TIZIANO SCARPA, UNA LIBELLULA DI CITTÀ E ALTRE STORIE IN RIMA – MINIMUM FAX, ROMA 2018

Un po’ di Gianni Rodari, un po’ di Toti Scialoja, e molto del tono sfrontato e sbeffeggiante a cui ci ha abituato Tiziano Scarpa, alleggerito qui da una nota di scontrosa e quasi imbarazzata leggerezza. Sono trenta raccontini in rima baciata, lunghe filastrocche che lasciano spesso zoppicare la metrica, come accade talvolta nelle canzoni dei bambini, quando le idee si rincorrono in fretta. Dello spirito infantile mantengono anche il divertissement della parola sporca, dell’immagine scurrile ma non troppo: una specie di volgarità alata, di impudicizia da Zecchino d’oro.

Protagonisti di queste storie rimate sono persone, piante, cose e animali che si ribellano al destino loro assegnato, tentando di sfuggire al cliché che li inchioda a un ruolo definito da altri (un dio crudele? la società? la natura matrigna?), inventandosi scappatoie improbabili, insurrezioni eclatanti, disubbidienze quasi sempre destinate al fallimento. Incappano così in avventure comiche o tragiche, ma comunque rivelatrici di un insopprimibile bisogno di libertà, di opposizione al reale. La rassegna si apre con una libellula che, consapevole della propria caduca e labile esistenza, cerca di sfruttare le sue ultime ore di vita (“Vola più in alto, vola più in là, / per assaggiare un po’ di realtà”), e poco prima di essere fagocitata nel buio della notte eterna viene illuminata dalla luce splendente di una lucciola. Il tono idilliaco è però subito mortificato dalla seconda composizione, in cui un omaccione di Treviglio, fognaiolo puzzolente, non riesce a soddisfare il suo desiderio di paternità perché rifiutato dalle donne, e alla fine per un miracolo inspiegabile partorisce maschilmente un coyote più sudicio di lui, che per troppa affettuosa riconoscenza lo divora. Ci sono poi una giocoliera sadica, un elefante che si mette a dieta per amore, un regista di horror che si tramuta in zombie, un misantropo che “considerando ognuno un somaro, / se ne andò a vivere in cima a un faro”, una voragine che “mangia e beve di tutto. La terra inghiotte, e dopo fa un rutto”. C’è uno scrittore “che sta a San Polo, / le sue parole le prende a nolo”, e “un cavallo a Borgosatollo / che lacrimava a rotta di collo”.

Nell’elencare precisi luoghi di provenienza geografica (Tolmezzo, Buffalora, Ventotene, Pordenone, Cinecittà, Murano, Saturnia…), Tiziano Scarpa conferma il suo debito a “I bravi signori” di Rodari e ai limerick di Edward Lear, e insieme suggerisce che questi pupazzetti disossati e inconcludenti siamo tutti noi, sparsi qua e là per il mondo, chiusi nel nostro bozzolo e vanamente speranzosi di chissà quale liberatorio ed eroico riscatto: “Fai da te. Monta e smonta. Taglia e cuci. / Quegli attori, purtroppo, siamo noi”. Pittrici, scultori, artigiani, terroristi, architetti, musicisti: stigmatizzati nel nostro narcisismo, nella vile ignavia che non ci fa partecipare alle gioie, alle fatiche e alle sofferenze altrui. I peccati di superbia, isolamento, egoismo vengono quindi puniti con un penoso contrappasso, commentato da sentenze moraleggianti sparse qua e là: “Sono i pezzi di noi, che rifiutiamo / per diventare quello che non siamo. // Sono i pezzi di noi, che abbandoniamo sentendoci sbagliati, e ci perdiamo”.

 

© Riproduzione riservata                  «Poesia» n.342, novembre 2018