FRANCO FORTINI, I CONFINI DELLA POESIA – CASTELVECCHI, ROMA 2015

Di Franco Fortini (1917-1994), protagonista tra i maggiori della cultura novecentesca italiana, l’editore Castelvecchi propone due conferenze sulla poesia tenute nel 1978 e nel 1980 nelle università del Sussex e di Ginevra. Erano anni di pesante conflittualità sociale e politica, di vivaci polemiche intellettuali, di pulsioni utopistiche. Di tale tensione etica si nutrono i testi fortiniani, dei quali il primo (Sui confini della poesia) si interroga – nello spazio di pochi, lineari paragrafi – sul ruolo della poesia e dell’arte nella società, mentre il secondo (Metrica e biografia) si sofferma sui tratti peculiari della produzione in versi dell’autore stesso.
Attualissime, pungenti e amare paiono le considerazioni delineate nel primo saggio, a partire dalla constatazione che la letteratura italiana ha lentamente virato verso posizioni antistoriche, individualistiche e di mercato, divaricandosi tra un «vitalismo neosurrealista» e un «formalismo esasperato», accentuando «una perdita di memoria del passato» e una «proliferazione produttiva dell’inutile». Nel suo rigoroso richiamo alle fonti del marxismo, e quindi a un’arte che sia anche educativa, e mantenga una valenza pedagogica, Fortini si rifà a Lukács, Horkheimer, Adorno. Pur riconoscendo che la poesia ha una dimensione conservatrice e conciliatrice, perché espressione di gratuità e privilegio (il cuore di un mondo senza cuore… Il sabato di un villaggio senza domenica), in una collettività sempre più reificata e indotta alla pura produzione e al consumo, Fortini sa che essa rimane uno dei rari luoghi integri, non invasi dalla sclerosi della prestazione. Aumenta la richiesta di una letteratura di successo, che rimane l’unica abbordabile dai ceti subalterni, e in grado di trasformarsi in esibizione e spettacolo: ma resta forse ancora la possibilità di un’arte più meditata formalmente, più consapevole del significante e non solo dei significati, attraverso cui «gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza».
Nel secondo intervento, Fortini racconta di sé adolescente, del suo avvicinamento alla poesia determinato dal desiderio di difendersi «dalla volgarità del quotidiano», «scavalcando» la storia ottusa degli anni fascisti. E di come poi abbia compreso quanto sia invece necessario rapportarsi col proprio tempo, perché «c’è qualcosa di più importante della più importante e sublime opera di poesia». Questa rigidità ideologica di fondo lo confermò nella necessità di produrre versi severamente vincolati a regole metriche: al punto da costringersi a lavorare per sei lunghi mesi a un’unica composizione (La poesia delle rose), continuamente rielaborata nelle sillabe e negli accenti, che finì per rivelarsi fallimentare, anzi addirittura «mostruosa»».
L’interesse di Fortini per la metrica indica l’estremo appassionato rispetto per la fattura del verso, per la sua morfologia, per gli aspetti più tecnici della scrittura: cosa che ha fatto di lui, sia come poeta sia come intellettuale, un «ospite ingrato» della nostra letteratura, oggetto di «esecuzioni sommarie e ordini di scuderia intese a tacitarne la voce», come ricorda nella sua intelligente prefazione Luca Lenzini.
E non poteva essere altrimenti, per chi aveva anzitempo diagnosticato «la fine del mandato sociale degli scrittori», affermando che «L’unico modo di resistere alla morte è quello di costituirsi entro un sistema, secondo un progetto e quindi con un’autoeducazione di cui le opere d’arte sono un esempio».

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/I-confini-della-poesia-Franco.html     12 febbraio 2016