma non è giusto tirarsi da parte, rinunciare a opporsi: “Può darsi che la vita sparisca dalla terra, che nessuna memoria resti di quello che è stato fatto, nel bene e nel male. Ma tu continua come prima, è tardi per cambiare, non c’è più tempo”.

Quale forma di resistenza allo sfacelo si deve mettere in atto, allora? Agamben suggerisce che l’unica risposta può arrivare dall’esercizio di un pensiero che sappia coniugare filosofia e poesia, capaci entrambe di parlare una lingua sorgiva, vitale, sottratta al rumore indistinto del vaniloquio. La parola della poesia è profetica, oscura, scomoda e quasi sempre inascoltata. Ad essa Agamben dedica il terzo capitolo del suo libro, scandito in paragrafi nominati con le lettere dell’alfabeto ebraico.

Perché è tanto difficile per gli uomini prestare orecchio ai profeti? Perché essi, ricordando l’eterno, fanno continuamente riferimento al Regno, presente qui e ora, sempre, anche se non avvertito né riconosciuto. Il Regno è atteso e annunciato da un segnale, talvolta minimo, spesso incomprensibile: da una parola non significante, non regolata grammaticalmente, ma allusiva e nuova, originaria. La sa cogliere e ripetere il poeta, “un’anima altrimenti vivente”, che inerme e inservibile, esprime sommessamente un annuncio, “al di là e al di qua di ogni lingua”, mentre intorno le fiamme incombono minacciose. Il Regno non è una meta da raggiungere, un eden metastorico, né una struttura politica: si avvera solo attraverso la sua unica realtà, che è la parola. “La parola del Regno non produce nuove istituzioni né costituisce diritto: essa è la potenza destituente che, in ogni ambito, depone i poteri e le istituzioni, compreso quelli, chiese o partiti, che pretendono di rappresentarla e incarnarla”. Per deprivare del potere i vari poteri che dominano la terra, bisogna prima deporre la lingua che li fonda e sostiene: oggi questa lingua “esibisce ovunque la sua vacuità e la sua afonia, si fa chiacchiera o formalismo scientifico”. Solo la poesia, solo il dialetto, nel loro opporsi al consueto ratificato, sanno superare l’asservimento del significante, chiamando le cose all’aperto, rendendole non più fatti ma eventi, epifanie del Regno.

Ancora intorno alla funzione del dire e del tacere si articolano le altre due sezioni del libro di Agamben, (come le precedenti esposte con intensità aforistica e accenti di ispirato lirismo), in cui viene vagliato il ruolo giocato dalla parola nella contiguità dei termini soglia e porta, e nella fragilità della testimonianza quando è chiamata a misurarsi con la verità.

La porta si apre e si chiude, indica un passaggio o un blocco, un limite o il superamento del limite, il dentro o il fuori dell’azione e del pensiero.

La testimonianza sancisce “l’incapacità del linguaggio di enunciare in modo assertorio la verità” – che di per sé non è mai verificabile –, e pertanto è contrassegnata da incomunicabilità e solipsismo: “testimone è colui che parla unicamente in nome di un non poter dire”, colui che esperisce l’impossibilità di enunciare la verità in una proposizione.  Il testimone parla del/al passato, e in favore di chi non può farlo: i morti, gli animali, i dementi, le cose; testimonia, quindi, innanzi tutto per la sua lingua, lontana da ogni possibilità di comunicazione, di riflessione.

È stata l’esperienza di Hölderlin quando, chiuso nella sua torre sul Neckar, ha disattivato ogni funzione discorsiva dalla propria poesia, sperimentando il grado zero della parola, il nulla di una lingua senza più mondo, l’ammutolimento, la consapevolezza di non poter conoscere. “La testimonianza è un idioma fatto solo di vocativi, cioè di parole che non significano, ma chiamano per nome gli altri, le cose”. Nessun contesto semantico, negli inni tardi di Hölderlin; solo lemmi staccati, congiunzioni, cesure, che sperimentano del suo incontro solitario con la lingua. Il silenzio finale del poeta tedesco (a cui Giorgio Agamben ha dedicato il libro più recente, pubblicato da Einaudi) è quello del testimone lasciato solo, consapevole di non sapere e volere enunciare alcuna verità.

“Una poesia scritta nella casa che brucia è più giusta e più vera, perché nessuno potrà ascoltarla, perché nulla assicura che possa scampare alle fiamme. Ma se, per un caso, essa trova un lettore, allora questi non potrà in nessun modo sottrarsi all’apostrofe che lo chiama da quell’inerme, inspiegabile, sommesso vocìo. Può dire la verità solo chi non ha nessuna probabilità di essere ascoltato”.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 23 gennaio 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, LA FOLLIA DI HŌLDERLIN – TORINO, 2021

L’ultimo libro di Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante (1806-1843), ricostruisce in forma letteraria la vicenda biografica del poeta tedesco Friedrich Hölderlin (nato a Lauffen am Neckar nel 1770 e morto a Tubinga nel 1843), la cui esistenza fu divisa esattamente in due metà: i primi 36 anni trascorsi nella normalità dei rapporti con il mondo, e i successivi 36 anni segregati a Tubinga in casa di un falegname, in preda alla follia che lo portò a rifiutare qualsiasi relazione con gli eventi esterni.

