VIVIAN LAMARQUE, IL SIGNORE D’ORO – CROCETTI, MILANO 2020

Il terzo libro pubblicato da Vivian Lamarque nel 1988, Il signore d’oro, viene oggi riproposto dallo stesso editore di allora, Nicola Crocetti. Si tratta di composizioni risalenti al biennio 1984-1986, che non è del tutto congruo classificare come poesie (nonostante spesso ci si imbatta in frasi che sono endecasillabi, o endecasillabi più settenari, abilmente camuffati), Né sarebbe appropriato parlare di aforismi, poiché non spacciano ricette di vita o di saggezza usa e getta: piuttosto esibiscono incertezze, implorano conferme.

Potremmo concordare di chiamarle brevi prose poetiche, sottintendendo tuttavia che si tratta di messaggi, di probabili S.O.S. inviati più che al lettore, al protagonista stesso del volume, un signore d’oro definito con attributi ben poco caratterizzanti (bello e meraviglioso, accarezzabile, alato, intoccabile, lontano, profumato, studioso, gentile, notturno), con l’esplicita intenzione di lasciarlo sospeso in un’immateriale levità fantastica. Di lui sappiamo che veste un loden grigio lupo, che probabilmente si identifica con il dottore della dedica, il quale incontra regolarmente nel chiuso di un seminterrato una signora, nel reiterarsi di un rapporto riducibile in realtà a una terapia analitica.

Ma “La realtà non c’era, era abdicata. / Splendidissima regnava la vita immaginata”: ciò che conta è il sogno, inteso più che come materiale onirico, come favola. Il tono narrativo è appunto quello – tipico di Vivian Lamarque, nota anche come scrittrice per l’infanzia e traduttrice dal francese – fiabesco, scandito da insistenti anafore e da numerose anastrofi (“per eventualmente salire”, “la pensata fotografia”), dalla formula enunciativa dell’incipit (“Era un signore…”), dall’uso iperbolico di aggettivi, esclamativi e soprattutto avverbi, spesso reiterati (sempre sempre, lontano lontano, basso basso, fitto fitto, piano piano…), dalla costante pratica di interrogazioni retoriche, parodianti le cantilene infantili.

Co-protagonista del racconto è una signora quarantenne (“Però gli anni non erano durati veramente un mese”), i cui contorni rimangono ancora più nel vago di quelli del “signore d’oro”, definita com’è non tanto da attributi, quanto da una serie di azioni a senso unico: “Una signora voleva dargli dei baci…; stava diventando gelosa…; voleva tenerlo fino a persempre con sé…; aspettava… non lo sapeva che il signore non arrivava…; in fretta lo adorava…; gli scriveva lunghi foglietti…; lo guardava fisso e gli faceva dei piccoli inchini di pensiero sulle scale d’oro del trono…”.

I fili che reggono queste brevi illuminations avvolgono il lettore in un bozzolo di incantata leggerezza, invitando chi legge ad abbandonarsi a una berceuse di parole recitate con voce innamorata; se non che i frequenti bruschi risvegli richiamano a una realtà disperata, proprio nel senso di senza speranza: “Era un signore andato via. / A lei qui rimasta tantissimo mancava. / La traccia di lui lasciata segnava / ovunque intorno a lei l’aria. / Come un quadro spostato per sempre segna la parete”.

 

«Gli Stati Generali», 3 novembre 2020, «La collina» n.9/10, giugno 1988