DINO VILLATICO, ECOGRAFIA DI UN CONGEDO – LADOLFI, NOVARA 2021

Ci si sottopone a un’ecografia per scoprire qualcosa di non rilevabile in superficie, che magari duole, ma di cui si teme l’evidenza, la manifestazione. Lo svelamento di una sofferenza taciuta, forse inconsciamente negata, ha la stessa dolorosa e cruda intensità di una diagnosi medica avversa.

Dino Villatico, con Ecografia di un congedo, si fa esploratore e analista di se stesso, raccontando di un amore giovanile, recuperato nella memoria con tutta la malinconia, i rimpianti, i sensi di colpa, ma anche l’intensa felicità vissuta e in seguito angosciosamente persa. In sedici “referti” (ancora un termine scientifico, a indicare una precisa volontà razionalizzante), un epilogo e un post-scriptum, l’autore rivive il suo rapporto con Martin, insegnante americano ventottenne conosciuto a Roma all’epoca degli studi universitari, con cui aveva stabilito una profonda amicizia e un’intesa sentimentale durata alcuni anni, cementata da arricchenti scambi culturali, distese conversazioni tra amici, sfide al pianoforte, e una casta, tormentata sensualità.

L’aver improvvisamente scoperto, attraverso una casuale ricerca su internet (“l’impotente / oracolo che ci avvelena il giorno”), la morte dell’amico avvenuta a New York nel 1997, lo induce a ripercorrere momenti di vita in comune, recuperando emozioni mai del tutto sopite. Così ammette di scriverne, non tanto per cercare consolazione, “ma per ritrovare, né so quando, / né so perché né come, conoscenza / di me stesso, quel punto in cui vacilla / la resistenza a confrontarmi nudo / con la mia nudità”, ritrovando “L’incompiuto, l’indeciso, / l’inaspettato che rimosso prende / forma”.

Una lunga confessione in endecasillabi, che hanno la cadenza pacata e colloquiale di una narrazione in prosa, quella che Dino Villatico intesse nel monologo rivolto all’assente amato (“l’assente che confonde le mie notti, / che mi devasta il giorno”), al lettore, e infine alla propria sfibrata coscienza, con lo sprone a una riflessione più vasta su cosa significhi esistere individualmente e nel rapporto con gli altri. Scampoli di episodi si rincorrono e si intrecciano nella rievocazione del legame con Martin: dalla frequentazione quotidiana a Roma (il primo incontro al Pincio, “non ancora al buio e intorno /  tra le statue altra gente che si cerca”) alla presentazione delle reciproche madri (l’una affettuosamente comprensiva, l’altra severamente censoria), dal soggiorno in America (prima in California, poi a Boston) ai libri letti e alle musiche ascoltate insieme, fino all’inevitabile addio, deciso per far sopravvivere l’amicizia rinunciando a una più coinvolgente relazione sessuale. I vent’anni di silenzio seguiti alla separazione si rivelano lacerati dal rimorso, quando l’io narrante scopre che l’amico ha posto fine volontariamente alla sua vita: ne è testimonianza il Referto 11, in cui la percussiva anafora “se avessi” esplora tutte le possibili azioni mancate (per pudore, paura, rancore) che avrebbero potuto evitargli il suicidio.

La tragica vicenda personale si iscrive allora nel quadro universale in cui i singoli destini sono determinati dal caso (la Thyche dei greci) o dalla necessità che rende gli uomini comparse inessenziali nell’indifferente ciclo cosmico, privo di qualsiasi finalità o scopo: “noi, fatui   /         pupazzi del destino, noi che stolti / ci crediamo padroni di noi stessi,   / e padroni del mondo, mentecatti!”, “tra i minerali, / tra le pietre, tra gli astri, tutto il cosmo,  / è un solo inascoltato urlo di morte”. Lo “strano animale” chiamato “sapiens sapiens” è in realtà un’ombra, “un verme, / un insetto, un batterio”: alle sue domande sul senso del vivere, del morire, del soffrire, né scienza né filosofia sanno fornire risposte. Il poeta cerca conforto nelle parole dei grandi: Omero, Saffo, Orazio, Dante, Petrarca, Shakespeare, Calderón de la Barca, Leopardi sono suoi interlocutori privilegiati, ma ormai neppure loro riescono a redimere l’insignificanza dei giorni, il tormento di notti insonni.

La “disaffezione del presente” persuade a un ritorno, non solo tematico, ma anche stilistico, al passato. Ne sono un esempio l’uso di termini inusuali e classicheggianti (indarno, sempiterni, speco…), e la frequenza di costrutti sintattici ereditati dalla lingua latina, come l’aggettivazione che precede il sostantivo (crudele Parca, invidioso dio, orbata madre, lacrimato amico, fertile valle, immoto sasso, verecondo raggio…), o la domanda di matrice leopardiana rivolta alla natura (Ode al monte Soratte) affinché indichi agli esseri umani,  con la sua offerta di gratuita bellezza, una giustificazione al vano “dolore di sopravvivenza”. Forse solo l’amore potrebbe dare significato alle ore cupe e intimorite nel silenzio: ma se anch’esso si dissolve nel niente, nel vuoto, nella morte, allora meglio sarebbe essere altrove, essere altro: “Dicono che le piante, quando sono   /       potate, non dovrebbero soffrire. / Ecco, ora vorrei essere una pianta”.

© Riproduzione riservata            «L’Indice dei Libri del Mese» n.11, novembre 2021