MICHELE SOVENTE, CUMAE – QUODLIBET, MACERATA 2019

Il quarto libro di Michele Sovente (Monte di Procida, 1948-2011), Cumae, è il primo in cui si  esprime compiutamente il trilinguismo ‒ italiano, latino e dialetto campano ‒ che ha fatto del suo autore un caso unico e originale nella letteratura italiana. Vincitore del Premio Viareggio-Rèpaci nel 1998, oggi viene riproposto da Quodlibet in un’edizione filologicamente esemplare, curata da Giuseppe Andrea Liberti, con un puntuale commento a ogni poesia, che ne sottolinea le scelte formali e stilistiche, i vari riferimenti testuali, la cronologia di composizione e pubblicazione.

Già nell’esposizione della biografia soventiana, il curatore mette in luce gli snodi fondamentali che hanno influito in maniera indelebile sulla sua scrittura: a partire dalla nascita, avvenuta a Cappella di Monte di Procida il 28 marzo 1948, ultimo di sette figli di una famiglia proletaria, con il padre piastrellista, emigrato prima a Marsiglia, poi nel Maghreb, dove il piccolo Michele imparò elementari rudimenti del francese. Morto il padre nel 1957, poco dopo il rientro in Campania, al ragazzo fu imposto di entrare in seminario fino alla maturità, ottenuta la quale si iscrisse nel 1968 alla facoltà di lettere di Napoli, dove si laureò discutendo una tesi su Eugenio Montale. Gli anni liceali e universitari lo introdussero non solo allo studio approfondito della cultura classica, e in specie del latino, ma soprattutto alla conoscenza della poesia contemporanea e della filosofia del ’900. Anni di grande fermento politico e sociale, quelli trascorsi nel capoluogo partenopeo, partecipando alle lotte studentesche e operaie con il movimento di Lotta Continua, e collaborando alle pagine culturali del quotidiano “Il Mattino”. Sovente insegnò per tutta la vita all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dapprima Letteratura, quindi Antropologia: materie i cui fondamenti costituirono la linfa della sua produzione poetica.

Cumae fu pubblicato da Marsilio nel 1998, vent’anni dopo l’esordio con L’uomo al naturale (1978), seguito da Contropar(ab)ola (1981) e da Per specula aenigmatis (1990). Il libro è diviso in sei sezioni (anticipate da un testo proemiale), connotate ciascuna da un tema specifico: la storia, l’eros, il mondo animale, il territorio campano, la forma linguistica, il dialetto cappellese.

Ricorrenti in Cumae sono i topoi di un simbolismo archetipico letterariamente collaudato: acqua, fuoco, specchio, luna, cerchio, offrono un repertorio di immagini ereditate dalla cultura classica e popolare, ma filtrate sia dalla lente della psicanalisi junghiana, sia dalla riflessione sui testi di Giordano Bruno, Giambattista Vico ed Ernesto De Martino. Sovente riteneva il suo interesse antropologico «scaturito da un impulso interno, dal bisogno di portare alla luce schegge sonore, barlumi di una età lontana dai contorni fiabeschi e primitivi, manifestazioni di energia vitale, di fisicità, figure e gesti elementari, nuclei di pensiero e di visionarietà che configurano un universo dove fascino e paura, sortilegio e smarrimento, solitudine e fusione con la natura procedono sempre all’unisono». E riguardo al suo co-linguismo si era così espresso: «non è nato da alcun calcolo letterario ma come intuizione poetica, attraverso la quale poter esprimere e riferire soprattutto a me stesso uno stato di assoluta crisi storica, di distanza dalla modernità intesa come supermercato di codici, norme, valori obbligati, tecnicismi che a nulla più servono se non a far circolare un esercito di tanti pseudo-poeti e pseudo-artisti, garanti di ferro, a loro insaputa, dell’oceanico bla-bla dei mass-media».

Latino, italiano e dialetto rimangono distintamente autonomi, senza combinarsi all’interno di una stessa poesia. L’italiano ricorre a un lessico essenziale, concreto, moderno; il latino vive di reminiscenze classiche, medievali ed ecclesiastiche, ma è attualizzato in un’originale inventività di metri e figure retoriche; il vernacolo campano viene svincolato da tutta la banalità melodica e decadente della tradizione neo-dialettale. Lo stile è inoltre coraggiosamente innovativo, con il ricorso frequente a distorsioni sintattiche, inversioni, invenzioni fonetiche, appaiamenti di termini, commistioni di termini aulici, tecnici e colloquiali.

