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MAESTRI

STRAND

MARE NERO

 

Una notte chiara, mentre gli altri dormivano, ho salito
le scale fino al tetto della casa e sotto un cielo
fitto di stelle ho scrutato il mare, la sua distesa,
il moto delle sue creste spazzate dal vento, divenire
come pezzi di trina gettati in aria. Sono rimasto nella lunga
notte piena di sussurri, aspettando qualcosa, un segno, l’avvicinarsi
di una luce lontana, e ho immaginato che tu venivi vicino,
le onde scure dei tuoi capelli mescolarsi col mare,
e l’oscurità è divenuta desiderio, e desiderio la luce che approssimava.
La vicinanza, il calore momentaneo di te mentre rimanevo
su quell’altezza solitaria guardando il lento gonfiarsi del mare
rompersi sulla riva e in breve mutare in vetro e scomparire…
Perché ho creduto che saresti venuta uscita dal nulla? Perché con tutto
quello che il mondo offre saresti venuta solo perché io ero qui?

 

Mark Strand, 1934-2014

MAESTRI

SZYMBORSKA

PROSPETTIVA

Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,
lui alla sua auto.

Forse smarriti
o distratti
o immemori
di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.

D’altronde nessuna garanzia
che fossero loro.
Sì, forse, da lontano,
ma da vicino nient’affatto.

Li ho visti dalla finestra
e chi guarda dall’alto
sbaglia più facilmente.

Lei è sparita dietro la porta a vetri,
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta.
Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.

E io, solo per un istante
certa di quel che ho visto,
cerco di persuadere Voi, Lettori,
con qualche verso occasionale,
quanto triste è stato.

***

VOCI

Non puoi fare un passo e subito gli Aborigeni
sbucano fuori come dal nulla, o Marco Emilio.

Ti si impantana il tallone nel bel mezzo dei Rutuli.
Sprofondi fino alle ginocchia nei Sabini, nei Latini.
Hai già fino alla cintola, al collo, fin sopra i capelli
gli Equi e i Volsci, o Lucio Fabio.

Di questi piccoli popoli c’è da non poterne più
fino alla sazietà e alla nausea, o Quinto Decio.

Una città, un’altra, la centosettantesima.
L’ostinazione dei Fidenati. La cattiva volontà dei Falisci.
La cecità degli Ecetrani. La volubilità degli Antemnati.
L’offensivo malanimo dei Labicani, dei Peligni.
Ecco cosa costringe noi, uomini miti, ad essere severi
al di là di ogni nuovo colle, o Gaio Clelio.

Se non intralciassero, ma intralciano,
gli Aurunci, i Marsi, o Spurio Manlio.

I Tarquiniesi di qua e di là, gli Etruschi ovunque.
Inoltre i Volsiniesi. In aggiunta i Veienti.
Oltre ogni ragione gli Aulerci. Item i Salpinati,
oltre l’umana sopportazione, o Sesto Oppio.

I piccoli popoli capiscono poco.
Il cerchio dell’ottusità si allarga intorno a noi.
Costumi riprovevoli. Leggi retrograde.
Dèi inefficaci, o Tito Vilio.

Cumuli di Ernici. Sciami di Marrucini.
Numerosi come formiche i Vestini, i Sanniti.
Più in là vai, più ce n’è, o Servio Follio.

I piccoli popoli sono deplorevoli.
La loro sventatezza richiede vigilanza
al di là di ogni nuovo fiume, o Ostio Melio.

E io, Ostio Melio, ti rispondo così, o Appio Papio:
Avanti! Da qualche parte il mondo
deve pur finire.

 

Wislawa Szymborska (1923-2012)

MAESTRI

TAGORE

CENTO ANNI

Chi sei tu, lettore, che leggerai le mie poesie
tra cento anni?
Non posso mandarti un solo fiore di questa ricca primavera,
né darti un solo raggio d’oro delle nuvole
che mi sovrastano.
Apri le tue porte, guardati intorno.
Nel tuo giardino in fiore cogli i fragranti ricordi
dei fiori sbocciati cento anni fa.
Nella gioia del tuo cuore che tu possa sentire
la vivente gioia che cantò, in un mattino di primavera,
mandando la sua voce lieta, attraverso cento anni.

 

Rabindranath Tagore (1861-1941)

MAESTRI

TESTORI

RAGAZZO DI TAINO – II

 

Se ti vedrò sporgere
di là dal tuo silenzio
ora che mia madre lentamente muore,
non chiamerò più amore:
sudario forse della mia già iniziata
ultima stazione
anche se lunga o brevissima forse,
tenerezza scontrosa mia carissima
– ora che lei distesa guarda
per l’ultime volte i muri
e oltre la finestra il mondo
e chiedere sembra
cosa siano i giorni
e cosa mai lo spazio
tanto è passato in luce
il suo materno, umile strazio –
ti dirò di sederti a me vicino
e non chiedere, no
non chiedere niente, cuore.
La tua pupilla lascerà che si sciolga
dentro il suo negro ardore
il mio smarrito, povero dolore.

