ALESSANDRO CENI, 77 – HELICON, AREZZO 2019

 74 poesie edite + 3 inedite: settantasette sono le poesie raccolte nell’auto-antologia di Alessandro Ceni, poeta-pittore-traduttore nato a Firenze nel 1957. Ceni ha vinto numerosi premi letterari, esposto i suoi quadri in note gallerie, e tradotto classici anglo-americani per le più importanti case editrici italiane: ma vive appartato ed estraneo a conventicole culturali nella vecchia casa di famiglia a Pian dei Giullari, sulle colline fiorentine; sposato, con due figli. Nei suoi versi alcuni critici hanno voluto leggere l’influenza della poetica di Walt Whitman e di Dylan Thomas: in realtà, la sua scrittura mantiene un’impronta originale e fedele a se stessa da più di trent’anni, e sostanzialmente atipica nel panorama letterario italiano.

Settantasette si presenta come una raccolta acquatica, erbosa, ventosa, avendo per lo più come sfondo un ambiente fatto appunto di fiumi e torrenti, di prati e piante, di elementi atmosferici e cosmologici. Ma non è certo un sentimento panico di immersione nella natura quello che contraddistingue l’atteggiamento del poeta, poco incline alla nostalgia retorica verso la genuinità idilliaca della vita campestre. Piuttosto, l’aspetto che caratterizza la sua posizione di osservatore distaccato e disincantato dell’ambiente circostante è l’interesse per la storia, la geografia, le scienze naturali, che viene espresso attraverso l’esibizione di una terminologia specifica, fatta di vocaboli tecnici o desueti, emergenti da una tessitura linguistica destabilizzante, quasi provocatoria.

Ne è un esempio, subito in apertura, l’attacco della prima poesia, I campi davanti: “Voltatoti, / le rovine fumanti / il pìare lento / il risolversi in un soffio del tarassaco: // revelle / stacca a forza / distoglie in altra parte: // la cupola del fieno / la portula che vi si apre / che ne camuffa un’altra / dove un flamine cieco ti tasta”.

Il lessico tratto dalla botanica e dalla zoologia è sconcertante nella sua insolita sovrabbondanza: vegetali e animali costituiscono una sorta di bizzarra enciclopedia dell’inusuale. Tarassaco pappo pungitopo polmonaria racemo austorio loppa gluma esperidio boaria accompagnano i più usuali pruni gelsi frumento rosmarino arance e limoni. Volatili dai nomi stravaganti (frusoni ossifraghe ardeidi) si associano ai più domestici corvi, gabbiani, rondini, cigni, oche.

Da cosa è definito il paesaggio della poesia di Alessandro Ceni? Dall’acqua, intanto, elemento mobile e inafferrabile, amico-nemico, minaccioso e salvifico (“Lascia che il fiume sciolta in te la zavorra della speranza / si volga a controllare gli scalmi / e discenda le numerose anse del suo andare, che moltiplichi, / sgomiti, macini sassi stesi ed erbe insane; cose, tutte / facilmente immaginabili”, “acqua desolata / amata soltanto dal silenzio delle piante, / dai gesti e suoni d’un solitario animale”). Dalla luna, più del sole misteriosa ed evocativa, resa pertanto classicamente, leopardianamente (“Luna, luna, immobile luna nella mente”, “l’eterna e sconfortata luna”, “una luna acidula e mezzana d’amori”). Da boschi, campi e rocce (“gli erbari ronzanti e i minuti insetti estivi”, “l’erba che si rialza nelle impronte, / lo sbandare della pineta”, “agri argini / acuminati di gialle fruste / di fossi sannuti e balze e pruni e gelsi”). Tutto un repertorio naturale a cui si oppongono descrizioni perimetrali di case, paesi, città, cimiteri, ospedali, ricoveri per indigenti: costruzioni umane, insomma, e per questo impenetrabili e ostili.

Naturale e artificiale sono intesi come antipodi concettuali, alla stessa maniera in cui si contrastano e compenetrano passato e presente: preistoria, medioevo, risorgimento, guerre mondiali, viaggi astrali… Come le epoche storiche, anche i luoghi geografici si intersecano e sovrappongono, indefiniti e mitici: la Valle dello Scesta (con i suoi calanchi, torrenti, dirupi) sfida gli altopiani del Nord America, le tombe etrusche affiancano i “fabbricati isolati” delle periferie industriali, le navi spaziali sorvolano Auschwitz.