L’intento di Agamben nel raccontare il lungo periodo di reclusione domestica del celebre poeta non è stato quello di indagare storicamente, clinicamente o psicologicamente i motivi che lo portarono a evitare ogni rapporto con la società, quanto invece, basandosi su sintetici dati di cronaca e sull’analisi degli ultimi scritti – considerati incomprensibili dalla maggior parte dei critici –, di proporre un’interpretazione etico-politica della sua incapacità di vivere in comunità. Secondo il filosofo romano “il tenore di verità di una vita non può essere definito esaurientemente in parole, ma deve in qualche modo restare nascosto”: in ogni biografia convergono vari fatti, circostanze, episodi, ma non sono essi a dare il senso reale dell’esistenza di un individuo, che si costituisce e va rispettata come “figura” informulabile e mai completamente conoscibile. Gli avvenimenti sono una traccia, indicano una direzione da seguire, insieme alle vicende storiche che ad essi si intrecciano.

Ecco quindi la ricostruzione succinta degli eventi che condussero Friedrich Hölderlin alla condizione mentale che i contemporanei definirono pazzia. A metà maggio 1802, il poeta abbandonò il posto di istitutore presso la famiglia del console Meyer a Bordeaux che occupava da soli tre mesi, e si mise in viaggio a piedi verso la Germania, raggiungendo nei primi giorni di luglio, dopo essere stato derubato del bagaglio, prima Stoccarda, quindi la casa materna a Nürtigen in condizioni fisiche spaventose: magro, sporco, in preda a stato confusionale. La notizia della morte della donna amata Susette Borkenstein sembra avesse accresciuto il suo sconforto, ma per un breve periodo riprese le forze, completando le traduzioni dell’Antigone e dell’Edipo di Sofocle e componendo gli inni Patmos e Andenken, su cui aveva lavorato indefessamente. Nel giugno 1803 Hölderlin raggiunse a piedi, “attraversando i campi come guidato dall’istinto”, il convento di Murrhardt, dove incontrò Schelling, compagno di studi universitari, che di quella visita scrisse a Hegel in maniera turbata, avendo trovato l’amico “in uno stato di assoluta assenza di spirito”. L’impegno costante della traduzione senz’altro esacerbava la già compromessa salute del poeta, nello sforzo inaudito di rendere il testo greco non soltanto traducendo parola per parola come calco dell’originale, ma forzando la sintassi tedesca ad aderire all’articolazione sintattica del greco, in una personalissima ri-creazione e correzione, con l’innesto di azzardati neologismi. L’intervento “estraniante” sul testo greco fu poco apprezzato e addirittura deriso da molti letterati, tra cui Schiller e Goethe, quando il volume venne pubblicato dall’editore Wilmans nell’aprile del 1804. La madre di Hölderlin, che nelle sue comunicazioni epistolari lo chiamava costantemente “l’infelice”, riuscì a far ricoverare il figlio in una clinica a Tubinga e poi ad alloggiarlo nel 1807 in maniera definitiva nella casa del falegname Ernst Zimmer, senza mai recarsi a trovarlo.

Agamben dedica centocinquanta pagine del suo volume a una cronaca dettagliata dei trentasei anni trascorsi dal poeta nella torre (una stanza a forma circolare all’ultimo piano della casa, con una splendida vista sul Neckar e la valle circostante), riportando le testimonianze dei rari visitatori, stralci di lettere e di diari, elenchi delle spese per il mantenimento e dei medicinali somministrati, puntuali riferimenti agli avvenimenti storici coevi. E dubitando della completa follia del suo protagonista, commenta: “A metà pazzo, ma forse sano, pazzo furioso e tuttavia veggente: i giudizi sulla condizione di Hölderlin continuano a oscillare fra due poli opposti”.

Nel dicembre 1808 lo scrittore Karl Varnhagen von Ense, andato a trovare il poeta rinchiuso, così lo descrisse: “Non delira, ma parla ininterrottamente seguendo la sua immaginazione, si crede circondato da visitatori che gli rendono omaggio, discute con loro, ascolta le loro obiezioni e li contraddice con grande vivacità, cita le grandi opere che ha scritto e altre, che sta ora scrivendo e tutto il suo sapere, tutta la sua conoscenza del linguaggio e la sua familiarità con gli autori antichi sono ancora presenti in lui; di rado però un autentico pensiero e una connessione logica fluiscono nella corrente delle sue parole, che nel complesso sono solo una comune insensatezza”. Eppure, nelle lettere scritte alla madre, Hölderlin dimostra ancora una discreta lucidità, e l’esasperato formalismo con cui le si rivolge assume calcolate sfumature ironiche e parodistiche: “La mia partecipazione a Lei non si è ancora esaurita; quanto durevole è la sua bontà, tanto immutata è la mia memoria per lei, venerabile madre! La Sua tenerezza ed eccellente bontà risvegliano la mia devozione alla gratitudine e la gratitudine è una virtú. Io penso al tempo che ho passato con lei, venerandissima madre! con molta riconoscenza. Il suo esempio pieno di virtú mi rimarrà nella lontananza sempre indimenticabile e mi incoraggerà a seguire i Suoi precetti e a imitare un cosí virtuoso esempio” (1813).

