MARINA CVETAEVA, SETTE POEMI – EINAUDI, TORINO 2019

Introdotti da un accurato e appassionato saggio della curatrice Paola Ferretti, sono da poco usciti per Einaudi Sette Poemi di Marina Cvetaeva, che la poetessa compose durante i primi anni del suo esilio dalla Russia. La scelta di oltrepassare la misura ristretta della lirica breve, fu determinata dall’esigenza di arricchire la materia del suo canto attraverso l’esplorazione temporale del passato (con apporti di temi folkloristici e fiabeschi), del presente (traendo spunto dalla cronaca caotica, febbrile e violenta di quegli anni), e di un futuro proiettato in una visione più utopica e spirituale. Il filo collante che aggrega i vari motivi presenti nelle sette composizioni è comunque quello della ossessione amorosa, talvolta più pensata che vissuta, più desiderata che osata, come nel rapporto intenso con Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, o con altri giovani letterati, entusiasticamente idealizzati. Sullo sfondo di questo sentimento dominante risalta la presenza fisica degli ambienti, quelli naturali (la montagna, il mare, l’aria, il cosmo) e quelli urbani e domestici (le scale, le stanze).

«Con dirupi e tornanti si avventava / di sotto ai piedi, la Montagna. // Con fiere grinfie di titano / ‒ con le conifere, gli arbusti ‒ / l’orlo arpionava, la Montagna», «Coralli di granchi, leggi: gusci. / Gioca il mare, chi gioca – è grullo. // … Giochiamo, allora / a conchiglie», «Dalle imposte verrà l’indizio? / Stanza allestita a precipizio, / sul fondo grigio – bianco sporco, / stanza minuta, stanza brogliaccio», «Scaffale? Caso. Stampella? Caso. / Caso pure quello spauracchio / di poltrona. Sterpume e seccume ‒ / bosco d’ottobre bello e buono!».

Come si evince dai versi riportati, il tono di questi poemi è concitato, esaltato, oracolare e insieme frantumato in un respiro ansioso, sottolineato dai continui punti interrogativi ed esclamativi, quasi la poetessa cercasse in sé e in chi legge o ascolta conferme e risposte a domande lanciate nel vuoto, con la speranza di una realizzazione del desiderio o con l’angoscia di una sofferenza inutilmente repressa. Esponente di spicco del simbolismo russo, in un primo momento vicina all’energica oratoria di Majakovskij, poi rivolta a una riflessione più controllata ma sempre audacemente innovativa, Marina Cvetaeva utilizzò nei Poemi un linguaggio di grande forza espressiva, basato sull’uso della metafora, della ripetizione e della negazione, con un’originale e accorta attenzione agli effetti fonici e all’ordito sonoro dei versi, all’impiego di rime provocatoriamente facili e di costruzioni sintattiche disorientanti.

Nata a Mosca nel 1892, figlia di un filologo e di una musicista, crebbe in un ambiente colto e raffinato, iniziando prestissimo a scrivere versi. Nel 1911 sposò uno studente di filosofia, Sergej Efron, che arruolatosi allo scoppio della rivoluzione nella Guardia Bianca, fu in seguito coinvolto in atti di terrorismo, per venire infine imprigionato e fucilato come traditore nel 1941. Con il marito e i figli era emigrata dapprima a Praga, quindi a Berlino e a Parigi, per poi tornare in Unione Sovietica nel 1939. Qui visse per altri due anni tormentata da problemi economici, dalla censura stalinista e dall’ostilità degli intellettuali di regime: difficoltà dolorose che la indussero a togliersi la vita, impiccandosi il 31 agosto 1941 all’ingresso dell’izba che aveva affittato nel villaggio di Elabuga. Nel suo Poema della fine si avvertiva già il presentimento della morte ineluttabile e liberatoria: «Casa, ovvero; da casa via, / dentro la notte. / (A chi dirò / la mia mestizia, la sventura, / l’orrore, più che gelo verde? … )  // … Non si deve, dunque. / Non si deve, allora. / Piangere non si deve. // … Con cocente sangue / si paga – non si piange. // … Il corpo c’era, vivere voleva. / Non vuole vivere, ora. // … E via, dentro i flutti cavi / di tenebra – cadenzato, ricurvo ‒ / senza far motto, senza scia – / come affonda un vascello».

Così scrive Paola Ferretti nell’importante introduzione a questo volume di Marina Cvetaeva, «I Poemi degli anni Venti traboccano di reciproche risonanze, vibrano degli stessi, elettrici impulsi, dominati come sono dalla volontà di oltrepassare le barriere della finzione per generare accadimenti e incontri palpabili, porre riparo a eventi già occorsi, istituire orizzonti inediti».

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Sette-poemi-Cvetaeva.html       3 maggio 2019