JUAN CARLOS ONETTI, PER UNA TOMBA SENZA NOME – SUR, ROMA 2016

Juan Carlos Onetti è annoverato tra i più originali autori della letteratura sudamericana novecentesca: nato a Montevideo nel 1909, ventenne si trasferì a Buenos Aires e in età matura (in seguito alla persecuzione della dittatura militare) a Madrid, dove morì nel 1994.
La sua scrittura, fortemente innovativa e immaginosa, è apparsa da subito in anticipo sui tempi, per cui non sempre gli è stato riconosciuto da pubblico e critica il merito dovuto. Il ciclo narrativo che lo ha reso più famoso è quello formato da cinque romanzi usciti tra il 1950 e il 1979, che hanno come protagonista la vita claustrofobica e angosciante della città di Santa María.
Il libro appena pubblicato dalla casa editrice romana SUR, con traduzione di Dario Puccini, si intitola Per una tomba senza nome, ed è uscito in Argentina nel 1959, ma la data di pubblicazione non rispetta l’ordine delle vicende raccontate nell’intera saga, secondo una caratteristica tipica della produzione letteraria di Onetti, in cui tempo e racconto si sovrappongono, intersecandosi e sfaldandosi reciprocamente.
Il romanzo si apre sullo svolgersi di un funerale, che in genere (soprattutto nei paesi latini e in un passato non troppo remoto) si definisce come rito collegiale, partecipato e coralmente patito da famiglie e comunità. In effetti, come nota giustamente nella sua prefazione Antonio Pascale, la frase iniziale, espressa in un plurale collettivo, farebbe supporre l’esistenza di una molteplicità di voci e punti di vista differenti intorno alla cerimonia funebre: «Tutti noi, i notabili, noi che ci fregiamo del diritto di giocare a poker al Club Progresso e di tracciare le nostre sigle con pigra vanità in calce ai conti di bevande e pranzi al Plaza. Tutti noi sappiamo com’è un funerale a Santa María».

Invece la narrazione si riduce presto a un dialogo tra due soli protagonisti: l’io narrante – un saggio e indulgente medico di provincia – e il giovane Jorge, turbato testimone di una storia di squallore, abbandono, pregiudizi. Il primo capitolo è esemplare, nella sua asciuttezza descrittiva, nei dialoghi scarni, nell’impianto visivo quasi cinematografico: il ragazzo, tenendo legato alla fune un capro zoppicante, segue da solo la bara di una donna, accompagnandola a una sepoltura quasi clandestina in un isolato cimitero di campagna, «nella calura mansueta della luce». Lo sguardo lento del narratore plana sulla natura inaridita, sui visi dei becchini, sulla polvere della strada, offrendo improvvise pause di silenzio ai gesti dei personaggi:

«Il guardiano del cimitero tiene appeso al braccio un inutile bastone. È uscito sulla strada e ha guardato da tutti i lati. Io continuavo a fumare seduto su una pietra; i due tipi in camicia ancora tacevano appoggiati, le mani ciondolanti, appese alla cintura, alle tasche dei pantaloni. Così era. Qualche cactus, il muro del cimitero fatto di pietra su pietra, un muggito ripetuto sullo sfondo invisibile del pomeriggio. E l’estate ancora incerta nel suo sole bianco e circospetto, il ronzio, l’insistenza delle mosche nate da poco, l’odore di nafta che giungeva indolente fino a me, dall’auto. L’estate, il sudore come rugiada e il torpore».

Dopodiché la vicenda si anima, e Jorge, nel suo «rabbioso splendore di gioventù», confida al medico in una serie di incontri successivi il rapporto che l’ha legato alla donna morta, Rita García, cameriera di sua cognata: «una domestica, un’amica intima, un cane, una spia, una sorella …con un po’ di sangue indio». Di come lei si fosse affrancata dal ruolo di serva, per poi perdersi dapprima in situazioni sentimentali equivoche, quindi in un’esistenza fatta di miseria, accattonaggio, randagismo, prostituzione. Lentamente, e cospargendo il suo racconto di bugie e censure, il giovane confessa di aver approfittato della povera donna, soggiogata da numerosi altri amanti e protettori, vivendo per un anno «nell’irresponsabilità», nella sporcizia, nella frode: con Rita e con il capro che a lei era stato affidato da un occasionale amico, e da cui non riusciva a liberarsi.
Le ultime pagine del romanzo, talvolta inclini a un compiacimento eccessivo, virano verso l’iperletterarietà, tendendo a irrobustire la trama con qualche colpo di scena non del tutto motivato.
Il dottore scopre una sua vocazione documentaristica nel trascrivere le confessioni nebulose di Jorge; cerca altre testimonianze, individua probabili connessioni ed evidenti incongruenze nelle parole del ragazzo, per arrivare a concludere che forse l’unico aspetto positivo di tutta la vicenda, sospesa tra realtà e finzione, è stato proprio il fatto di averla messa sulla carta, salvandola dal nulla dell’oblio:

«L’unica cosa che conta è che nel terminare di scriverla mi sono sentito in pace, sicuro di aver ottenuto la cosa più importante che ci si può attendere da questo genere di operazione: avevo accettato una sfida, avevo trasformato in vittoria almeno una delle tante sconfitte quotidiane».

 

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www.sololibri.net/Per-una-tomba-senza-nome-Onetti.html     20 febbraio 2016