PAOLO LANARO, RUBRICA DEGLI INVERNI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2016

L’ultimo volume di Paolo Lanaro, da poco uscito presso Marcos y Marcos, mantiene la calibrata misura espressiva a cui ci ha abituato questo riservato, malinconico, riflessivo poeta vicentino. Il suo è uno sguardo discreto (nel senso di non invasivo, di rispettoso verso qualsiasi alterità) rivolto alla realtà in cui siamo immersi; ed è soprattutto un pensiero che si interroga incessantemente sul destino comune a tutti gli essere umani, al trascorrere del tempo, alle storie individuali e alla storia universale che le ingloba. La scelta mite di Lanaro è esplicitata in versi come i seguenti:

«Fosse per me guarderei una foglia a lungo, // la tenerezza e l’angolo deciduo, / ne studierei il verdecupo inestimabile, / l’assenza quieta di volontà / di diventare qualcosa», «…starei / ad ascoltare i germogli, il rumore impercettibile / che riprende dai luoghi delle rovine».

Osservare con stupore e gratitudine, senza alcuna volontà di possesso, il miracolo quotidiano dell’esistenza, vegetale e animale, che si ripropone quotidianamente davanti ai nostri occhi; guardare la neve e la pioggia che scendono incuranti di ogni presenza umana, le case – le scuole – le chiese che invecchiano e si crepano come i volti delle persone; risvegliare ricordi annebbiati, amici persi nell’indifferenza, parenti morti; e riflettere sull’insignificanza del percorso di vita personale rispetto all’ineluttabilità dello scorrere di anni e secoli, all’imperturbabilità di una storia che macina e travolge le vicende minime della gente comune. Quello che ci riguarda è cronaca, fatta di gesti ripetitivi e inessenziali; il passato che ci ha illuso e consolato è irrecuperabile, e se un dio esiste probabilmente non risponde all’idea che ci facciamo della provvidenza: «La storia è soltanto l’accumulo / di tante, fugaci, non-storie», «(Ma se poi davvero lassù ci fosse Dio? / E se ciò che per un po’ ci ha ammutoliti / fosse stata proprio una sua veloce occhiata?)», «Non si può stare soli e avere / anche un’idea rassicurante delle ore / che incalzano come addetti silenziosi / ai servizi funebri. // Tutto questo deve voler dire che in noi / c’è qualcosa che si oppone a noi».

Cosa resta, allora, a cui poter chiedere soccorso e salvezza? La poesia, forse, che Lanaro interroga nelle voci di alcuni maestri (Szymborska, Brodskij, Holan, Brecht, Eliot), punteggiando i suoi esseoesse di punti di domanda ansiosi (Dove ambientare dei versi?, Un poeta non sa quello che fa?). Oppure qualche ricetta di sopravvivenza quotidiana, come nei bei versi di Ogni giorno: «Ogni giorno un libro. Come un break / equilibrato di carta e parole. // Ogni giorno mezzora a piedi / per tener su il morale // … Ogni giorno ci ritroviamo tra di noi: / coniugi, manodopera, condòmini strazianti. // Ogni giorno una quantità di cose / al posto del silenzio».

La scrittura di Lanaro, musicalmente modulata su tonalità né percussive né cantilenanti, ma obbedienti a una ritmica interna e discreta, non pare rivolgersi alla tradizione letteraria italiana più tipica: semmai recupera gli echi di un Larkin, di uno Hughes, o di uno Strand, di un minimalismo meditativo e introspettivo che la rende particolare e suggestiva.

 

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www.sololibri.net/Rubrica-degli-inverni-Lanaro.html           18 luglio 2016