PRIMO LEVI, AD ORA INCERTA – GARZANTI, MILANO 2004

Di Primo Levi (Torino, 1919-1987) tutti conoscono i capolavori narrativi, testimonianze tragiche dell’esperienza vissuta nel campo di Auschwitz, in cui fu deportato nel 1944 in quanto ebreo: Se questo è un uomo, La tregua, Se non ora quando?, I sommersi e i salvati. In pochi sanno invece che Levi fu anche autore di versi, scritti tra il 1943 e il 1987, anno del suo suicidio, e pubblicati da Garzanti nel 1984, con il titolo Ad ora incerta. Il volume, ristampato più volte, contiene 63 poesie e dieci traduzioni (perlopiù da Heinrich Heine), ed è introdotto da un’epigrafe tratta da Coleridge: “Since then, at an uncertain hour, / That agony returns… (“Dopo di allora, ad ora / incerta, / quella pena ritorna”), utilizzata già come esergo in un romanzo. Il libro, che nel 1985 vinse il Premio Abetone e il Premio Giosuè Carducci, aveva suscitato pareri critici contrastanti: piuttosto negativi quelli di Cases, Fortini e Mengaldo, più positivamente solidale quello di Giovanni Raboni, che così si espresse in una recensione su La Stampa del 17 novembre 1984: “A me sembra che la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio […], lo stesso solenne acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa. […]. In Levi lo scatto, l’impulso iniziale di ogni singola poesia […] nasce dalla ragione, dalla lettura morale della realtà, da quella capacità di capire la propria sofferenza e di vivere la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini, che formano la peculiarità e oserei dire l’insostituibilità della sua prosa”.

Primo Levi stesso, tuttavia, aveva dichiarato, con sorniona ironia: “[…] conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti”. Aggiungendo, nella prefazione al volume, di aver ceduto al richiamo della poesia “ad intervalli irregolari, ad ora incerta. […] in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale”. Come nei romanzi, l’imperativo che sembra guidare la scrittura in versi di Levi è decisamente comunicativo; ciò che preme all’autore è poter raccontare ai lettori le esperienze vissute, i sentimenti e le riflessioni che lo animano. Una sorta di lascito e insegnamento etico, da esprimere con radicale onestà: “È poco redditizio, e poco utile, scrivere e non comunicare… l’importante per essere compreso da coloro a cui si dirige la pagina scritta è di essere chiari”.

Chiarezza che nelle poesie di Ad ora incerta viene perseguita con coerenza, con l’intendimento severo di trasmettere un monito a chi legge, senza raggiri stilistici o adulterazioni letterarie: il tono classicheggiante, biblico-dantesco, sospeso tra l’ironico e il perentorio, non rifugge da arcaismi e formule desuete, ma è sempre e comunque finalizzato a un coinvolgimento ammonitore del pubblico (“Voi che vivete… Considerate… Meditate… Ripetetele”, “O tu che segni, passeggero del colle”, “Dimmi: in cosa differisce / questa sera dalle altre sere?”). Uno stile quasi profetico, dunque, con una palese finalità didascalica, che si riflette anche nei contenuti. I temi ecologici risultano evidenti nell’attenzione rivolta non solo al mondo animale e vegetale spesso antropomorfizzato (gabbiani, corvi, lucciole, formiche, chiocciole, topi, buoi, dromedari; ippocastani, agavi, licheni), ma anche nell’appello indirizzato all’umanità perché non persista nella distruzione cieca e masochista dell’ambiente, convincendosi invece che l’evoluzione della specie dovrebbe perpetuarsi in un perfezionamento materiale e morale, e non in una degradante regressione (Autobiografia).

L’ateo Primo Levi, pur orgogliosamente partecipe del proprio ebraismo (“popolo di altera cervice, / Tenace povero seme umano”), non crede a una divinità provvidenziale e benevola. Crede invece nell’indifferenza del cielo verso il destino degli uomini, condannati all’infelicità, inghiottiti in una notte senza riscatto che accomuna tutte le creature nella sofferenza: “Forse è questa l’eternità che ci attende: / Non il grembo del Padre, ma frizione, / Freno, frizione, ingranare la prima. / Forse l’eternità sono i semafori”, “E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla, / E i cieli si convolgono perpetuamente invano”, “Signore, a fare data dal mese prossimo / Voglia accettare le mie dimissioni. / E provvedere, se crede, a sostituirmi”.

Si salvano i rapporti affettivi con i familiari, con i compagni di una vita, con gli amici: “Cari amici, qui dico amici / Nel senso vasto della parola: / Moglie, sorella, sodali, parenti, / Compagne e compagni di scuola // … A voi tutti l’augurio sommesso / Che l’autunno sia lungo e mite”. All’amata moglie Lucia, cui è dedicato il libro intero, sono riservate parole commosse e grate, dall’epoca del fidanzamento fino all’età più avanzata: “Abbi pazienza, mia donna affaticata //… Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici / Per questo tuo compleanno rotondo //… Sono il mio modo ispido di dirti cara, / E che non starei al mondo senza te”.

Il mito, la Bibbia, la storia universale e la scienza sono presenti in tutta la raccolta, che cita Aracne e Lilit, Plinio il vecchio e Galileo, la lotta partigiana cui Levi prese parte attivamente in gioventù e i cui ideali teme siano stati abbandonati o traditi. Ma ovviamente è la tragedia della Shoah, rivissuta nella memoria lacerata e mai più ricomposta, a risuonare come un basso continuo in questi versi, insieme al dovere morale di rendere testimonianza di quell’orrore. Ecco quindi il ricordo dei milioni di vittime innocenti, dalla bambina incenerita a Pompei fino ad Anna Frank, “Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra”, quando “Ognuno è nemico di ognuno”: sempre con il terrore che l’abominio possa ripetersi, e di dover riascoltare “Il percuotere di passi ferrati” o “Il comando dell’alba: / «Wstawać»”. Per questo la notissima esortazione civile di Shemà, anteposta a Se questo è un uomo, rimarrà valida in eterno: “Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate ritornando a sera / Il cibo caldo e visi amici // Considerate se questo è un uomo, / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no”. Nella stessa maniera rimangono legittimi anatemi e maledizioni, rivolte sia ai torturatori nazisti come Adolf Eichmann (“Tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte //… O figlio di morte, non ti auguriamo la morte. /… Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti”), sia ai pavidi che non si sono opposti: “Vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi”.

Demoni e “fantasmi immondi”, incubi e paure incontrollabili continueranno a tormentare Primo Levi, nonostante il desiderio più volte espresso di trovare sollievo dall’angoscia e dal tormentoso senso di colpa per essere scampato all’Olocausto. La voglia giovanile di tornare a cantare, “di camminare liberi sotto il sole”, di recuperare un impegno di lotta contro ogni sopruso, lentamente si ammorbidisce in una più docile e rassegnata aspirazione alla pace: “Felice l’uomo che ha raggiunto il porto, / Che lascia dietro sé mari e tempeste, / I cui sogni sono morti o mai nati…”. Ma nell’ultima composizione del volume (Almanacco) torna desolata la constatazione che di fronte all’eternarsi indifferente degli elementi naturali, solo l’uomo è capace di intestardirsi nello scempio e nella devastazione: “Noi propaggine ribelle / Di molto ingegno e poco senno, / Distruggeremo e corromperemo / Sempre più in fretta; / Presto presto, dilatiamo il deserto / Nelle selve dell’Amazzonia, / Nel cuore vivo delle nostre città, / Nei nostri stessi cuori”.

 

© Riproduzione riservata          «Nazione Indiana», 21 giugno 2018