DENIS JOHNSON, JESUS’ SON – EINAUDI, TORINO 2018

Gli undici racconti raccolti in Jesus’ son sono stati scritti da Denis Johnson nei primi anni Novanta: da essi è stato tratto nel ’99 il film omonimo diretto da Alison Maclean. Denis Johnson, nato a Monaco di Baviera nel 1949, è cresciuto in Giappone e nelle Filippine prima di stabilirsi a Washington. Ha pubblicato narrativa, poesia e un libro di saggi, vincendo il National Book Award nel 2007 con il feroce romanzo Albero di fumo, implacabile resoconto della guerra in Vietnam. Testimone di crudeltà e follie private e collettive, ha viaggiato nei luoghi più caldi del pianeta. È morto in California, a Gualala, nel 2017.

In Jesus’ son droga, alcol, vagabondaggi in auto scassate, inseguimenti, sangue, scazzottate, spari, rapine, sesso ripetitivo e anonimo sono vissuti con l’indifferenza della casualità, ai margini di una società a cui non solo ci si oppone, ma che si ignora con totale ed esibito disinteresse, con cinica apatia. Il mondo degli altri (incompreso, schifato, stramaledetto) è la polizia, l’anziana vicina di casa che protesta per il rumore, le famigliole prive di domande e inquietudini: il mondo che agisce in sintonia con Testadicazzo è invece tutto il resto, un universo alterato, psicotico, rabbioso, in cui l’attimo rivelatore (un incidente mortale in auto, un omicidio non programmato, il furto finito male) esplode come un incendio improvviso, un cortocircuito che brucia esistenze sprecate, e la stessa pagina scritta. Pagine che riflettono ‒ in uno stile denotativo, privo di metafore e di inventività linguistica, con dialoghi smozzicati e ridotti ai minimi termini ‒ la voluta assenza di pensiero, l’annullamento di ogni progettualità razionale in cui si trascinano i protagonisti.

Non ci si affeziona a questi personaggi, perché l’autore non ce li fa conoscere nella loro specificità fisica o caratteriale, intercambiabili come sono tra loro, privi di spessore emotivo, ciondolanti in cantine o rimesse poco illuminate («in un’inquietante luce sulfurea»), appartamenti luridi, vicoli malfamati, bar equivoci. Bar, soprattutto, caffè di ogni tipo e nome, nelle metropoli come in paesi semiabbandonati, lungo autostrade malridotte o nel traffico notturno delle city, con clienti che sembrano scappati da un ospedale psichiatrico, o crollati in coma etilico: «Ma ogni volta che entravo in quel posto c’erano facce offuscate che promettevano tutto, e che subito dopo rivelavano la propria monotonia e ordinarietà, alzando lo sguardo su di me e commettendo lo stesso errore», «Chi entrava nei bar di First Avenue abbandonava il proprio corpo. Da quel momento erano visibili solo i demoni che vivevano in noi. Qui venivano riunite le anime che si erano ferite a vicenda. Lo stupratore incontrava la sua vittima, il figlio rifiutato ritrovava sua madre. Ma niente si poteva guarire, lo specchio era un coltello che divideva ogni cosa da se stessa, lacrime di falsa amicizia gocciolavano sul banco. E cosa mi farai adesso? Con cosa, di preciso, intendi spaventarmi?». Il Vine è il luogo di ritrovo per eccellenza («un locale lungo e stretto, come la carrozza di un treno che non andava da nessuna parte»), ma gli altri posti (Pig Alley, Vietnam Bar, Kelly’s, Jimjam Club…) gli assomigliano tutti, nello squallore delle solitudini incomunicanti raccontate nei quadri di Edward Hopper.

Se questo è il dentro in cui si consumano le storie di Denis Johnson, il fuori non è meno deprimente e scialbo: «Era un lungo rettilineo che correva a perdita d’occhio tra campi inariditi. Sembrava che in cielo non ci fosse aria e che la terra fosse fatta di carta… Cosa si può dire di quei campi? Uccelli neri volavano in cerchio sopra la propria ombra, e sotto di loro le mucche gironzolavano annusandosi il culo a vicenda… Nella notte dei tempi quella regione era stata stretta nella morsa dei ghiacciai. Ora la siccità andava avanti da anni, e sopra le pianure si stendeva una bronzea nebbia di polvere. Il raccolto della soia era morto di nuovo, e gli steli di granturco guasti e avvizziti erano allineati sul terreno come file di biancheria intima».

La vita animata che si incontra in Jesus’son è costituita da spacciatori, ladri, infermieri e medici impasticcati, malati psichici, zombie, spose abbandonate mentre abortiscono, coppie anabattiste, feti animali stritolati per distrazione, rapporti dopati: «Facevamo l’amore a letto, mangiavamo bistecche al ristorante, ci bucavamo al cesso, vomitavamo, piangevamo, ci accusavamo, ci imploravamo, perdonavamo, promettevamo e ci portavamo in paradiso a vicenda». Una quotidianità vissuta fisicamente, corporalmente, che esclude qualsiasi orizzonte o ansia metafisica: «Di solito, se proprio mi veniva da riflettere sul senso della vita, al massimo arrivavo a considerarmi la vittima di uno scherzo. Nessun contatto con l’orlo del mistero, nessun istante in cui qualcuno di noi – be’, parlo solo per me, immagino – si sentiva i polmoni pieni di luce e roba del genere». I pochi attimi di felicità, o «di gloria», come li chiama Testadicazzo, sono sprazzi abbaglianti e confusi, in una continua allucinazione che non vuole saperne dei contorni nitidi della realtà: «Stava piovendo. Felci gigantesche pendevano su di noi. La foresta digradava giù per una collina. Sentivo un torrente correre tra le rocce. E voi, gente ridicola, voi vi aspettate che io vi aiuti».

I feel like Jesus’ son, cantava Lou Reed in Heroin, e non voleva conoscere niente (di Tizio, di Caio, di politici, di città morte, di cadaveri ammassati), sognando di navigare attraverso mari oscuri per raggiungere il suo regno, cullato da un annebbiante veleno.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 28 febbraio 2019