MARCEL JOUHANDEAU, IL CADAVERE RAPITO – ADELPHI, MILANO 2016

Il cadavere rapito è il terzo libro di Marcel Jouhandeau che l’editore Adelphi propone ai lettori italiani. Meritevole eccezione editoriale, visto l’indifferente silenzio (di critica e pubblico) che circonda l’opera di questo straordinario e scandaloso autore francese.

Nato nel 1888 a Guéret, cittadina del Limousin, figlio di un macellaio e di una suora mancata, fece rivivere il proprio “borgo selvaggio” (perfidamente farisaico e ignorante, maldicente e vizioso) nella saga di Chaminadour, località di fantasia in cui trasferì strade, storie, personaggi della sua infanzia, lacerata dal senso di colpa per una omosessualità da subito riconosciuta, esibita orgogliosamente ma insieme temuta e negata nel paravento di un masochistico matrimonio di facciata. Jouhandeau così scriveva di sé: «Cresciuto nel cattolicesimo, non pratico la mia religione, perché vivo abitualmente nel peccato, ma il vivere nel peccato non significa che si viva al di fuori della Fede: senza Fede non ci sarebbe peccato». E ancora: «Io sono al di fuori della morale, nell’assoluto della libertà». Una libertà che esprimeva tutta la sua grandezza nella ricerca della perfezione («L’imperfezione è più colpevole del male»), fosse anche peccaminosa, abietta, asservita alla violenza del desiderio carnale, in cui l’Angelo si pone alla stessa altezza del Demonio: là dove peccato e virtù si equivalgono nella ricerca del soprannaturale.

È evidente che la gerarchia ecclesiastica guardasse con sospetto e indignazione a tali affermazioni, arrivando ad accusare lo scrittore di eresia e satanismo, e ritenesse pericolosamente ossessiva la sua ricerca spirituale, che tuttavia nel suo turbato attaccamento al peccato e nell’aspirazione a un’innocenza perduta può ricordare alcune pagine tragicamente religiose dei nostri Testori e Pasolini. In questo volumetto, arricchito dall’esauriente postfazione di Ena Marchi, chi assomma in sé le due anime dell’autore (devote e perverse, celestiali e diaboliche) è il protagonista, il settantenne padre Diverneresse, alto, magro e legnoso, coltissimo e sprezzante, silenzioso e irascibile: parroco nella chiesa di Port-Salut con fama di santo e stregone. Chiuso nella sua fornitissima biblioteca, si dedicava a studi di teologia e biologia, alternandoli con piccoli lavori di giardinaggio o falegnameria. L’impegno a cui meno sembrava interessarsi era invece la cura delle anime a lui affidate, che giudicava meschine e ignoranti, lontane da Dio e indifferenti alla lezione evangelica. Nella canonica, occupandosi della sua sopravvivenza materiale, si erano alternate due perpetue: l’onesta e ottusa Miette, e l’algida intellettuale Angèle. Il disprezzo nutrito per la prima era stato sostituito da un intenso affiatamento spirituale con la seconda, al punto che i parrocchiani, osservando la stretta complicità che univa parroco e catechista, iniziarono presto a sparlare, ipotizzando l’esistenza tra i due di rapporti carnali o di culti satanici.

«L’immaginazione della ‘brava gente’ è insaziabile quando si tratta delle turpitudini altrui, le sole che possano distrarla dalla noia della sua ‘mediocre’ virtù, e bisogna ammettere che, per l’immaginazione della ‘brava gente’, l’amicizia è forse un mistero più insondabile del sacrilegio e dell’incesto». Il comportamento del religioso, provocatorio proprio perché incurante del giudizio popolare, finisce per portarlo alla rovina. Denunciato ai superiori, isolato da tutti, allontanato da Angèle, padre Divernesse viene sospeso a divinis e scomunicato, ma ciò gli crea intorno un’aura di santità e ingiusta persecuzione, sfociante in fanatico e idolatra devozionismo, che tuttavia non servirà a risparmiargli una fine solitaria e l’ostracismo ecclesiale post mortem.

 

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www.sololibri.net/Il-cadavere-rapito-Jouhandeau.html     14 febbraio 2017