MARTIN HEIDEGGER, ORMAI SOLO UN DIO CI PUÒ SALVARE – GUANDA, PARMA 2011

«Entra. Sorprende il suo aspetto. Piccolo, piccolissimo, in costume regionale grigioverde dai risvolti ricamati, indossa dei knickers. Mi sconcerta il suo aspetto di contadino un po’ tarchiato, vestito a festa. Capelli d’argento, l’occhio nero, lo sguardo acuto, appare stanco. Una certa tristezza si legge sul viso dalle guance scavate, qualcosa di tragico… Un provinciale curioso che non si sarebbe mai avventurato fuori dalla sua terra natale». Con queste parole lo descrisse il suo discepolo Frèdèric De Towarnicki (1920-2008), incontrando per la prima volta a venticinque anni nel 1945 Martin Heidegger nella sua casa di Zähringen. Il rapporto tra i due durò circa un trentennio, in maniera discontinua e problematica: originale, anticonformista, vulcanico l’allievo; meditativo, austero, criptico il filosofo. Tornato nel periodo della protesta sessantottesca a visitare il Professore ormai vecchio, deluso, isolato, De Towarnicki osò chiedergli il motivo del suo tragico errore del 1933, contestandogli duramente la collaborazione con il nazismo. «Dummheit», rispose allora Heidegger: «Stupidità».

Fu solo stupidità, quindi, leggerezza, grave incomprensione del fenomeno storico, quella che portò il massimo interprete novecentesco della questione dell’Essere, a rispondere positivamente all’invito di Hitler che, con il consenziente accordo del Senato Accademico, gli assegnava il rettorato dell’Università di Friburgo? Un volume pubblicato da Guanda nel 1987, e riedito nel 2011, curato e introdotto con intelligenza e passione da Alfredo Marini, ci offre l’intervista che il filosofo di Messkirch concesse a due animosi inviati dello Spiegel il 23 settembre 1966, uscita per volontà di Heidegger solo dopo la sua morte, nel 1976. Ormai solo un dio ci può salvare fu la risposta data a una domanda sull’inevitabile declino del pensiero umanistico occidentale, prevaricato dalla tecnica e dall’economicismo. Il tramonto della filosofia, sostituita da scienze particolari (psicologia, logica, politologia, cibernetica), sembrava a Heidegger inevitabile, a meno che l’umanità non fosse in grado di risvegliare tradizioni antichissime del «pensare», radicate soprattutto nell’insegnamento dei classici greci, o nella visionarietà dei poeti. Una proposta senz’altro elitaria, conservatrice e insieme utopistica, la sua, che forse oggi trova alleati nei fautori della decrescita e negli ecologisti: «Oggi tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra».

Nelle parole di George Steiner, che dedicò – da ebreo – il libro forse più obiettivo e credibile (oltreché piacevolmente chiarificatore) al pensiero heideggeriano, la figura intellettuale e morale del filosofo tedesco non va ridotta al suo discutibile e comunque marginale ruolo politico negli anni del nazismo, ma rivalutata come insigne autorità in ogni campo della riflessione teorica del ‘900. Attraverso una dialettica tortuosa e irrisolta ma dinamica, sempre in ricerca lungo un «sentiero» che conducesse a una «radura» illuminata nell’oscurità del bosco che ci circonda, Heidegger ha influenzato tutta la filosofia, la teologia, la psicanalisi, l’estetica e la linguistica contemporanea, da Sartre a Derrida, da Bultmann a Rahner, da Gadamer a Lacan (e in Italia, da Severino a Galimberti e a Cacciari). Il suo richiamo a un necessario ritorno alla «dimora dell’Essere», all’autenticità dell’«esserci» nella realtà del mondo, attraverso la «cura», la preoccupazione per gli altri, e la riscoperta della verità, attingibile nell’arte e nella poesia, ha pervicacemente sottolineato il dovere umano di porsi delle domande sul significato dell’esistenza (perché l’essere, cos’è l’essere?) e, secondariamente, quello di provare meraviglia e gratitudine nei confronti del semplice e momentaneo vivere nel tempo.

