EUGENIO DE SIGNORIBUS, CASE PERDUTE – IL LAVORO EDITORIALE, ANCONA 1989

 

La Bovary c’est moi, diceva Flaubert, e si riferiva naturalmente al personaggio, al suo carattere, al suo destino: ma forse anche alla forma che prendeva la sua scrittura nel momento in cui si faceva voce di Emma, diventando stile personalissimo e inconfondibile, “voce”, appunto, flaubertiana. Mi chiedo se ciò non avvenga a tutti gli autori; questo immedesimarsi e confondersi con le loro creature e le loro storie, un po’ come avviene alle madri con i figli più amati.
E’ accaduto senz’altro al poeta Eugenio De Signoribus, e al suo libro  Case perdute: che gli assomiglia, come giustamente hanno affermato alcuni commentatori, già nella nostalgia evocata dal titolo; le case perdute sono quelle in cui abbiamo abitato e che ci sono state tolte, con la violenza gratuita e ingiustificabile che tenta di distruggere i ricordi: sono l’aria che abbiamo respirato, i movimenti che abbiamo fatto, le foto in bianco e nero finite in fondo a chissà quale cassetto. Foto simili a quella riprodotta sulla copertina del libro, con quattro ragazzini anglosassoni del dopoguerra, coi pantaloni di velluto o di stoffa sopra il ginocchio, la sfumatura dei capelli alta sulla nuca, e un accenno di ricciolo sulla fronte: mani in tasca, confabulano davanti alla vetrina di un negozio (una farmacia? una drogheria?) Che profumo di passato da questa immagine, che malinconia sottile, anche se «le foto mai dicono il vero / quando gli anni non si riconoscono». E la poesia, può dire il vero? Senz’altro quella di De Signoribus non si pone nessuna finalità cognitiva, di interpretazione del reale, e forse nemmeno aspira a proporsi quale strumento di descrizione del reale. Sembra, invece, propensa ad affermare (ma senza polemica o tensione, con la signorile nonchalance di chi non ha dubbi) l’inconsistenza dei dati materiali rispetto al mondo soggettivo, del ricordo o del sogno: «ma sì, che resti questo odore / di buio canforato / denso come cent’anni / di respiri non dispersi // (che anno fu quell’anno che fece tanta neve?)»

In un ipotetico inventario di oggetti e arredi appartenuti a una “casa perduta”, si sottolinea l’importanza del superfluo, mentre il necessario viene snobbato: «Il cesso? non importa / ma c’è la carta igienica?»; «- e la porta?- / muratela! / entrerò dal soffitto». Il poeta proclama allora con un qualche orgoglio la sua indifferenza e la sua superiorità rispetto alle scelte oculate e miopi dei più, rispetto alla ragionevolezza ottusa dei montaliani «uomini che non si voltano»: «qui, non visto, può stare / sopra la folla meccanica / nell’ avantindietro senza sosta / augure dal corpo d’uccello»; o ancora: «poi l’uscire senza fronzoli / il chiudere la porta con decisione / non badando all’indugio del micio / sulla soglia… certo, per te, / per la tua civile concretezza anche lui, il soffice felino evirato, / deve imparare a sveltirsi…»
Neppure alla poesia è tuttavia concesso di svelare il mistero, di spiegare l’ignoto: «ma da che parte da quale segreta / s’arriva al cuore di una cosa…», «nulla emerge dal folto se non qualche / uccello improvviso e invisibile»», «a furia di girarsi intorno / come un cane da fiuto / il cervello s’incagna per minimi casi», «un labirinto di strade e scale tentacolari / vicoli ciechi in stabile penombra… ». I confini si dissolvono e s’intrecciano fino a confondersi, le storie individuali sfumano in una nebbia da brughiera. I paesaggi di De Signoribus sono tutti autunnali e albali, da pianura e stagni e cacce stanziali: la natura non vi è né amica né nemica, esiste indipendentemente da chi la osserva, selvaggia, rigogliosa, acquatica; le presenze umane paiono scorporarsi, e soli si stagliano in una loro magica fissità gli oggetti nudi, o animali immobili e impenetrabili (lucertole, lumache, roditori, ma soprattutto uccelli). I pochi personaggi degni di essere raccontati sono bloccati nel reiterarsi di prove sul palcoscenico o sul set cinematografico, oppure nella rappresentazione finale della morte, come nell’incubo dell’agonia del padre: «lo guardavano più bianco del bianco / ripercorrere all’inverso rapidamente / tutte le tappe ossee della crescita / e in un vagito scomparire…».
Fare i conti con un esistente che non si sa (non si può) definire è la sfida ultima del linguaggio di De Signoribus, che evita lo scontro diretto, il lampo oggettivo del flash, preferendo aggirare l’ostacolo, avvicinarlo per appostamenti progressivi. Il suo discorso sembra tendere alla mortificazione del soggetto, ma anche dell’oggetto e -se possibile- del linguaggio stesso, lasciato sospeso, tra rinuncia e umiliazione, gravido di intenzionalità ma volutamente depistato.
Poeta di un getsemani delle parole, De Signoribus irride alla facili pasque del passato, a quelle impossibili del futuro.

 

«Agorà» (Svizzera), 11 ottobre 1989

«L’Arena», 6 dicembre 1990