EUGENIO MONTALE, LA BUFERA – MONDADORI, MILANO 2020

 

«Montale occupa, nella poesia italiana del Novecento, lo stesso posto che Leopardi occupa nella poesia dell’Ottocento: è l’autore più importante del secolo, colui che ha cambiato, una volta per sempre, il modo di intendere la lirica moderna nella nostra letteratura».

Con queste parole di elogio e profonda considerazione, Guido Mazzoni apre il suo saggio introduttivo al volume mondadoriano dedicato a La bufera, terzo libro di versi di Eugenio Montale, pubblicato da Neri Pozza nel 1956, diciassette anni dopo Le occasioni, una volta trascorsa e metabolizzata la sardana infernale della seconda guerra mondiale, di cui molte poesie rendono sofferta testimonianza. Una bufera storica, quella che ha investito le sorti del mondo, ma anche «guerra cosmica, di sempre e di tutti», come ebbe a chiarire lo stesso autore, che in quegli anni visse tribolate vicende personali (politiche, professionali e sentimentali), ben documentate dalla biografia curata da Tiziana de Rogatis.

Mazzoni indica nella prefazione le ragioni della centralità di Montale nella storia letteraria italiana, e quelle per cui La bufera risulta altrettanto nodale all’interno della sua produzione. Difficile, ma non oscura, la scrittura del poeta genovese si offriva come alternativa al crepuscolarismo, all’ermetismo e al simbolismo, rifuggendo sia da qualsiasi impenetrabile autoreferenzialità (l’orfismo inesplorabile dal senso comune, il soggettivismo incomunicabile nella sua esclusiva arbitrarietà), sia dall’incontrollata caoticità delle procedure avanguardistiche e surrealiste. Il classicismo moderno di Montale si pone invece come comunicabile al lettore, pur nella sua ardua interpretazione, perché mantiene un riferimento preciso alla realtà, ai dati sensibili della memoria, alla descrizione di persone, ambienti e oggetti, per quanto possano essere privati e individuali. Pur esibendo uno stile “alto”, di grande compostezza formale e legato alla tradizione letteraria, è riuscito a mantenersi ancorato ai dati reali dell’esistenza e della storia, fedele a un contesto di vita quotidiana esperibile da chiunque.

Guido Mazzoni individua quattro elementi caratterizzanti il classicismo montaliano. In primo luogo la continuità (metrica, sintattica e lessicale) con la lirica premoderna di stile tragico, ma in una maniera dinamicamente dialettica, senza ossequi restaurativi al passato, e invece con aperture al plurilinguismo, al repertorio colloquiale, a una terminologia tecnicamente esatta ed eterogenea. Secondariamente, l’io cui si rifanno le poesie è definito da un ideale umanistico di signorilità e compostezza, con precise caratteristiche di ceto e di classe, individuabili più come categorie dello spirito che come categorie sociali. In terzo luogo, Montale interpreta in maniera umanistica e raffinata la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo e i suoi conflitti interiori, dando all’esperienza personale un valore universale, senza pietismi, ribellioni, autoflagellazioni ironiche. Infine, sull’esempio eliotiano, evita l’effusione soggettiva, sentimentale e retorica, preferendo al compiacimento egotistico, all’accentramento soggettivo individuale, un’oggettivazione del mondo concreto e vissuto; nessuna immediatezza descrittiva o ansia di confessione tardoromantica, dunque, ma la capacità di circostanziare in un racconto partecipabile al lettore anche i suggerimenti offerti dalla sua vicenda e memoria privata.

Questo volume, il primo a includere tutti i testi della Bufera (introdotti e annotati da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai, corredati da una ricchissima bibliografia e da due interventi critici di Gianfranco Contini e Franco Fortini) completa la serie dei commenti alle opere montaliane inaugurata nel 2002 nella collana degli Oscar Mondadori, ripresa e proseguita di recente nello “Specchio”. L’introduzione di Niccolò Scaffai si sofferma sulla composizione del libro a partire dalla prima pubblicazione in Ticino della plaquette di quindici liriche intitolata Finisterre, e quindi sulle vicende editoriali conclusesi nel 1977 con l’edizione mondadoriana di Tutte le poesie. Scaffai valuta poi temi e forme del testo, il suo successo di pubblico e critica, le lunghe polemiche riguardanti il manierismo di Montale. Tutte le poesie contenute nella Bufera vengono situate nel contesto storico, culturale ed esistenziale in cui sono state scritte, commentate nello stile e nei contenuti, relazionate alla precedente produzione dell’autore e a quella degli scrittori italiani e stranieri che più lo hanno influenzato.

Suddivisa in sette sezioni (FinisterreDopoIntermezzo; ‘Flashese dedicheSilvaeMadrigali privatiConclusioni provvisorie: in tutto 55 liriche e due prose, composte tra il 1939 e il 1954), la raccolta tratta temi diversi, dalla tragica attualità della guerra alla funzione testimoniale della poesia, espressione di dignità umana e intellettuale, che sola può offrirsi come spazio di riflessione morale e di libertà. La novità fondamentale rappresentata dai versi de La Bufera consiste nel rilievo che il poeta dà al contesto storico, verso cui prende una decisa posizione di condanna, espressa già nell’epigrafe  di Finisterre  (citazione dello scrittore francese seicentesco Agrippa d’Aubigné: «Les prences n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles, leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter…»), evidente sconfessione del potere dominante negli anni del fascismo, da lui vissuti in una dignitosa e solitaria non-collaborazione. In questo senso, il testo più esplicitamente rappresentativo del libro è La  primavera hitleriana, in cui viene descritta la visita di Hitler a Firenze avvenuta nel maggio del 1938 («un messo infernale / tra un alalà di scherani»), nell’attesa del «respiro di un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio». Gli intollerabili eventi politici (l’hic et nunc da cui prende sempre spunto l’ispirazione montaliana) assumono quindi una valenza metafisica, diventando simbolo di un “male di vivere” che accompagna negativamente l’essere umano nel dipanarsi della sua vita materiale.