Proprio indagando il concetto di tempo, Heidegger intuì l’importanza fondamentale della progettualità, di un divenire che sovrasta passato e presente per proiettarsi in un domani di salvezza. Se il passato è irrecuperabile, è un «non più», e il presente è «il cattivo presente della quotidianità… vanità, pretesti, verbosità… brigare, affaccendarsi…», (perdersi, quindi, nel nulla del banale e del superficiale), il «come» autentico del nostro «esserci» si attua solo nel futuro, nel precorrimento. «Il precorrimento (Vorlauf), in quanto mette l’esserci di fronte alla sua possibilità estrema, è l’atto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci (…). L’essere futuro dà tempo, forma pienamente il presente e consente di ripetere il passato nel ‘come’ del suo essere stato vissuto». All’esplicita svalutazione del presente – della moda, delle correnti, di ciò che succede – fa da pendant in Heidegger la svalutazione della storia («bisognerebbe arrivare di nuovo… a ciò che sta di sopra della storia; (…) l’esistenza odierna si è perduta nella pseudo-storia presente»), da cui fa conseguire un’indicazione perentoria nella sua inapplicabilità: «per questa via immaginaria che porta alla sovra-storicità si dovrebbe trovare la visione del mondo».

A una tale interpretazione complessa, radicale e utopica del porsi umano nel mondo, si può senz’altro rimproverare una miopia effettiva e gravida di conseguenze riguardo agli avvenimenti catastrofici che portarono l’umanità al delirio delle persecuzioni naziste, della Shoah e della seconda guerra mondiale. Ed è ciò che fecero i giornalisti dello Spiegel nelle loro domande incalzanti, polemiche, a tratti sarcastiche sulla collaborazione di Heidegger con gli apparati dirigenti del Terzo Reich. Il filosofo si difese allora strenuamente, puntualizzando, presentando documenti e testimonianze, contestando sia dicerie popolari sia processi ideologici, appellandosi al diritto-dovere del filosofo di travalicare la contingenza della cronaca per approdare a una verità equidistante da qualunque moderna ideologia di massa (comunismo, nazismo, cristianesimo), nel compito di riconquistare la forma suprema dello spirito. Ma se l’accettazione dell’incarico di rettore a Friburgo nel 1933 fu un errore tattico prontamente espunto, indotto dall’ingenua convinzione di dover consolidare l’autoaffermazione dell’Università tedesca (errore pagato in seguito con una stretta sorveglianza poliziesca, l’emarginazione culturale e l’interdizione da qualsiasi incarico didattico), ben più grave risultò il silenzio di Heidegger sui campi di concentramento e sullo sterminio degli ebrei, che gli meritò l’accusa di antisemitismo, mai del tutto smentita.

La discrepanza tra un grande pensiero e una piccola biografia, tra lo studio dell’Essere in quanto tale e la baita di Todtnauberg in cui il filosofo-contadino si rifugiò («Fumiamo in silenzio le nostre pipe»), continua ad aleggiare come la più grave delle colpe sulla sua figura di intellettuale: pavido, reazionario, antidemocratico, indifferente alle sorti storiche del mondo che banalmente «mondeggia». Così il Maestro, figlio di un bottaio-sacrestano della Foresta Nera, si difendeva in una lettera, riconoscendo come unico tribunale la propria coscienza: «Credo di avere la vocazione interiore alla filosofia e, attuandola nella ricerca e nell’insegnamento, credo di fare ciò che le mie forze mi permettono per la destinazione eterna dell’uomo interiore, e così credo di giustificare da solo dinanzi a Dio la mia esistenza e il mio operare».

 

© Riproduzione riservata               «Il Pickwick», 5 luglio 2018