VLADIMIR ZAZUBRIN, LA SCHEGGIA – ADELPHI, MILANO 1990

Di Vladimir Zazubrin – autore del primo romanzo ufficiale del realismo sovietico, Dva Mira (Due mondi), lodato da Lenin e da Gorkij come «libro terribile e utile», l’editore Adelphi ha pubblicato nel 1990 un racconto lungo, La scheggia, apparso nella Russia di Gorbaciov solo nell’89, dopo sessantatré anni di censura e rimozione.
Zazubrin, in cui vero nome era Vladimir Zubcov, fu un rivoluzionario “doc”, di estrazione contadina, bolscevico dall’adolescenza: dapprima allievo ufficiale, quindi partigiano nell’Armata Rossa, poi scrittore e giornalista fedele ai canoni del realismo sovietico, infine funzionario del partito di Lenin fino al 1993, anno in cui scrisse la novella La scheggia, cadendo così in disgrazia presso l’apparato del partito. Accusato di «non aver compreso le strade e i metodi dell’edificazione socialista», non riuscì mai a pubblicare il suo racconto, che adesso leggiamo tanto più increduli e angosciati in quanto sappiamo provenire da fonte di indubbia fede e fedeltà comunista.
Dice un cinico proverbio russo che «le schegge saltano quando si abbatte il bosco», e appunto di queste schegge, delle migliaia (milioni, diremmo oggi) di vittime innocenti della rivoluzione sovietica ha scritto Zazubrin, cosciente e disperato del tradimento cui “Lei” (la Rivoluzione, appunto, come viene definita nel racconto) ha costretto i suoi adepti.
Andrej Srubov, protagonista della storia, porta nel suo nome una condanna: srubit’ significa in russo “tagliare, abbattere”, e Srubov è destinato infatti (come presidente della Ceka, la commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio) a rivestire il ruolo di boia, di carnefice, che decide della vita e della morte di centinaia di persone. Il racconto si apre con una rivoltante carneficina, provocata da una serie di fucilazioni di nemici politici, uomini e donne, ufficiali e religiosi, nobili e delinquenti comuni: corpi che rotolano nei loro escrementi, viscere che si aprono diffondendo odori insopportabili, nudità umilianti e pietose insieme, in un crescendo vorticoso di urli, rantolii, preghiere. Srubov implacabile regola il tirassegno delle esecuzioni: «Un doloroso colpo nelle orecchie. Bianche carcasse di umida carne si afflosciarono sul pavimento. I cekisti corsero rapidamente indietro con i revolver fumanti in mano, e subito fecero schioccare di nuovo i grilletti. Le gambe dei giustiziati ebbero una contrazione. L’uomo grasso tirò l’ultimo respiro con un sibilo stridente. Srubov pensò: – Esiste l’anima, o no? E’ forse l’anima che esce sibilando? -».

I cinque soldati ai suoi ordini agiscono come automi, freddi e determinati nel fanatismo che li motiva: denudano i prigionieri, li mettono in fila, prendono la mira, sparano, si ripuliscono dagli schizzi di sangue e dai brandelli di carne che li raggiungono. Poi, in un parossismo di follia, tentano di ripulirsi anche anima e mente correndo all’aperto a tirarsi le palle di neve, tra un’esecuzione e l’altra, in una patetica immersione nell’innocenza e nella leggerezza infantile del bianco inverno russo. Srubov no. «Srubov sta saldo, la testa alta, nel rombo del terremoto, e fissa avidamente il lontano. Nella mente un unico pensiero – Lei.»

Ma sarà proprio questa cieca ostinazione, questa pronuba ossessione rivoluzionaria a fare anche di lui una vittima predestinata. Abbandonato dalla moglie, segnato a dito dalla popolazione, disprezzato dal padre che finirà vittima del terrore leninista, Srubov vacilla: comincia a bere, usa metodi sempre meno ortodossi negli interrogatori, non riesce più a nascondere il suo disprezzo per i delatori che gli offrono i loro immondi servizi.
Guardandosi allo specchio non si riconosce, allucinato dall’immagine di un se stesso di cui è prigioniero: solo, nel suo ufficio, farnetica di moralità e politica con un indifferente ritratto di Marx, tremando ogni volta che i suoi soldati caricano su camion rombanti i cadaveri dei giustiziati. Lui, il carnefice impietoso, l’assassino in divisa, pretende dalla madre che lo aspetti con la luce accesa, perché ha paura del buio. La tentazione che avverte, firmando l’ennesimo ordine di fucilazione, di scrivere la sua firma qualche centimetro più in alto per finire anche lui tra i condannati, è un chiaro indizio della sua vocazione all’annullamento, all’ autocondanna.
La macchina inarrestabile della rivoluzione, cui tutto è permesso, tutto è dovuto, maciullerà anche Srubov, riducendolo a una delle tante schegge già saltate nel taglio del bosco. «Ma a Lei forse interessa tutto questo? A Lei serve solo costringere gli uni a uccidere, gli altri a morire. Solo questo. E i cekisti, e Srubov, e i condannati, erano tutti allo stesso modo insignificanti pedine, piccole viti nella furiosa corsa del meccanismo della fabbrica… Qui la padrona è Lei, crudele e bellissima».

Si può forse rimproverare al racconto un certo gusto truculento per le immagini forti, una certa roboante retorica nelle metafo tuttavia il merito innegabile di averci dato (autore e traduttrice) un documento terribile, una denuncia pari come gravità e violenza agli scritti usciti dai lager nazisti, su una fase storica di cui sappiamo ancora troppo poco.

 

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17 dicembre 2015