(omaggio a Pier Paolo Pasolini, rileggendo  Le ceneri di GramsciIl pianto della scavatrice)

 

I

Non è di maggio questa impura aria
di quasi alba, di quasi estate
che non somiglia a una stagione calda:

ma sembra il primo autunno, fresco,
un po’ bagnato di foschia leggera…
Con un quarto di luna strana, bianca

che già la sera prima si affacciava
stanca tra le nubi grige, sfilacciate,
e ora ha voglia di sparire in cielo.

E la stazione è muta, solitaria, scura:
poche le luci al neon ancora accese.
Ma a che serve la luce?

Tanto uno solo abita la fine notte
sulla panchina del binario sei.
Truce, aggrondato sopra la pietra dura

dorme col membro gonfio tra gli stracci,
e gli altri poveracci come lui non sono qui,
spariti chissà dove, inghiottiti

in altri posti squallidi: la spiaggia,
il lungomare, depositi di autobus
o cantieri, rimesse abbandonate.

Eppure è maggio, è quasi estate
e c’è silenzio, fradicio e infecondo;
se intorno spiove fa più paura

il mondo zitto di chi non serve a niente,
gente che non domanda e non risponde,
alza le spalle, sputa, non saluta.

Il mare si intravede di lontano,
si sentono le onde che sbattono
sul molo, e piano uno sciacquio.

Lui è solo, la schiena sopra il marmo
gli fa male, si rigira, si tocca,
con la bocca semiaperta: è giovane,

rumeno, lo chiamano Tarcisius.

II

Si è appena addormentato, ha aspettato
che passassero le guardie, i metronotte
custodi del silenzio e del sonno cittadino.

Vicino alla panchina c’è il suo sacco
teso di roba sporca, dentro: calze,
mutande e fogli di giornale.

Stracco così si sente già da tempo,
eppure non lavora, un posto fisso
insomma; non ha niente. Cammina

ogni mattina tra la gente, gira
nelle piazze e nei mercati,
presta le braccia a trasportare casse,

lava le auto, fa il manovale
se è fortunato, e lo pagano
a ore. La sera è morto di sudore

e fatica, sente addosso l’odore
aspro della pelle, la puzza
dei piedi martoriati.

Come i poveri povero, a volte
ruba. Una mela, biscotti
nei negozi alimentari, robetta.

Si lava al mare con una saponetta,
lava i vestiti e li asciuga
sulla sabbia. Sotto la camicia

nasconde il passaporto, sacro
come fosse un sacramento.
Giù al porto si è fatto degli amici

rumeni come lui, ma più felici
perché hanno un lavoro. Tarcisius
non dispera; ogni mattina spera

nel miracolo. Di trovare un portafoglio
per strada, gioielli d’oro perduti
tra i rifiuti. Fruga

nei mucchi secchi d’immondizia

del quartiere in penombra,
non teme la sporcizia delle dita.

Ma da dove gli viene
quest’amore per la vita, questa
disperata passione di essere nel mondo?

In fondo al cuore crede
che domani sarà meglio,
che qualcosa accadrà, di grandioso.

Il riposo arriva la sera. Respira la spenta
trepidazione della notte,
e si addormenta come un bambino:

come dopo aver detto una preghiera.

III

La stazione si trova tra grami caseggiati,
fumosa, quasi in periferia.
Pochi lampioni le fanno compagnia

di notte, con scarsa luce gialla,
spioni tra le ombre dei carrelli,
tra i tabelloni di partenze e arrivi.

Vicino c’è un locale: lì si spaccia
(pasticche, coca, robaccia da poco).
La polizia sta al gioco, ogni tanto

ferma qualcuno e lo denuncia.
Disamore, mistero, e miseria
dei sensi: il vuoto, e senti

il mancare di ogni religione vera.
La musica martella nel silenzio,
rimbomba uguale, monotona, distante.

Il rombo delle auto e delle moto
si perde tra le grida di ragazze
stridule e pazze di frenesia e di sesso,

avvinghiate a corpi esaltati, esibiti
nel loro turgore vitale.
Sono le quattro del mattino, e in quattro

sbucano dal sottopasso di corsa
sul binario. Cercano da fumare
e si spintonano, parlano, fischiano,

forti come ventenni forti, belli,
quasi eleganti nelle scarpe a punta,
nelle camicie fresche. I jeans di marca.

