CESARE PAVESE, IL COMPAGNO – EDIZIONI CLANDESTINE, MASSA 2020

L’incipit de Il compagno è memorabile, una delle frasi più note della narrativa novecentesca:
“Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra”. Pablo e la sua chitarra sono una cosa sola, infatti: lui la suona nelle feste di quartiere, tra amici che vogliono solo cantare a squarciagola, fare casino, divertirsi: senza alcuna reale attenzione per la musica e l’abilità dell’interprete. Poi, improvvisamente, il giovanotto perde ogni interesse per lo strumento, per la tabaccheria di famiglia in cui lavora, per le facce che gli stanno intorno. E lo ripete in continuazione, “sono stufo”, “voglio andare via”. Si tratta di un topos nei romanzi di Cesare Pavese. Tutti i suoi protagonisti desiderano partire, tentare la fortuna altrove, uscire dall’abbraccio soffocante delle abitudini e degli affetti parentali. Poi tornano, in genere nostalgici e sconfitti.

Per Pablo il momento discriminante, quello in cui ci si confronta con la propria esistenza mettendola in discussione, è l’incidente occorso al suo più caro amico, Amelio, finito in un fosso con la moto e rimasto paralizzato. Lo va a trovare, steso nel letto e disperato; suona la chitarra per distrarlo, bevono insieme, parlano o stanno zitti. Incontra nella stanza la ragazza di lui, Linda, uscita incolume dall’incidente; ne aspira il profumo, la osserva prendersi cura del malato, muovendosi con leggerezza tra il letto e la cucina. Se ne innamora.

Pablo e Linda iniziano a frequentarsi, vanno a ballare, e poi a letto insieme. Tra loro, ingombrante, il pensiero fisso di Amelio costretto all’immobilità, rabbioso, tra bottiglie di liquore e sigarette. Tentando di distrarsi, e di non sentirsi in colpa, Pablo esce con i compagni di sempre (Lario, Gigi, Martino, Chelino), torna con loro nelle trattorie a suonare, o in bicicletta sugli argini del Po fino alle colline. La notte, attraversa a piedi una Torino deserta. Entra nel giro un po’ losco degli amici di Linda, teatranti e ballerine, ma se ne stanca presto: “Certi giorni, a pensare quanta gente c’è a questo mondo, anche poveri diavoli che nessuno conosce, mi veniva una voglia di andarmene a spasso, di saltare sopra un treno, che quasi gridavo… ne avevo abbastanza e capivo che ormai tutta quanta Torino e il mestiere e le strade e le pietre di casa non bastavano più a darmi pace”.

Allora cambia lavoro, fa il meccanico e gira col camion, pur continuando a suonare la chitarra, a ballare nelle sale, a ubriacarsi. Ma quando Linda lo lascia per un altro, decide di accettare la proposta di un amico, seguendolo a Roma. “Mi piaceva di Roma proprio quel fare perditempo che si sente nell’aria. uscivo e andavo a spasso… Mi guardavo le strade e i palazzi, e ce n’erano di così vecchi e mai visti, che soltanto i romani li avevano fatti”.

La capitale, in quegli anni fascisti antecedenti la guerra, non è per Pablo solo aria tiepida, donne in carne, osterie e monumenti: è soprattutto la scoperta di una nuova coscienza civile, la volontà di opporsi a una dittatura ingiusta, lottando a fianco dei lavoratori sfruttati, organizzando scioperi e riunioni politiche clandestine. Rinuncia a Linda riapparsa a Roma per rivederlo, rinnega gli anni sventati della giovinezza torinese, diventa uomo scoprendosi comunista. Trova lavoro in un’officina che ripara bicilette, e presto intreccia una relazione con la proprietaria, una giovane vedova “brusca e asciutta”. Tuttavia, la vocazione per cui combattere non è più l’amore, bensì la resistenza contro il regime, la solidarietà con i nuovi amici: Giulianella, Dorina, Carletto, Fabrizio, Luciano. E Gino Scarpa, reduce dalla guerra di Spagna, che lo fa crescere intellettualmente, attraverso incontri, letture, lunghe discussioni. Pablo infine viene arrestato, passa in cella alcuni giorni, per essere poi sottoposto a sorveglianza speciale nella sua città di provenienza, Torino. Lascia Roma, adulto, consapevole, pronto a rimettersi in gioco. “Le cose importanti, le cose che buttano a terra, queste cose succedono per conto loro. Vengono addosso come un camion, come una brutta polmonite, e dietro c’è qualcuno che ci gode e che gioca”.

Nel descrivere lo sviluppo della consapevolezza antifascista di Pablo, lo stile di Cesare Pavese diventa sempre più scarno, i dialoghi franti e veloci, a imitazione dell’ansia ribelle del protagonista e dei co-protagonisti, “compagni” come lui.

© Riproduzione riservata  SoloLibri.net      13 luglio 2021