Analizzando poi l’elemento antropico nei versi di settantasette, notiamo che non esiste reciproca benevolenza tra uomo e natura, tra uomo e uomo, tra uomo e Dio. Piuttosto rintracciamo gesti assassini, ostilità mortali e celesti, indicanti ferocia o indifferente sadismo, impermeabili al sentimento della pietà: “Là c’è una donna, che con la mano / si spande le lacrime sul volto; / con quelle stesse dita che lo conobbero / e che durante la notte desiderarono ucciderlo”, “Possa colui che sposta i confini / annientare cielo e mare / cancellare i tuoi passi nel ritorno, / possa perderti, schiacciarti sul promontorio”, “viene a massacrarci un odio / abbassata la guardia / spento il lume”, “Non dico, no, torna a casa / e picchia tua madre, dico: / torna a casa e guarda tua madre / come se volessi farlo; meglio, / come se l’avessi fatto”, “ di qua / tutto è infelice e indigesto, / gli uomini vanno servi, le donne prostitute, i bambini / vomitano densi liquidi verdi e cacano nero”, “Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il / proprio amore / e non perdonano e sono spietati / e strappano gli occhi dei fanciulli”.

Un cielo senza dio, quello di Alessandro Ceni, in cui “Non vi si distende la grazia di nessun Signore”, «perché se una divinità esiste, è un Dio che “mangia con le mani”, cannibalesco, onnivoro, crudele, da cui l’essere umano non viene soccorso e benedetto, ma è tenuto lontano, se non addirittura respinto.

Il “tu” così spesso presente nei versi di Ceni sembra indicare un’apertura alla conoscenza, un incoraggiamento, un invito, ma in realtà è rivolto più a se stesso che ad altri, con un frequente scambio di soggetto all’interno della medesima composizione, di maschile improvvisamente mutato in femminile, di singolari moltiplicati in plurali, come a dire che l’individualità non è più difendibile, nella sua illusoria apparenza; non c’è più nessun io, nessun tu, si è ovunque e in nessun posto, eternamente spaesati: “la mente altrove e lo spirito sempre”.

La resistenza che i contenuti manifestano nei riguardi di una comprensione solidale e garbata dell’esistente è ribadita anche dalla struttura formale dei versi di questa raccolta, in cui si dispiega un ricchissimo repertorio di figure retoriche (analogie, iperbati, anafore, anacoluti, sinestesie) che contribuiscono a rendere ancora più irta una sintassi di per sé già frammentata e contorta.

Anche i frequenti e spiazzanti neologismi e arcaismi (incanna, cannicciati, infemminirsi, slontanano, sovrassalati, sbrezzano, avverdite, pacciume, ghiareti, storre), contribuiscono a rendere straniante il messaggio del poeta. Mentre la ripetizione di vocaboli, avverbi o aggettivi, spessissimo a tre a tre, ottiene di cadenzare il ritmo della poesia in un respiro più lento: “e balze e pruni e gelsi; per dune / forre stagni; ad angoli anime animali; la foglia, l’ala, il vento; tra / aria e aria e aria; il marmo il granito il cinabro; cieco sordo invalido; il bue il maiale l’oca; resta resta resta; non / ricordo non ricordo non / ricordo; schizzi emissioni flussi; e frusci e sussurri e sospiri; incolmabile e adorata e vuota; nell’orto nella vigna nell’agro; corsi d’acqua, strade, siepi …”. Questa strategia formale viene ripresa anche in articolazioni di verseggiatura più ampie: Il canto delle balene: “com’è possibile possibile / possibile che tu ti esprima esprima esprima con / parole comprensibili da noi da noi da noi / che ti abbiamo tolto e ritolto dalla vita / dalla vita con le sue parole?”; Nella valle dello Scesta: “concludersi in una continua scia tra le foglie / o perpetua macellazione tra le foglie / o fortore di bestia inferma tra le foglie / o rapido slaccio di cintura tra le foglie”; Forma: “io ti saluto mentre la porta si chiude / mentre la porta scorrevole dell’ascensore si chiude / mentre la portiera della macchina si chiude”.

Considerando che l’autore utilizza poco la punteggiatura (fatto salvo il punto fermo a conclusione di ogni composizione), e pochissimo la rima, sembra ipotizzabile che la formula della reiterazione venga sfruttata con finalità quasi musicali, echeggianti la canzone popolare, folclorica, magari – parodisticamente ‒ lo stornello toscano che tanto si adatterebbe alle immagini campestri e alle leggende tradizionali evocate dai suoi versi (non è un caso che a lui si debba la curatela di Fiabe irlandesi e Fiabe africane per l’editore Bulgarini)

Una poesia difficile, in qualche caso addirittura respingente, questa di Alessandro Ceni, perché non consolatoria e volutamente esasperata. Ma densa, intricante, visionaria, e persino metafisica nel suo avvampante descrittivismo concettuale.

© Riproduzione riservata                     «Il Pickwick», 2 marzo 2020