Proemio alla raccolta è il testo bilingue Rudera / Ruderi, che fornisce la chiave di lettura stilistica e linguistica del libro, nel suo proporsi in latino e in italiano, e nel collocarsi in uno scenario cupo di silenzio e morte, testimoniato dalle rovinose vestigia lasciate dallo scorrere del tempo: «Ex imis humi larvis / ex altis umbris parvis / temporis labor erumpit / vitaeque cruor incumbit / iactura est scissura / formarum se volventium / ad mortem ad silentium…» (Dalle remote larve della terra / dalle anguste-alte ombre / la fatica schizza del tempo / e la linfa cupa del vivere / tra erosioni e deflagrazioni / si evolvono forme verso / la morte e il silenzio…). In questa introduzione ci sono già tutti i temi fondamentali dell’intera raccolta: l’ascolto del passato che si fa voce presente attraverso i resti archeologici, l’immagine della terra scavata da larve vive e tomba di presenze defunte, le erosioni e i movimenti sismici e vulcanici, il lavorio del tempo che tutto corrompe, lo sfaldarsi della memoria da cui derivano perdita e limitatezza, l’evoluzione non verso un seducente progresso ma verso un inevitabile smarrimento di sé.

Sovente è stato definito “poeta sismografo”, per la sua attitudine a registrare e decrittare i sommovimenti del territorio flegreo, sintomo e allegoria degli squilibri sociali di uno spazio scosso da violenze e sfruttamento: «Uno spazio nel quale si sovrappongono da secoli grida di mercanti e voci sovrannaturali, il mistero del futuro e la memoria del passato, la storia e la magia, il mito e la morte», secondo Liberti. La prima sezione del volume è appunto dedicata allo svolgersi della Storia («la storia che devia»), riletta nel suo misterioso e umbratile celarsi «in gurgite temporis», decifrata anche attraverso il lascito di leggende mitologiche e di tradizioni ancestrali, sospese tra fede religiosa e superstizione. Emblematicamente, la prima poesia della prima sezione si intitola Di sbieco, e indica la prospettiva secondo cui avvicinarsi alla realtà, con sguardo sbilenco e velato: «L’occhio strabico strazia / piumaggi e fossili. Si vive / si scrive di sbieco». Il mondo è qui definito «confuso», non facilmente definibile da una «lingua di grumi ingombra / e asfittica pianta».

Lingua-pianta da rivitalizzare, quindi, servendosi di energetici innesti e indispensabili lacerazioni: «Vacua lucet / lingua in frigore, varia / aequora eam incurrunt, nunc / linguafurca decidit-recidit / in vacuo inscripta infinito» (Vuota balugina / nel freddo la lingua da acque / e specchi inseguita, adesso / la linguaforca decide-recide / inscritta nel vacuo infinito). Lo stesso manovratore dello strumento espressivo, il poeta, rimane intimorito ed esaltato dal suo potere di creazione: «Ignaro del fortunale imminente / insisto a enumerare / le radiose oltraggiose strategie. / Avido animale / seguo l’occhiuta preda. / Mi uncinano le carte. / Brusiscono nell’afelio i palinsesti».

Michele Sovente, nell’interpretare l’interno di sé e l’esterno da sé, si affida alla reattività dei sensi. All’udito, in primo luogo, ma poi anche al tatto e alla vista, reclamando il primato della fisicità del proprio corpo che lo fa simile a quello di tutti gli esseri animati. Mihi sunt: «Brachia mihi sunt oculi / tengo et video albas / per aquas alas, caudas / paulatim in somno…» (Ho io: Braccia ho occhi io / tocco e vedo candide / ali nell’acqua, code / nel sonno intermittenti / finestre oscure sento / nuvole miei legami, rami / ho vertebre io, perciò / schegge mi scuotono / di nascosta luce, pustole / inquiete mi incidono / e unghie mi devastano, / foglie mille volte ho / sul confine arse io). Ne deriva un sentimento panico della natura, descritta sia nei fenomeni atmosferici e negli elementi cosmici (neve, gelo, nebbia, luna, pianeti, maree), sia nell’osservazione del mondo animale, in una «visione dell’unità metamorfica del tutto». Animali istinto, animali affetto, gioia-sofferenza-leggerezza-gratuità-morte. Siano lepri o insetti, volatili o gatti, pesci o galli, la loro natura è sentita dal poeta come umana o addirittura sovrumana: nell’agonia insopportabile di un micio, nella corsa della lepre trasformata in vento, nel tarlo misteriosamente nato dal legno, Sovente avverte la fragilità e caducità di ogni esistenza.