Lo sconforto derivato dalla constatazione della brutalità della tregenda bellica e della dittatura, ma anche dell’indifferenza morale della popolazione entro cui tale sciagura ha potuto manifestarsi, viene in parte mitigato dalla presenza di due figure femminili contrapposte, Clizia e la Volpe, effettivamente legate alla sua biografia (Clizia è Irma Brandeis, giovane studentessa ebrea-americana conosciuta a Firenze nel 1933, la Volpe è la poetessa torinese Maria Luisa Spaziani). Alla donna, mai descritta nella sua interezza, ma resa sempre in un solo atteggiamento o in un minimo particolare fisico, Montale demanda differenti funzioni: il recupero della memoria, l’espressione di un’alterità spirituale, l’implacabile difficoltà del distacco, la generosità dell’indulgenza, la missione salvifica dal baratro in cui sta per affondare. Clizia, severa e algida donna-angelo di impronta stilnovistica, è richiamo all’assoluto e all’ultraterreno; la Volpe recupera un eros più concreto e vitale, altrettanto coinvolgente ma meno angoscioso.

Forse, ad esemplificare la complessa coerenza tematica e stilistica del libro, è sufficiente l’accostamento di due liriche in esso comprese: quella iniziale, che dà il titolo all’intera raccolta, e la penultima, Piccolo testamento, giustamente considerata tra i capolavori letterari del nostro Novecento. In entrambe, storia privata e storia collettiva (la guerra, il nazismo) si compenetrano, illuminandosi e oscurandosi a vicenda; in entrambe una figura femminile si costituisce come senhal di perdita e di salvezza. Nei due componimenti è simile la forma metrica (versi liberi con prevalenza di endecasillabi), il costante utilizzo di rime e figure retoriche (allitterazioni, enjambement, onomatopee, ossimori, metafore) e di termini obsoleti, arcaici o specifici (sgronda, candisce, sistri, fuia, fandango, madreperlacea, sardana), la prevalenza di una sintassi frantumata e paratattica.

Ne La bufera all’elemento atmosferico della tempesta, metafora della guerra in corso, si contrappone il profilo della donna amata, strana sorella, legata al poeta da un’affinità spirituale più assolutizzante dell’amore, ma lontana perché fuggita in altro paese per sottrarsi alle persecuzioni razziali, e ora al riparo nella sua casa, elegante nido notturno improvvisamente rischiarato dalla luce di un lampo: l’istante rivelatore che non basta a illuminare il buio abisso in cui il dolore privato e quello storico fanno precipitare i due protagonisti.

In Piccolo testamento sono presenti i temi tipici della poetica montaliana: la sfiducia nella politica intesa come potere, la polemica contro qualsiasi ideologia massificante (chierico rosso, o nero), l’addensarsi di un futuro minaccioso (la sardana si farà infernale… un ombroso Lucifero… l’ali di bitume… l’urto dei monsoni). Ma c’è anche la fiera rivendicazione della propria coerenza morale (Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio / non era fuga) e della fedeltà alla funzione salvifica della poesia (il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero), ancora una volta personificata da una figura femminile amata in passato, recuperata nostalgicamente attraverso i suoi gesti più usuali, e nei piccoli oggetti (la cipria nello specchietto) a cui affidava la sua testimonianza di vita e di resistenza.

La bufera: “La bufera che sgronda sulle foglie / dure della magnolia i lunghi tuoni / marzolini e la grandine, / (i suoni di cristallo nel tuo nido / notturno ti sorprendono, dell’oro / che s’è spento sui mogani, sul taglio / dei libri rilegati, brucia ancora / una grana di zucchero nel guscio / delle tue palpebre) / il lampo che candisce / alberi e muro e li sorprende in quella / eternità d’istante – marmo manna / e distruzione – ch’entro te scolpita / porti per tua condanna e che ti lega / più che l’amore a me, strana sorella, – / e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere / dei tamburelli sulla fossa fuia, /
lo scalpicciare del fandango, e sopra / qualche gesto che annaspa… / Come quando / ti rivolgesti e con la mano, sgombra / la fronte dalla nube dei capelli, / mi salutasti – per entrar nel buio”.

Piccolo testamento: “Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero, / traccia madreperlacea di lumaca / o smeriglio di vetro calpestato, / non è lume di chiesa o d’officina / che alimenti / chierico rosso, o nero. / Solo quest’iride posso / lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta, / d’una speranza che bruciò più lenta / di un duro ceppo nel focolare. / Conservane la cipria nello specchietto / quando spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale / e un ombroso Lucifero scenderà su una prora / del Tamigi, dell’Hudson, della Senna / scuotendo l’ali di bitume semi- / mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora. / Non è un’eredità, un portafortuna / che può reggere all’urto dei monsoni / sul fil di ragno della memoria, / ma una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l’estinzione. / Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato / non può fallire nel ritrovarti. / Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio / non era fuga, l’umiltà non era / vile, il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero”.

 

© Riproduzione riservata                     «Il Pickwick», 10 febbraio 2020