MARIANELLO MARIANELLI, VEDERE O NON VEDERE – AKTIS, PISA 1992

Viviamo nella civiltà dell’immagine: vedere e essere visti ci rassicura sulla realtà della nostra stessa esistenza; protagonista attivo o passivo dell’accadere, offuscato dall’indistinto o abbagliato dall’eccesso, è lo sguardo il più vitale e sfruttato dei cinque sensi. Per Marianello Marianelli, germanista di fama, recensore per La Nazione e scrittore in proprio, lo shakespeariano “Essere o non essere” si ripropone in un più probabile e veritiero Vedere o non vedere, dove l’azione dell’occhio è sinonimo e garanzia di un rapporto autentico con il reale, di una penetrazione che è anche possesso. Vedere come acquisizione di coscienza, ma insieme condanna alla consapevolezza e alla disillusione; non vedere come cecità, incapacità ad agire, morte civile, ma insieme libertà di sogno e, perché no?, di errore. I quattro racconti che Marianelli raduna sotto il titolo, appunto, di Vedere o non vedere, definiti dall’autore «meditazioni narrative», vengono accomunati tutti in qualche modo dalla riflessione sui drammatici vantaggi (agiti o patiti) dell’osservazione. Secondo modalità già sperimentate nei suoi ultimi volumi di racconti, l’autore si inventa un quotidiano impastato di futuro, con avveniristiche striature di fantascienza: nella prima storia, ad esempio, immagina una clinica – che ha la spietata efficienza di un lager – in cui la gente può registrare in cassetta, e poi visionare secondo rigidissime clausole, i propri sogni. Pazienti in cui tutti potremmo riconoscerci, frequentano la clinica in preda ai desideri più inconfessabili, pazzi di rimpianti o gelosia, drogati da un onirismo fasullo, da una visionarietà artificiosa. Così uno scrittore famoso rinuncia a inventare ulteriori trame narrative perché trova più rapido, comodo e redditizio produrre, registrare e mettere in commercio i suoi sogni, commentati da critici in delirio e acquistati da un pubblico ignorante. Anche gli animali sognano, con una ingenuità e una poesia che li rivela molto migliori dei loro padroni. Se è difficile difendere i sogni della gente (il direttore della clinica verrà infatti ricattato, lusingato, spiato, minacciato e alla fine distrutto materialmente insieme alla sua creatura), ancora più problematico è difendere la gente dai suoi sogni, tirannici e crudeli divulgatori delle miserie morali di ognuno. Nel secondo racconto, ambientato a Pisa, un’inspiegabile malattia o fattura condanna Piazza dei Miracoli a una progressiva e irrimediabile autoriduzione. I monumenti rimpiccioliscono, sembrano voler ritirarsi in se stessi, e il mondo scientifico impazzisce nel tentativo di individuarne cause e rimedi. Sarà un semplice ingegnere poco “coltivato” a scoprire la natura di questa stregoneria: i monumenti rimpiccioliscono relativamente alla frequenza con cui vengono fotografati o filmati, si dimostrano allergici alla scienza e al progresso, pretendono che li si guardi come li si è guardati per secoli, con fede e stupore ammirato, con l’indugio paziente che meritano i capolavori, in silenzio. Ancora il silenzio è il protagonista per negazione dell’ultimo racconto, ambientato in un’ aldilà particolare, ridotto all’esistenza di sole voci, a una vita eterna fatta di parole. I profumi, la musica, le visioni di ogni genere possono essere solamente raccontate da voci «beate e sospese», più o meno fioche, più o meno convinte. Se all’inizio era il Logos, Marianelli suppone che anche alla fine unica superstite rimanga la parola, e a lei venga demandata la responsabilità di creare o annullare qualsiasi parvenza di realtà. Nel più breve e delicato dei quattro momenti narrativi, Marianelli riesce forse a raggiungere con naturale eleganza e fluidità il più alto dei suoi esiti, amalgamando al meglio (come suggerisce sapientemente Giampaolo Rugarli nella prefazione) «quotidiano e meraviglioso». Il suono esile di un flauto si insinua nella mente dell’autore ad avvisarlo dell’imminenza di un evento triste: una morte, un allontanamento, un addio.

Marianelli ha una scorza rude, scontrosa e talvolta pungente, che non ama essere sbucciata, ma che qua e là si scortica con ritrosia, rivelando, tenerissima e incantata, la polpa dolce di un frutto ignorato dai più.

 

«L’Arena», 8 ottobre 1992