PAOLO LEGRENZI, REGOLE E CASO – IL MULINO, BOLOGNA 2017

Nella collana Icone recentemente inaugurata dall’editrice bolognese Il Mulino, Paolo Legrenzi –  professore emerito di Psicologia all’università Ca’ Foscari di Venezia –, ha pubblicato Regole e caso, un testo stimolante in cui utilizza gli strumenti peculiari della sua materia e quelli, meno consueti, della critica d’arte per affrontare temi di notevole spessore filosofico, transitando anche attraverso letteratura ed economia. Nel rivisitare la produzione pittorica di Jackson Pollock e la sua vicenda esistenziale, Legrenzi ci guida con leggerezza e maestria a sondare le motivazioni consce e inconsce che dirigono le nostre scelte quotidiane e i nostri programmi di vita.

Pollock (1912-1956) nacque a Cody, Wyoming, in una famiglia contadina, ultimo di cinque fratelli, e trascorse la giovinezza nel West, tra l’Arizona e la California, dove ebbe modo di conoscere i nativi americani accompagnando il padre nei suoi viaggi di lavoro. Durante quegli incontri rimase particolarmente colpito da una loro particolare tecnica di pittura, praticata con sabbia su di una superficie piatta e orizzontale che potevano avvicinare da ogni lato. Dopo aver studiato arte a Los Angeles e a New York, nel 1945 sposò la pittrice Lee Krasner, trasferendosi con lei a Springs, Long Island. Qui iniziò a dipingere stendendo le tele sul pavimento del suo studio e mettendo in atto un nuovo metodo creativo, definito successivamente “dripping” (in italiano “sgocciolatura”). Applicava il colore servendosi di pennelli induriti, pezzetti di legno o siringhe da cucina, muovendosi freneticamente intorno al quadro in una sorta di invasamento che coinvolgeva tutto il corpo. Così spiegò il suo modo di dipingere, in un’intervista uscita su Possibilities nel 1947: «La mia pittura non nasce sul cavalletto. Non tendo praticamente mai la tela prima di dipingerla […] ho bisogno della resistenza di una superficie dura. Sul pavimento mi sento più a mio agio. Mi sento più vicino, più parte del quadro, perché, in questo modo, posso camminarci intorno, lavorare su quattro lati, ed essere letteralmente nel quadro. È un metodo simile a quello degli indiani del West che lavorano sulla sabbia. Mi allontano sempre più dagli strumenti tradizionali del pittore come il cavalletto, la tavolozza, i pennelli, ecc. Preferisco la stecca, la spatola, il coltello e la pittura fluida che faccio sgocciolare, o un impasto grasso di sabbia, di vetro polverizzato e di altri materiali extrapittorici. Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quel che faccio. Solo dopo una specie di «presa di coscienza» vedo ciò che ho fatto. Non ho paura di fare dei cambiamenti, di distruggere l’immagine, ecc., perché un quadro ha una vita propria. Tento di lasciarla emergere. Solo quando perdo il contatto col quadro il risultato è caotico. Altrimenti c’è armonia totale, un rapporto naturale di dare e avere e il quadro riesce».

I dipinti di Pollock riprodotti e commentati da Legrenzi nel suo volume sono Number 1A (1948), Foresta incantata (1947), La donna luna (1942), Occhi nel caldo (1946), Movimento gracidante (1946). Un’attenzione particolare è rivolta al primo, capolavoro esposto al MoMa di New York: «Un’opera che espande il nostro mondo, costringendoci a incorporare un mondo nuovo… non rappresenta nulla, se non emozioni… pure, amplificate». La novità sconvolgente di questa pittura è dovuta al suo rifiuto totale della rappresentazione figurativa: non esplora l’ambiente, né lo riproduce, ma inventa una nuova realtà, che intrappola l’osservatore con un effetto ipnotico, aprendogli prospettive differenti, quasi imponendogli una “chiamata”, un’epifania rivelatrice. Questo è ciò che avviene in chi guarda, perdendosi nella fascinazione di linee e colori.In Pollock invece, che ha creato il quadro, secondo lo psicologo cognitivista Paolo Legrenzi si è instaurato un rapporto indefinito tra progetto e casualità, libertà e regola. Utilizzando la tecnica del dripping, l’artista era consapevole del tragitto percorso da ogni goccia di colore? I suoi gesti erano istintivi oppure ogni movimento vincolava quello successivo? Esisteva una catena deterministica che stabiliva per ciascuna causa un certo effetto, o, secondo il modello darwiniano, la sua creazione procedeva attraverso prove ed errori? Sta di fatto che, se anche non era consapevole del percorso fatto nel produrre il dipinto, alla fine il quadro era lì, compiuto e perfetto in se stesso. Un po’ la stessa cosa avviene nella musica jazz, dove l’improvvisazione del musicista introduce su una trama stabilita variazioni estemporanee dettate dal suo estro.

Analogamente, possiamo domandarci se nella vita quotidiana di ciascuno di noi ogni scelta è presupposta e indotta da una scelta precedente, o invece agiamo in assoluta libertà e indipendenza. A questo punto l’esplorazione di Legrenzi s’incammina lungo i sentieri seducenti della scienza probabilistica, del rapporto che intercorre tra certezza, incertezza, rischio e probabilità, indagato già da Pascal con la sua famosa “scommessa”, e dopo di lui da fisici, filosofi ed economisti. Il dubbio che attanaglia qualsiasi persona davanti a una decisione da prendere in campo morale, sentimentale, finanziario potrebbe essere razionalmente circoscritto differenziando gli investimenti economici, professionali ed emotivi, “distribuendo la fiducia, le speranze, i timori … tra più persone, tra più lavori, tra più occasioni d’ incontro… tra più passioni, insomma tra più futuri, e anche, purtroppo, tra più dolori. Le delusioni diluite ci feriscono meno di un singolo colpo al cuore”. Lo psicologo Legrenzi arriva a proporre anche un breviario di venti suggerimenti pedagogici – sull’esempio di molti manuali americani di self help – per imparare a soffrire di meno, ammonendoci: «È come viaggiare nella vita con una valigia non completamente piena, così se arriva qualcosa di attraente, c’è posto anche per lui. E, se smarrite la valigia, avete perduto poche cose». A tale saggezza non era evidentemente arrivato Jackson Pollock, che imbozzolato nella “timidezza ruvida del cowboy”, non era riuscito a resistere alle pressioni del mercato dell’arte, alla critica e ai media che lo volevano trasformare in un’icona. Cercò rifugio nell’alcol, che lo condusse a una morte precoce in un incidente automobilistico.

Eppure, è proprio l’arte, in tutte le sue espressioni (e Legrenzi cita molti scrittori, da Shakespeare ad Amos Oz, da Musil a Primo Levi) che ci aiuta a trasformare la regola in libertà, la costrizione in sorpresa, l’abitudine in stupore. Se non possiamo essere invulnerabili allo sfruttamento impostoci dalla società consumistica in cui viviamo, dobbiamo imparare (insegnandolo anche ai nostri figli, già da quando sono bambini) a diventare antivulnerabili, ribellandoci ai meccanismi che ci espropriano delle nostre potenzialità, “diventando soggetti attivi e non fruitori passivi”. L’incertezza allora, quella che Pollock ha esaltato distruggendo schemi imposti, ci può aiutare a spezzare le corazze che ci ingabbiano, a riscoprire la bellezza delle emozioni.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 22 novembre 2017