OTTO MARZO E MIMOSE

Vengo da una famiglia di donne, ho frequentato solo classi femminili, sono madre di due bambine, e questo ha senz’altro determinato una mia sostanziale estraneità al misterioso universo della mentalità maschile. Nutro il dubbio di aver addirittura scelto mio marito come compagno di vita perché mi è parso subito lontanissimo dallo stereotipo della virilità comunemente intesa. Ho vissuto il femminismo con la naturalezza un po’ sventata di chi si trova a lottare per idee che considero ovvie, per conquiste che ritiene scontate.

Solo ora, da questo privilegiato osservatorio dell’emigrazione svizzera, e davanti all’amara constatazione di una sostanziale débâcle dell’utopia dell’uguaglianza, mi accorgo che tali idee e conquiste ovvie e scontate non sono. Ricordo altri 8 marzo della mia vita: caroselli di ragazze infiorate, con zoccoli neri e gonne coloratissime, che si scioglievano per intrecciarsi di nuovo (ridenti, irridenti) in Piazza del Duomo a Milano, cantando slogan più sfrontati che minacciosi («Tremate, tremate, le streghe son tornate…»). Oppure il mio primo 8 marzo da mamma, a Roma, con una stupenda e canuta ultrasettantenne che copriva di mimose la carrozzina della mia bimba. Quell’allegria di essere donna (orgoglio della propria femminilità, sensazione di sorellanza complice con le altre) io non sono più riuscita a ritrovarmela intorno (o dentro?) qui in Svizzera. Colpa del rigido sessismo, della evidente discriminazione legislativa vigente nel paese che ci ospita? Colpa dell’ambiente emigratorio, ancorato a concetti retrivi quando non francamente ottusi e persecutori, per cui il ritornello dei miei nonni veneti «che la piasa, che la tasa, che la staga in casa» è tuttora il più calzante sulla piazza e nelle mura domestiche? Da una Milano provocatoriamente “rosa” mi sono trovata catapultata in una grigia Zurigo-little Italy. In cui la domanda più insistente nelle presentazioni continua a essere «Signora o signorina?», l’augurio più esaltante ai matrimoni «Figli maschi!», il commento più acuto di fronte a una violenza subìta «Se l’è cercata…»; un mondo in cui l’arma di offesa più utilizzata è la battuta volgare o la telefonata/lettera anonima, in cui il pettegolezzo, l’invidia, la maldicenza trovano nella donna (soprattutto se non perfettamente “allineata” alle aspettative ed esigenze comuni) il capro espiatorio preferito.

Festeggiamo l’8 marzo? Festeggiamo l’8 marzo! Non brinderò, tuttavia, al compagno aperto e femminista che però non c’è una volta che se li lavi lui, i calzini; né alla donna emancipata, manager in carriera che sfida il maschio usando i suoi metodi peggiori, i suoi colpi più bassi; né al gene XX in quanto tale, capacissimo di farsi più male di quanto gliene abbia mai inflitto il gene XY. Brinderò alle bambine, a tutte le bambine, da quelle in gestazione alle adolescenti, augurando loro di non dover pagare qualsiasi atteggiamento anticonformista quanto continuano a pagarlo le loro mamme, di non doversi sentire in colpa se aspirano ad esercitare la loro intelligenza autonomamente, di non doversi scusare se nutrono qualche ambizione che non sia puramente casalinga… Brinderò in particolare alle mie figlie, che nel 2000 avranno quindici e ventun anni, e l’8 marzo dell’anno scorso mi hanno regalato una rosa dell’ EPA che suonava «Tanti auguri a te» se le si premeva un petalo. Per loro due, streghine dolcissime, tornerò a cercare mimose, intonerò canzoni passate di moda, come quella spavalda e innocente «sebben che siamo donne, paura non abbiamo…».

 

«Agorà» (Svizzera), 8 marzo 1989