Ricordo tutto di quella mattina. Già che l’ho dovuto ripetere tante volte, e poi me lo sono rivisto nella mente come fosse stato un film al rallentatore. Mi ricordo anche i miei pensieri, quello che era accaduto prima; tutto, insomma, fino a quando Gelmo è caduto e la musica suonava suonava, e mi sono messa a urlare.

Noi apriamo alle sei e mezzo, perché molti prendono la metro prima delle sette, impiegate, infermieri, chissà che turni fanno.
E allora devono bersi il caffè, gustarsi la brioche fresca. Io ero lì come sempre, più addormentata del solito perché non avevo riposato abbastanza. La notte c’era stato tutto quel fracasso per la partita, i tedeschi avevano spaccato le vetrine in centro e i nostri coi caroselli di macchine, i clacson, le bandiere, proprio una provocazione. Con quel caldo e tutte le birre in corpo. Bestie, sono bestie, i tifosi. Mi ero portata dietro Gelmo perché non stesse in strada, magari scendeva con la metro fino al Duomo; lui non si rende conto dei pericoli, mi dicevo, può capitargli qualcosa di brutto; meglio portarlo con me al bar. Ed ero lì con lo straccio in mano che lucidavo il bancone, ancora non si era visto nessun cliente. Avevo acceso la macchina del caffè, svuotati i portacenere della sera prima.

A Gelmo gli avevo dato la scopa, non che mi aiutasse molto, poverino. Puliva sempre lo stesso punto, ripeteva: “Qui c’è sporco, mamma, qui c’è sporco”. Era ossessionato dalla polvere. E pensare che mio marito gli aveva voluto dare quel nome importante, da re, da generale, perché diceva che nostro figlio sarebbe diventato qualcuno. Guglielmo. Poi, quando l’abbiamo visto che cresceva così, abbiamo cominciato a chiamarlo Gelmo. A volte anche Gelmetto: i clienti, per sfotterlo, perché lui era un omone alto uno e novanta; non ha preso da me, se non la bocca e quei riccioloni castani. Un armadio, pareva, con la scopa in mano e il suo grembiule bianco candido allacciato in cintura. Me lo rivedo davanti così; che faceva “mmm” dietro alle canzoni della radio. Aveva orecchio per la musica, ma non ricordava mai le parole: allora mugolava, tutto contento come un bambino.

Io me lo guardavo mentre lucidavo il banco; è incredibile come sia difficile far sparire il cerchio lasciato dal fondo dei bicchieri sull’alluminio, ci vuole a volte un acido e tanto olio di gomito perché non rimanga l’alone. “Gelmo”, gli faccio, “ce lo beviamo un caffettino?” Lui sorrideva e scuoteva il suo testone, e io lo sapevo già da prima, glielo avevo chiesto tanto per ridere, ma lui il caffè non l’ha mai amato. Diceva che gli amareggiava la lingua. Certe volte era spiritoso senza volerlo, aveva delle trovate, non se l’era mai cavata bene con l’italiano. Le elementari sì, le aveva finite giuste, in cinque anni con l’insegnante di sostegno, una maestra così brava… Ma poi alle medie era stato un disastro, non si capiva coi professori, ha ripetuto ogni classe due volte. E si è andato chiudendo, sentiva l’umiliazione di stare sui banchi coi ragazzini, lui che era già un uomo fatto. Stava zitto per ore, sorrideva al vuoto.

Non è mai stato violento, Gelmo, mai, mai. Chissà, però, cosa aveva dentro quando cercava la polvere nei raggi di sole, e diceva di volere “tutto pulito, tutto pulito”. È successo dopo il giornale radio. Sono sicura perché mi avevano preoccupata le notizie dei disastri a Cordusio, vetrine in pezzi, feriti, cinquanta persone in questura. “Hai sentito, eh, Gelmo? Disgraziati! Era meglio se se ne stavano a casa loro, questi tedeschi…”  E lui aveva ripetuto “Questi tedeschi”. Mi imitava, in quello che dicevo e anche nei gesti.

E’ stato allora che è entrata lei. Io ho capito subito che era straniera, e non solo per quei capelli biondi, lunghi, quegli occhi così chiari… Soprattutto perché era a piedi nudi, e con un prendisole tutto scollato, bianco, che le arrivava a metà polpaccio. Sono calorosi, gli stranieri, appena vengono in Italia pensano al mare, al sole, si mettono quasi in costume.

