MARIANGELA GUALTIERI, BESTIA DI GIOIA – EINAUDI, TORINO 2010

Dopo tanta poesia edulcorata, cerebrale, o semplicemente noiosa, ecco finalmente un libro che si impone di forza, potente, vitale: orgoglioso di sé già dal titolo, quasi aggressivo, felicemente concreto. Bestia di gioia è il quarto volume di versi di Mariangela Gualtieri, scrittrice arrivata tardi alla poesia, dopo una lunga militanza nel teatro.
Le cinque sezioni che lo compongono sono tutte animate da un’urgenza morale prima che estetica, pur nella sapienza della forma, nel consapevole utilizzo della tradizione letteraria, e nella meditata capacità di piegare tale tradizione ai propri fini, che sono assolutamente (e necessariamente) contenutistici.
Gli incipit delle poesie sembrano spesso stagliarsi sulla pagina con convinzione quasi declamatoria: «Non c’è scatto nel cielo», «Che forza insolente hanno i fiori», «Andiamo mie ossa», «Piove dritto dritto», «Sii dolce con me. Sii gentile». E tuttavia subito dopo sono seguiti da improvvise richieste (al lettore? alla poesia stessa?) di aiuto, di rassicurazione, di confidenza. Come fuochi accesi e luminosissimi che chiedessero a volte di ardere, a volte di essere placati e spenti da un poco d’acqua: «Ma guarda ora – che pace».Tutto il volume è pervaso dallo stupore meravigliato e riconoscente di fronte al miracolo della bellezza naturale («Ecco la gemma. Ecco la foglia. / Ecco un volo perfetto di ala», «La nuvola piuttosto adoreremo / che è maestra di scorrere per il cielo / e di alta impermanenza, e di esistenza / senza peso»), con un’attenzione partecipe, ammirata e grata a ogni processo della vita, dalla nascita dell’universo fino alle sue espressioni più minute: le ragnatele e i fiori, la pioggia o il vapore che esce dalla pentola sul fuoco. Gli alberi, ad esempio, manifestano una confortante sicurezza nel rimanere tranquilli testimoni delle nostre inquietudini e malinconie («Certi alberi vicini alle case / sostano in una pace inclinata / come indicando come chiamando / noi, gli inquieti, i distratti / abitatori del mondo. Certi alberi / stanno parzialmente»). O le stelle, che ci rimandano ad altro, a qualcosa di più alto ed eterno che appartiene anche agli esseri umani e a ciascuna piccolissima cosa («le stelle / sono talmente risolute nel dirci / che c’è altra luce / che c’è lontano un fuoco / per il coraggioso»). O ancora il ciclo inarrestabile di nascita-morte nella natura: che è sempre e comunque esaltazione di vita («C’è solo vita / niente altro. Solo vita») Quello che importa è farsi partecipe del tutto, immergersi nella creazione, aderire all’esistente: «Stare bene profondo. / Essere ogni cosa».
Quasi sempre, quindi, la poesia di Mariangela Gualtieri riesce a diventare un vero inno alla gioia, alla potenza del creato in ogni sua manifestazione, anche quando arrivi ad essere apocalittica o distruttiva: «Ciò che non muta / io canto / la nuvola la cima il gambo / l’offerta il dono la rovina / apparente d’acqua che tracima / di tempesta e di onde». E sa opporre lo splendore della natura alla dittatura della superficialità, della grettezza e della povertà che ci ammannisce quotidianamente la cultura contemporanea («battagliati fra le catene / d’una dittatura che impera. / Noi non adoreremo le sue merci. / Non piegheremo la schiena / alla sua greppia»). In questo sembra consistere il compito del poeta: interprete e divulgatore della bellezza, della forza redentrice di tutto ciò che respira, o semplicemente è («e la mano che scrive è così lieta ora / che pensa ‘offro questa pace / a chi è dentro una pena grande.’ // Una preghiera pare tutto / il cielo. Una preghiera il verde / delle piante»).
Ci troviamo di fronte a uno spirito di profonda religiosità, non legata a istituzioni o riti, verrebbe da dire quasi paganeggiante, che arriva a ringraziare e a esaltare la divinità che ha creato i fiori («Quale cuore mancante / così traboccante di mancanza // quale giocondissima mente / è esplosa al suo centro / in colorati frammenti di sé / di sé stessa pensante»), o a celebrare la preghiera laica ed altissima della nuotatrice nel cloro della piscina comunale, nella poesia più commovente di tutto il volume.
Ma il richiamo civile e severo a tutte le chiese, di fede e politica, non ha nulla di falsamente devoto; è un invito deciso a non affidarsi a finzioni, giubilei, condoni, inchini: «Perdoniamo invece».
C’è inoltre un continuo offrirsi, quasi vittima sacrificale, a riscattare la sofferenza del mondo attraverso il potere salvifico dei versi: il suo «eccomi», di reminiscenza biblica, la sua generosa oblazione di poeta che paga, nell’eccesso di sensibilità, per il male e il bene di tutti: «Anche in questa brutta città appare chiaro / sopra i rumorosissimi bar / lo spettro luminoso della gioia».
Ecco quindi spiegata la gioia «bestiale» del titolo, che riesce a superare e a coprire qualsiasi bruttura.
Ogni aspetto della vita viene esaltato: il viaggio come il riposo (alcune poesie sono un omaggio al sonno, perso-bramato-ritrovato, allo sprofondare in un’incoscienza ristoratrice, per poi riemergere vivi e attenti alla nuova luce del giorno, «quando l’imperatore comanda / che sia luce»), l’amore come fusione totale con l’amato, come nostalgia di quando si era un’unicità indistinta. E persino la morte, intesa sì come caducità e perdita, ma anche come ritorno all’eterno, alla leggerezza della non appartenenza: «Presto la mano diventerà rametto / bianco fra le radici. Presto saremo / fuori di qui», «e il morire dei corpi non è / che l’entrare fuori misura. / Senza chili, senza metri, senza / particelle. Alleluiare».
Quindi la risposta poetica di Mariangela Gualtieri è l’obbedienza alle leggi imperscrutabili della fisica e della materia («C’è obbedienza nel regno»), la sua docile e gioiosa accettazione: in questo aderire al ciclo della vita e della morte, che ingloba cielo e terra, uomini animali e piante. E’ l’unica, terrena, palpabile felicità possibile, che la poesia ha la capacità e il dovere di comunicare agli altri.

 

«L’Immaginazione» n. 259, dicembre 2010