 

Giovanni Testori (1923-1993)

MAESTRI

THOMAS

QUESTO PANE CHE SPEZZO

Questo pane che spezzo fu un tempo l’avena,
Questo vino su un albero straniero
Era immerso nel suo frutto;
L’uomo di giorno o il vento a notte
Umiliò le messi, spezzò la gioia dell’uva.

Quando in questo vino il sangue dell’estate
Batteva nella polpa che ornava la vite,
Quando in questo pane
L’avena era allegra nel vento;
L’uomo spezzò il sole, demolì il vento.

Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
Devastare la vena,
Erano uva e avena
Frutto sensuale di linfa e radice;
Il mio vino tu bevi, il mio pane tu addenti.

 

Dylan Thomas (1914-1953)

MAESTRI

TUROLDO

PRESENZE INUTILI

Ancora sulle strade con la sacca
delle condanne raccolte nel giorno.
Nell’ora dei gatti in attesa
agli angoli bui, e del grido
della civetta fra i crepacci
della torre; solo, oltre le ore
a riempire col romore dei passi
il deserto di pietre. Solo,
con la gioia d’avere sepolto
un altro dei tanti giorni avanzati.
Gli altri ormai hanno ceduto
alla trincea della notte.
Per me invece la sola testimonianza
delle lampade inutilmente accese
e il silenzio dei portoni chiusi.

David Maria Turoldo (1916-1992)

MAESTRI

UNGARETTI

È ORA FAMELICA

 

È ora famelica, l’ora tua, matto.

Strappati il cuore.

Sa il suo sangue di sale
E sa d’agro, è dolciastro essendo sangue.

Lo fanno, tanti pianti,
Sempre più saporito, il tuo cuore.

Frutto di tanti pianti, quel tuo cuore,
Strappatelo, mangiatelo, saziati.

 

Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

MAESTRI

VILARINO

POVERO MONDO

Lo distruggeranno
lo faranno a pezzi
alla fine scoppierà come una bolla
o esploderà glorioso
come una santabarbara
o più semplicemente
sarà cancellato come
se una spugna bagnata
cancellasse il suo posto nello spazio.
Forse non ci riusciranno
forse lo ripuliranno
gli cascherà la vita come fossero capelli
e rimarrà a girare
come una sfera pura
sterile e mortale
o in modo meno splendido
andrà per i cieli
decomponendosi adagio
come un’unica piaga
come un morto.

 

                                                                         Idea Vilariño (1920-2009)

MAESTRI

WALCOTT

NOSTALGIA DEL MARE

Qualcosa di rimosso rimbomba nelle orecchie
a questa casa,
fa pendere le tende senza vento, tramortisce
gli specchi
finchè i riflessi perdono sostanza.

Un certo suono pari al digrignare di mulini a vento
si è fermato di colpo;
un’assenza assordante, una mazzata.

Accerchia questa valle, pesa su questo monte,
estrania il gesto, spinge questo lapis
attraverso un fitto nulla, ora,

carica di silenzio le dispense, piega il bucato acido
come i panni dei morti, lasciati esattamente
dai congiunti come usavano i morti,

increduli, aspettando occupazione.

 

Derek Walcott (1930-2017)

MAESTRI

WEIL

LA PORTA

Apritela porta, dunque, e vedremo i verzieri,
Berremo la loro acqua fredda che la luna ha traversato.
Il lungo cammino arde ostile agli stranieri.
Erriamo senza sapere e non troviamo luogo.

Vogliamo vedere i fiori. Qui la sete ci sovrasta.
Sofferenti, in attesa, eccoci davanti alla porta.
Se occorre l’abbatteremo coi nostri colpi.
Incalziamo e spingiamo, ma la barriera è troppo forte.

Bisogna attendere, sfiniti, guardare invano.
Guardiamo la porta; è chiusa, intransitabile.
Vi fissiamo lo sguardo; nel tormento piangiamo;
Noi la vediamo sempre, gravati dal peso del tempo.

La porta è davanti a noi; a che serve desiderare?
Meglio sarebbe andare senza più speranza.
Non entreremmo mai. Siamo stanchi di vederla.
La porta aprendosi liberò tanto silenzio.

Che nessun fiore apparve, né i verzieri;
Solo lo spazio immenso nel vuoto e nella luce
Apparve d’improvviso da parte a parte, colmò il cuore,
Lavò gli occhi quasi ciechi sotto la polvere.

Simone Weil (1909-1943)