Una sequenza nel suo bestiario è dedicata agli uccelli, portatori di luce e colori, immagine di vitalità antropologicamente collegata al sogno antichissimo del volo; comunicando con l’uomo attraverso uno stridio acuto simile a quello di porte cigolanti, gli uccelli raccontano il destino che accomuna le creature del cielo e della terra. Aves: «Cum avibus aves / aethera dividunt, luces / cupidinesque per alas / hieme et vere ferentes. / Suas poenas, sua itinera / in ventorum nequitia, / diutius quam ianuae limosae / stridentes, avibus / aves sub noctem suaves / enarrant subtiliter.» (Gli uccelli: Si dividono l’aria / gli uccelli tra loro, d’inverno / e a primavera luci e brame / sulle ali portando. / Ciò che vedono e soffrono / nel tumulto dei venti, / più delle porte fangose / a lungo stridendo, gli uccelli / sulla soglia della notte gli uccelli / soavi e precisi raccontano).

Anche l’amore per una donna non si sottrae all’inevitabile scacco della perdita: nel tenero e commovente micro-canzoniere che il poeta dedica a una innominata «cara compagna / d’infantili giochi» è il rimpianto a costituire l’elemento tematico predominante: «vai / tuttora da un’isola / all’altra inseguendomi / blandendomi, caro dado, / amaro guado, non sai / quanto ti amai», recuperando l’eredità della nostra tradizione letteraria  che da Virgilio e Petrarca arriva a Montale, alle sue Liuba, Clizia, Volpe, Mosca.  «Ti assomiglio spesso al filo, / al foglio bianco, al mare, tu / fibra tu labile rima tu balenante / ingorgo». E ancora «Cerco di sciogliere la tua figura / dai fili, dal rancore, dal freddo che / la tengono avvinta, mando da lontano a te, / da lontanissimo, un lampo / un gutturale / suono, sfida all’occhio abissale / delle flegree frane». Prendendo spunto dalla dolorosa esperienza della separazione dall’amata, Sovente proietta la drammatica transitorietà del sentimento erotico sull’aspro e instabile scenario flegreo in cui è nato e vissuto.

Il paesaggio mediterraneo dei Campi Flegrei è un cronotopo, scrive Liberti, in cui il bradisismo e la vulcanicità riportano alla luce tracce del passato greco-romano, personaggi mitici come Ulisse, Proserpina e la Sibilla, divinità come Demetra e Venere, città fantasmatiche come Napoli e Cuma, insieme a tragici squarci di un presente violento e corrotto. Ecco quindi le sezioni finali, dedicate al paesaggio campano, ai suoi abitanti e alla sua lingua. Donna flegrea madre, Le antiche donne cumane, Acqua mediterranea, Fosforo e zolfo, Neapolis, Camminando per i Campi Flegrei, Tu, Cumae…, indicano quanto Michele Sovente sia stato debitore alla sua terra di immagini e colori, sogni e incubi, memorie personali ed echi letterari, testimonianze politiche e rabbie civili. «Diletti miei phlegraei campi / infetti dove sine die l’immobilismo / si allea con il bradisismo!», «Hanno infinite / insidie e vite queste / napoletane strade piazze alture / in cui lunatico mi perdo / estatico, dai rumori disfatto / da una vischiosavida / nube», «Zitte ogni sera stanno tra le antiche / ombre le antiche donne cumane //… i denti macchiati dall’acqua di pozzo / ascoltano il vuoto le donne di Cuma», «clamans infernalia / clinamina tu, Cumae, ad sideralia / fastigia fugitans dum letalia / leniter lingunt calcaria», «Acqua, mia / acqua antica e contemporanea, sii / tu il punto fermo, la via / che porta al miscuglio di lingue, / acqua mediterranea», «Me fótte ’a notte, me gnótte, / ‘a sete me guverna, ‘a famma / me tène comme a na mamma», «trase na luce ‘mmiez’ î rruvine, / ‘a luce r’ ‘a puisìa, nu rrevuóto / ‘i fiùre ca ‘nziéme mètteno / ‘a vita cu ‘a morte».

Questo volume «dalla lunga gestazione», prevedibilmente complessa ma portata a compimento con assoluta competenza e meritoria dedizione da Giuseppe Andrea Liberti, ci permette di valutare lo spessore intellettuale e la perizia compositiva di un poeta non abbastanza considerato nel suo effettivo valore: forse perché estraneo a scuole e correnti, o perché poco avvicinabile nella sua difficoltà interpretativa. Dobbiamo essere grati, oltreché al curatore, alle edizioni Quodlibet che hanno saputo allestire un prodotto librario raffinato, dalla grafica sorvegliata ed elegante.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 16 febbraio 2020