ARNALDO EDERLE, PARADISO – UDINE, CAMPANOTTO 1994

Paradiso è il titolo dell’ultima raccolta poetica di Arnaldo Ederle, paradiso come una sezione della raccolta stessa, ma soprattutto come “altrove” della poesia, luogo della mente o dell’anima cui fare riferimento al di là delle brume opache dell’oggi, del qui.
Ederle è poeta d’immagini, ma non dell’occhio; è poeta di suoni, ma non dell’orecchio, perché nei suoi versi ogni elemento materiale pare in qualche modo sbucciato dalla sua corporeità, reso più lieve e meno oggettivo. Così le immagini diventano visioni, i rumori si fanno note di una partitura mentale le cui pause e accelerazioni, i cui “piano” e “fortissimo” segnano il tempo concreto della poesia scritta (o, come preferisce l’autore, letta ad alta voce).
Ferdinando Bandini, nella prefazione al libro, parla giustamente di «moto pendolare tra l’impatto con le cose (colori e atmosfere) e l’altro momento del suo periodo in cui il poeta si dirige verso il significato segreto delle cose, quel loro assediare, così inesplicabilmente, lo spazio della vita».

E qui ci viene in soccorso Ederle stesso, con alcuni versi tratti dalla prima, breve sezione del volume, scritta a commento di una cartella di fotografie: Viaggio dall’acqua alla casa, da ciò che si muove a ciò che è fermo, dall’indefinibile all’ancoraggio del concreto: «chi trovasse una casa, chi il riparo / dalla spietata deità della terra, / dall’invincibile abbraccio, / chi sfuggisse del cielo / il soprannaturale ammaliamento…». La casa come approdo concreto, quindi, riparo da un se stesso che si teme, ma anche recupero di un passato, di una memoria fatta di porte, pareti, scale, lavelli, tavolini, posacenere: tanti elementi corporei scolpiti nel ricordo, e ritrovati da passati diversi, sebbene ugualmente coinvolgenti e sofferti.
Ecco, dunque, un’altra chiave di lettura, il contrasto tra interni ed esterni, entrambi fascinosi e carichi di emozioni. Per rimanere nella prima sezione, gli elementi del “fuori” appaiono vaghi, inconsistenti, e forse per questo tanto più seducenti: nebbia, acqua, fumo, sabbia, riflessi di luce, aria, e il colore bianco o una vernice trasparente, appena increspata dal desiderio del colore. Ederle in questi versi pare avere assorbito e rimodellato la lezione dei più distesi tra i nostri lombardi: Sereni, Raboni. Più rilevante, nel succedersi della altre sezioni, è invece la contrapposizione tra presente e passato, la nostalgia per ciò che è stato e che si può tentare di ritrovare solo attraverso le parole; ma anche la nostalgia per ciò che è, e non sarà più tra poco, perché condannato a sparire, al non durare: «Quello che inizia ora è già finito, / non dico da lungo tempo, ma / da un numero d’anni sufficiente / a farlo passare per esistenza».

Ederle sembra tormentato dalla «mania dell’affetto seminato / nel rosa della carne». E’, in Fervida brace, il ricordo dell’amico poeta Giuseppe Piccoli, cui dedica sedici brevi componimenti che prendono l’avvio da altrettanti versi di lui. E chi ha conosciuto Piccoli ritrova in queste poesie i suoi odi turbati e sospesi, il suo essere poeta di gesti a disagio nel mondo, oltreché di parole e di pensieri: «ciò che resta / dei tuoi scherzi, il galateo gentile / che faceva arrossire le commesse;  La sua pelle / spiega il gesto infantile, / lo ricama; Lì dentro l’indistinto svaporare / d’ombre e vapori, nella fervida / brace appesa alla tue dita / ti distinguono; certo avrai tentato / di rannicchiarti tutto in un orecchio / ad ascoltarti dentro / se per caso il silenzio / volesse regalarti qualche pace; Tu qui sostavi / e in ogni altro altrove confortato / dal granello di spirito / ch’era rimasto salvo per miracolo / nell’angolo più buio della tasca / della tua giacca».

C’è, in questi versi, «mania dell’affetto», rimpianto, tenerezza verso il perduto, ma soprattutto un senso forte di mancanza, di incompletezza e quasi di colpa per essere chiamato a testimoniare, a ricordare. Lo si avverte anche nella sezione Paradiso, una specie di recitativo tra tre personaggi: il poeta stesso che parla in prima persona, suo padre Duilio e il lontano parente Chiereghino che riposano vicini nel camposanto di Verona, «in quel pollaio / di calti appesi al cornicione». Si tratta di un dialogo morti/vivi che non si risolve tutto e solo nel privato, benché ci sia anche questo (rimbrotti affettuosi, coinvolgimenti in episodi personali, immagini di un passato comune). Al di qua del paradiso si impone, irriducibile ad altro, la storia, con la guerra, gli ebrei e i tedeschi, gli ebrei e i palestinesi, Verona e i gabbiani sull’Adige, il lavoro degli artigiani di quarant’anni fa, il marocchino che oggi insegue la sua Mecca offrendoci accendini.
Arnaldo Ederle poeta testimone controvoglia, forse, perché la cronaca o la polemica civile non appartengono al suo registro di scrittura, è poeta del male di vivere («anche passano / al mio fianco paure oblique»; «Sì, l’ho vestito il sacco del dolore»), poeta del tempo (personale e perduto da una parte, metafisico e indifferente dall’altra), aggrappato alla poesia come fosse una lancetta di orologio, interno o cosmico, comunque misura dell’esistere.

 

«Verso» 9 /10, dicembre 1995