GÉZA SZÖCS, NÉ L’ESISTENZA NÉ LA SCALA – JACA BOOK, MILANO 2017

Nella nuova collana di poesia delle edizioni Jaca Book, curata da Vera Minazzi e da Tomaso Kemeny, è uscito – prefato e tradotto da quest’ultimo – un volume di Géza Szöcs, nato in Transilvania nel 1953. Questo autore, conosciuto e premiato anche in Italia, oltre che internazionalmente, è stato un oppositore del regime di Ceausescu, costretto all’esilio nell’88, in seguito impegnato politicamente sia in Romania sia in Ungheria, dove ha rivestito importanti cariche pubbliche, fino all’attuale presidenza del Pen Club. La poesia in apertura, a cui allude il titolo del libro (Né l’esistenza né la scala), contiene in nuce alcuni dei suoi temi fondamentali. In primo luogo la constatazione dell’inspiegabile gratuità della vita, l’interrogativo riguardo al suo nascere e finire, che pare avere come unica giustificazione la pura riproduzione della materia e dell’energia («Bach non ha bisogno di un ascoltatore. / Al tempo non serve una pendola. / … A che serve una scala all’uccello. / … Cos’è la dolcezza / non lo sa il miele. / Forse la bellezza è / quando Dio / contempla in se stesso?»).

Domande che riecheggiano filosoficamente la Grundfrage di Leibniz, e che vengono riprese nella terza e ultima sezione del volume, con un’esplicita sterzata in direzione del sarcasmo e dell’amarezza, quasi a voler dire che certo non sarà la poesia a poter suggerire risposte, e tantomeno a fornire consolazione. Infatti i temi, spesso irridenti e polemici, sfruttano gli stratagemmi linguistici dei calembour, della boutade, dell’invenzione grafica, di stili e forme diverse  –  dalla prosa al dialogo, dall’epigramma alla cantilena –, sbeffeggiando la seriosità delle varie ipotesi scientifiche e teologiche che pretendono di dare un significato al nostro esserci, qui e ora, nel passato testimoniato dall’archeologia e nel futuro proiettato in un’opinabile e pretestuosa fantascienza.

Così commenta Kemeny nell’introduzione: «Alla profondità di pensiero Szöcs unisce una tensione ludica particolare, alla gravità esistenziale la libertà di flusso, alle altezze mitiche trovate linguistiche di difficile traduzione». Possiamo divertirci leggendo una spassosa Conferenza tra quattordici musicisti che si autodefiniscono chi con prosopopea, chi ingenuamente, chi con tremante pudore; oppure assistendo a inseguimenti polizieschi sulle tracce di ladri, spie, amanti fedifraghi; o ancora osservando lo stravolgimento di confini geografici e temporali, sempre con il trionfo finale dell’assurdo, del nonsense, che può ricordarci altri grandi e labirintici autori dell’Europa orientale, come Kafka, o i suoi compatrioti romeni Ionesco e Nina Cassian.

Il corpo centrale della raccolta è costituito da un dramma in versi composto nel 1999, Via Crucis, vera e propria sacra rappresentazione della Passione di Cristo. Qui Szöcs mette in scena sul tradizionale sfondo palestinese (Gerusalemme, il Getsemani, il Calvario), un coro angelico osannante e la folla chiassosa, varie comparse umane e animali, e tutti i protagonisti del racconto evangelico, con irruzioni improvvise di personaggi biblici (Giona, Saul) o di artisti contemporanei (Paul Klee): presenze animate da invenzioni surreali (il dialogo tra Pilato, moglie e figlio), e da conversazioni inverosimili, in un connubio ironico di storia e leggenda, di esegesi e cronaca attuale.

 

© Riproduzione riservata            «Poesia» n.338, giugno 2018