Hanno vinto se stessi e gli altri
in questa notte di tarda primavera:
giovani divinità cui non si nega

una vittoria facile, una preda.

IV

Allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze ignote
a loro stessi, non amano indagare

nei pensieri. A loro basta
avere da bere, da fumare: e divertirsi,
ridere, godere come ossessi.

Ecco si fermano ad osservare
il fagotto a forma di uomo
sdraiato sul marmo della panca,

addormentato. Gli passano vicino:
uno di loro sputa sul suo sacco
di tela, glielo sfila di sotto

la mano penzoloni, lo solleva
a braccia alzate e ride soddisfatto
del trofeo. E lui bambino dorme

e non si accorge che gli svuotano
per terra il suo tesoro.
Povero come un gatto del Colosseo,

possiede un po’ di biancheria spartana,
tre sigarette, un accendino in similoro,
e cara più di tutto una fotografia.

Se la mostrano a vicenda, sghignazzando,
facce rotonde e serie da rumeni:
una famiglia come tante, ma via, lontana,

che odora di bisogno e nostalgia.
Da quella realtà umile e sporca,
confusa e immensa si devono salvare,

i quattro leoncelli di periferia.
E allora il fuoco come un rito antico
può purificare. Brucia la foto,

il sacco: gli indumenti.
Si sparge fumo e una puzza acre.
Loro contenti mostrano i denti al buio,

e non è che l’inizio, si guardano
eccitati e vogliosi di qualcosa
di forte, un esercizio di sana goliardia.

Maschi e virili, in due
pisciano addosso a lui addormentato,
uno gli spruzza il viso e i capelli,

e svegliati vigliacco invertebrato!

V

In un attimo è in piedi, spaventato:
non capisce cosa diavolo succede.
Sente il viso bagnato di orina,

vede quattro ragazzi intorno a lui
con un ghigno feroce, e una voce
che lo chiama bastardo, fatti sotto

se puoi, ma non sa l’italiano molto bene,
teme un gesto sbagliato, finché un pugno
codardo lo raggiunge sul mento,

poi uno schiaffo in piena faccia.
Altri colpi, da tutti, qua e là, sulle braccia,
sul dorso e le spalle, calci alle gambe,

sangue dal naso che forse si è rotto.
Allora si difende, colpisce a caso,
rabbioso come un cane rabbioso,

e ogni tanto si preme con la mano
sul petto, a tastare il passaporto
che non cada, meglio morto

che senza documenti…Loro attenti
a colpire dove fa più male,
sono in quattro e lo pestano duro,

uno lo prende e lo sbatte contro il muro,
e gli picchia la testa, brutta bestia
gli grida, ti ammazzo! E poi

cazzo! Non vi vogliamo qui,
ladri ruffiani, ti diamo una lezione
così impari, coglione, sparisci,

torna in Romania, e via! Via!

VI

Tarcisius scivola sul marciapiede, è lì,
sdraiato: non ha più fiato, o voce,
insanguinato, non vede niente,

non vede loro che se la danno a gambe,
ridendo, che lezione!, lasciano la stazione
di corsa, raggiungono le moto

parcheggiate lì sotto, salgono in sella,
ma prima di partire uno sventola qualcosa:
gli ho preso questo! Almeno che si sappia

come si chiama, che nome da befana,
che foto da bravo ragazzino; ha sedici anni,
ridono, un bambino lontano dalla mamma…

Motori al massimo, e partono rombando.
Da un gran silenzio le strade sono invase,
le case indifferenti, la gente dorme.

Loro veloci, con l’aria fresca in faccia,
per una strada che avanza
tra i primi prati primaverili,

e sopra un cielo bruciante, senza un brivido:
corrono fieri e vincenti, piccoli dei
degli inferi, i nuovi combattenti

di chissà quale onore. Ma sul sesto binario
è rimasto qualcosa che assomiglia
a un cadavere con la faccia in poltiglia:

ha una mano sul petto, sbucciata,
che tra cuore e camicia nascondeva una cosa
importante, preziosa.

Più in là, in un campo spellato di periferia,
l’hanno gettato via, tra i sacchi di rifiuti,
il passaporto aperto con la foto e il suo nome:

Tarcisius, in questo sole che crudele
inizia a splendere, già addolcito
da un po’ d’aria di mare.

 

In Bloc Notes n.59, giugno 2010 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.