NOAM CHOMSKY, LE DIECI LEGGI DEL POTERE – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE, 2017

Scrivere oggi di “padroni”, “odio di classe”, “sfruttati”, “dittatura capitalista” può sembrare obsoleto, retaggio malinconico di un’illusoria eredità sessantottesca, roba da patetico pamphlettista   vetero-marxiano.

Se lo fa Noam Chomsky (Filadelfia,1928), linguistafilosofostoricoteorico della comunicazione, con il suo pervicace e sbandierato anarchismo libertario, risulta un po’ più intrigante, in quanto difficile da liquidare come delirio senescente di un arrabbiato e nostalgico hidalgo delle rivoluzioni che furono. Professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, Chomsky è stato il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale ‒ oggi messa alquanto in discussione da più cattedre ‒, con alcuni basilari volumi (Syntactic structures, 1957; Language and mind, 1968; The logical structure of linguistic theory, 1975; Language and problems of knowledge, 1988). Ma è stato anche vivacissimo polemista, vox clamans contro l’imperialismo americano (American power and the new mandarins,1969; At war with Asia, 1970; Human rights and american foreign policy,1978), contro l’addomesticamento dei media teso a fabbricare un consenso acritico (Manufacturing consent: the political economy of the mass media, 1988), contro le miopi e corrotte politiche ambientali che stanno portando l’intero pianeta all’autodistruzione.

Queste tesi, provocatorie e impetuose, sono riprese sinteticamente nel volume edito da Ponte alle Grazie, Le dieci leggi del potere, che riporta lo stesso programmatico sottotitolo (Requiem per il sogno americano) del documentario-intervista di Hutchison-Nyks-Scott presente in rete e su Netflix. Il libro si compone di dieci capitoli, corredati ciascuno da un elenco di fonti: brevi estratti da testi di filosofia ed economia, oppure da articoli di giornali, proclami politici, statistiche, degli autori più vari. Si citano Aristotele e Malcolm X, Berlusconi e Bill Clinton, Walt Disney e Mc Donald’s.

In uno stile semplicissimo, paratattico, quasi didascalico, Noam Chomsky ripercorre le motivazioni perverse che hanno condotto la più grande potenza mondiale all’inarrestabile declino etico attuale, all’impasse di immagine del suo profilo di stato-guida agli occhi dell’umanità intera. Sono sostanzialmente ragioni che derivano dalla volontà di concentrare il potere e la ricchezza nelle mani di un’oligarchia finanziaria senza scrupoli, che si appoggia agli interessi delle grandi banche e delle multinazionali, e che per trarre sostanziosi vantaggi economici tende a ridurre gli spazi democratici sia all’interno degli USA sia globalmente. Lo fa plasmando le menti dei consumatori attraverso un bombardamento mediatico mirato, mettendo il silenziatore alle voci critiche, limitando il diritto allo studio, precarizzando il lavoro, privatizzando la sanità. A livello produttivo, penalizza l’industria manifatturiera a vantaggio degli istituti finanziari, delocalizza la manodopera sfruttando lavoratori dei paesi poveri, e ha come unico principio la libertà del mercato e gli interessi delle lobby capitalistiche. Addio solidarietà sociale e tutela degli indifesi, addio sindacalismo e garanzie per la classe operaia, addio all’American Dream di partecipazione democratica di base: e invece sostegno al marketing deregolamentato, alla fabbrica del consenso, alla sostanziale marginalizzazione del popolo, allo spreco consumistico, all’inquinamento ambientale.

Un profeta scomodo, Noam Chomsky, grillo parlante a vuoto in una società che preferisce non ascoltare.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 22 ottobre 2017