“Signora un bicchiere d’acqua per favore”, mi dice con un accento molto forte, come parlano loro. Sig-nora, con la g dura. Per fafore. Bella? Non so dire, io, se era bella. Certo era una che faceva colpo, gli occhi grandi, azzurri come l’acqua minerale nelle bottiglie di plastica. Era freschino per andare in giro così mezza nuda, alle sei e mezzo di mattina, a fine giugno di un giugno un po’ freddo. A Gelmo le bionde erano sempre piaciute, il tipo esile e pallido. Non se ne vedono molte, dalle nostre parti. Lei non lo aveva neanche notato. Ma lui si era bloccato con la scopa in mano: come folgorato la fissava mentre beveva a sorsate lunghe, e si spostava la frangia dalla fronte. Secondo me non aveva dormito, dopo la partita era andata in giro coi suoi amici e chissà come era arrivata al nostro bar, tanto lontano dal centro. A Gorla, che è quasi verso Sesto S. Giovanni. Fosse drogata? Forse aveva solo sonno, gli occhi annebbiati; le unghie delle dita orlate di nero, questo me lo ricordo bene. Stava cercando nel borsellino, e io le dicevo: “Lasci perdere, lasci”, che volevo regalarglielo, il bicchiere d’acqua. Avrà avuto diciotto anni.

Anche queste madri tedesche, lasciar andare così lontano ragazze tanto giovani; io non so. Mentre cercava i soldi è cominciata quella canzone, strano, una canzone di tanto tempo fa. Il tango della gelosia”, però lo cantava Celentano, con un arrangiamento moderno e la fisarmonica, e un po’ di atmosfera nostalgica. Si sa come sono i tedeschi, no? Che amano molto la musica. La ragazza butta il borsellino sul banco e fa qualche passo indietro. E poi, leggera sui suoi piedi nudi, si mette a girare tra i tavolini del bar, allarga le braccia, si dondola. Non ballava il tango, no, anche perché il ritmo non era proprio quello.
Maledetta, quella canzone. “Amore vuol dir gelosia… Per chi è innamorato di te…”. Non la voglio più sentire.

E la biondina girava, la gonna le si gonfiava sulle gambe. A me veniva da ridere; guardo Gelmo per fargli segno che quella era ubriaca. Ma lo vedo con una faccia che mi spaventa, gli occhi fissi, il viso teso e arrossato, le mani aggrappate alla scopa. Io e suo padre ci siamo chiesti tante volte chissà se aveva mai avuto una donna, secondo me a ventidue anni suonati non l’aveva mai fatto, era ancora innocente come un bambino. E comunque in quel momento io ho avuto paura di mio figlio, mentre lei gli ballava davanti agli occhi, rovesciava la testa, gli mostrava la pelle tenera e bianca sotto le ascelle.

L’altro è entrato urlando, al collo una sciarpa con i colori della Germania, in mano una bottiglia. L’ha fracassata per terra, vetri dappertutto, schiuma di birra sul pavimento. Chissà Gelmo cos’ha pensato di tutto quello sporco. Poi si è diretto verso la ragazza, urlava in tedesco, non capivo niente ma era una bestia. L’ha afferrata per i capelli, ripeteva sbavando la stessa parola, e lei strillava. La prende per un braccio, fa per tirarsela dietro, le storce una mano, quella grida. Io non so se il cuore mi si era fermato o mi batteva da uscirmi dal petto.

Vedo Gelmo andargli addosso, a lui, con la scopa tesa sulla sua testa. Vedo che quello si scansa e poi gli si butta contro di peso, la ragazza in un angolo, e Gelmo che vacilla, gli cade per terra la scopa. Quello lo picchia; un pugno, una sberla, non so, e mio figlio col dietro della testa che batte proprio sull’orlo del banco, davanti a me, e crolla a terra. Un tonfo, ho sentito, mio Dio, che mi sveglio ogni notte con questo tonfo nelle orecchie.

Loro due scappano, la canzone suona, Gelmo è per terra, non lo vedo. Solo un po’ di sangue sull’orlo del banco, non tanto. Mi sembra che non sia mai venuto via del tutto, è rimasta come una macchia. Provo ancora con l’acido a grattare, “tutto pulito”, mi ripeto, ma l’alone si allarga.

 

In Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018