FABIO PUSTERLA, BOCKSTEN – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1989

Fabio Pusterla è uno dei poeti ticinesi più interessanti; se posso essere meno diplomatica, mi spingo ad affermare che è il più importante che il Ticino possa vantare tra i poeti che hanno meno di quarant’anni. Lo ha dimostrato con la sua prima raccolta di poesie (Concessione all’inverno, Bellinzona 1985), prefata da Maria Corti e vincitrice dei premi Montale e Schiller. Lo conferma con questo suo secondo lavoro, pubblicato da Marcos y Marcos, Bocksten, libro decisamente meno autobiografico del primo, meno ironico e polemico, ma senz’altro più colto e sofferto. Verrebbe da definirlo “disperato”, se non si temesse la retorica suscitata da tale aggettivo. Bocksten è una località svedese, vicina al mare e al confine con la Norvegia, dove nel 1936 è stato ritrovato lo scheletro di un uomo del XIV secolo, probabilmente linciato o ucciso nel corso di qualche rituale magico-propiziatorio. Di lui rimangono (straordinariamente ben conservati dall’azione della torba in cui era sepolto) le ossa, brandelli di un abito di tela, i capelli rossi e alcuni pioli confitti nel petto. Partendo dalla descrizione di questo crudo fatto, Pusterla innalza il Bockstenmannen a simbolo di un destino più generale delle vittime misconosciute della storia: compito del poeta è quindi dare voce a un morto di cui nessuno sa niente, riscattarlo dal silenzio orrendo dei secoli, dall’indifferenza delle generazioni successive: «Ti presterò un voce per il buio / una mano per i tre pioli / nel tuo petto». Il bosco in cui si attua questa rivisitazione (quasi ricerca archeologica e insieme rito apotropaico) è un bosco ossessivo, “in rovina” come fosse un tempio sconsacrato: melma, palude boscosa, pozzo fangoso, putridume, detriti, rottami, muschio, rami rotti, luce spiovente, silenzio, sono i termini usati per offrirne una prima, angosciante, immagine. Si susseguono poi altre presenze tacite e minacciose come fantasmi («La marcia umida degli alci, / il bramire dei cervi»; «Altri incontri nel bosco / orbite vuote, fisse, / mani scarne…// Li immagino / strisciare lungo bave di lumache, / spiare dalle tane delle talpe…»; «ed è lontano / il trotto dei cavalli, il passaggio / di corpi e luci e sagome sull’acqua…») a rafforzare l’idea di un incubo che esplode nella nebbia di un sonno lungo quanto la storia. E’ uno scenario che può ricordare i primi film di Bergman, l’angoscia sottile di una natura immodificabile matrigna dell’uomo. Il poeta da una iniziale, oggettiva per quanto partecipe narrazione in terza persona, arriva poi a identificarsi totalmente con la sorte dello sconosciuto morto seicento anni fa, e a descriversi in prima persona: «Mi portano qui / con mille ragioni o per un disguido, / digrignando i denti e recitando preghiere»; addirittura inventa quale può essere stata la vera causa della sua morte, estrema e vivifica libertà dell’arte rispetto alla ottusa costrizione della realtà storica: «ho deciso per te la snellezza del viandante / ucciso per un motivo».
Il destino di chi scrive – di chi soffre scrivendo, non dei poeti salottieri e festaioli purtroppo sempre più numerosi e premiati dalla nostra società – è un destino di solitudine e diversità, alla ricerca faticosa di risposte, con la consapevolezza tragica che una risposta definitiva non si avrà mai: «Alcuni hanno scelto il mare, il suo rollio. / Altri coltivano segale, radici, / e danzano la notte attorno ai fuochi. / Io scavo, scavo, non so perché». Vittima dei suoi incubi, ma anche di quelli di chi legge, portavoce dell’inconscio collettivo, amplificatore della paure di tutti, Fabio Pusterla in quest’ultimo libro fa parlare il nostro terrore ancestrale di non essere niente, di non servire a niente: «Sale su, aggalla in un risucchio lento, / il gorgo abbagliante che preme, si espande, / strascina un ricordo di caverna…// è il mostro della stiva che sale sulla plancia, / l’urlo che nasce in pancia e vuole uscire»; «E se il buio fosse di tutti, e servisse a qualcosa / tastarne gli scalini da basso inferno?».

Il suo discorso usa termini duri, immagini violente, ma curiosamente ne escono versi dolci, armoniosi: ne sono testimonianza le numerose poesie che iniziano con gli endecasillabi più tradizionali, molto cantati. Quasi ancora cercasse nella musica una consolazione al disagio del vivere. Il poemetto è incastonato tra alcune poesie di apertura e altre di chiusura, testamentarie. Le prime le potremmo definire introduttive al tema, e narrano del fluire cosmico del tempo, del lento e inarrestabile distruggersi del mondo, con la certezza dell’ inessenzialità della vita umana e della storia individuale (non a caso prevalgono qui le immagini di rifiuti, di scarichi, di stracci e immondizie materiali e morali). Le ultime sono anch’esse un messaggio di asciutta disperazione, ambientata nelle immobili pianure del nord, in un’Europa settentrionale freneticamente tesa ad annientarsi, tra catastrofi ecologiche in cui «l’anguilla sorella» di Montale «guizza tra scoli di atrazina…/ perché il mare è un profumo lontanissimo»». Cosa rimane indenne da questa scena apocalittica? L’immagine appunto di questa anguilla testarda e innamorata della vita che lotta «per strappare / un attimo all’asfissia, un’idea di vita / all’evidenza dei fatti…». L’immagine di una poesia che lotta per continuare a esistere, e -si può dire?- civile, nel senso più alto, come questa di Fabio Pusterla.

«Agorà» (Svizzera), 20 dicembre 1989