Lo studente Wilhelm Waiblinger, autore del saggio Vita, poesia e follia di Hölderlin, pubblicato postumo nel 1831, scrisse che il poeta nel corso dei loro ripetuti incontri si esprimeva con termini talvolta incomprensibili mescolati al francese, ripetendo frasi stereotipate (“Es geschieht mir nichts”, – non mi succede nulla –, oppure “A questo non posso, non mi è lecito rispondere”), rivolgendosi agli ospiti con un inchino,  in maniera cerimoniosa: “Vostra maestà, Vostra Santità, Vostra Grazia, Vostra Eccellenza, Signor Padre! Graziosissimo, io attesto la mia soggezione”, improvvisando musica sul pianoforte, passeggiando in giardino con i membri della famiglia Zimmer o fissando immobile fuori dalla finestra il fiume e la campagna. A volte sembrava vegetare in uno stato catatonico, altre dava in improvvise escandescenze. La sua produzione poetica, affidata a fogli singoli, negli anni della reclusione si limitò perlopiù a liriche in due strofe dedicate alla natura e alle stagioni, oppure a quartine ripetitive e monotone dall’umile struttura rimata, “definite da un’estrema paratassi e dalla deliberata assenza di ogni coordinazione ipotattica”, firmate con pseudonimi e riportanti date di fantasia.

Secondo Agamben, sembra “quasi che Hölderlin cercasse di articolare un altro modo – non logico – della connessione fra i pensieri”. Come nel vissuto quotidiano e nei ragionamenti slegati, così anche nei versi non esisteva coordinazione: sembravano semplicemente giustapposti e poi bloccati in un isolamento asemantico, con un continuo avvicinamento e distanziamento dal proprio significato. Walter Benjamin aveva intuito a quale dedizione il poeta tedesco si fosse votato, optando per una poetica disarticolata e spesso incomprensibile: “il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo”.

Quando nel 1826 alcuni estimatori si adoperarono per far pubblicare le sue creazioni migliori, il poeta non manifestò particolare interesse. Rimase indifferente anche alla notizia della morte di alcuni amici, della madre (1828) e del falegname Zimmer che lo ospitava (1838). Affidato alle cure amorevoli della figlia di quest’ultimo, Hölderlin morì di polmonite nel 1843, a 73 anni, poco dopo aver firmato la sua ultima composizione, La veduta, con il nome fittizio di Scardanelli; “Quando lontano va la vita abitante degli uomini, / dove lontano splende il tempo delle viti / e vicini sono i vuoti campi dell’estate, / la selva appare con la sua scura immagine; // che la natura compia l’immagine dei tempi, / che essa si fermi e quelli subito trascorrano, / è per la perfezione, l’altezza del cielo / risplende per l’uomo, come alberi incoronati di fiori”.

Alla poesia e non alla riflessione o alla conoscenza, Hölderlin affidò il compito di afferrare e dire la verità dell’essere: la “vita abitante”, quella vissuta per abitudine, nei trentasei anni trascorsi nella torre di Tubinga, era lontana e indifferente allo scorrere del tempo, mentre la perfezione risiedeva nella sommità dei cieli. Per Agamben “Hölderlin non ha cercato la pazzia, ha dovuto accettarla, ma … la sua concezione della follia non aveva nulla a che fare con la nostra idea di una malattia mentale. Era, piuttosto, qualcosa che si poteva o si doveva abitare… E vivere non significa forse per gli uomini innanzitutto abitare?” Proprio al termine “abitare” (wohnen, in tedesco) sono dedicate le venti pagine, intense e partecipate, dell’epilogo nel volume einaudiano. Hölderlin dimorava nelle sue giornate secondo abiti e abitudini liberi da ogni affezione e determinazione, in una passività indefinita che abdicava sia all’essere sia all’avere, sia all’identità sia al nome. La sua vita abitante o abitiva, scandita solo dal ripetersi di atti invariati, non conosceva più l’opposizione tra pubblico e privato, ormai coincidenti in una posizione di stallo: non era tragica, in quanto priva di azioni decisive e imputabili, né era comica, cioè basata su insensatezze deresponsabilizzate. Era invece “un semplice, quotidiano, trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale, che parla e fa gesti, ma alla quale non è possibile imputare azioni e discorsi”.

In questo labile e innocente abitare l’esistere – anche nel fallimento sociale, nel decadimento fisico e mentale, estraneo a successi e trionfi –, rimane il lascito etico e politico del poeta rinchiuso nella torre: nel suo “abitare poeticamente la terra” c’è meno follia di quella in cui l’intera umanità sta colpevolmente precipitando oggi.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 9 marzo 2021