CLASSICHE
CLASSICHE (1976-1980)
Penelope
Non per lui,
lontano e indifferente
a quanto altro non fosse la sua casa
(i muri, intendo, suppellettili
come il letto – a lui obbedienti)
che sapevo
impaziente di un caldo viziato;
il mio corpo è ormai vecchio, gli occhi
ormai duri.
Ma io,
io per la tela stessa lavoravo.
Lei sola, in tutta Itaca,
aspettava la mia mano.
***
Antigone
Vedi che ho – per pietà – le mani sporche
‒ di pietà – insabbiate, le unghie nere, Creonte sire
severo, duro vate, suocero altero. Vedo
le tue bianche pasciute che sanno
proibire, sanno ammazzare (regali mani):
ma io non tremo. E voi vedete
(voi che tradite) (voi che sapete più di tutto tradire)
che io non tremo e che non temo.
Vili di tanto incapaci, di poco. Di un gesto
timorosi – di un cenno.
Giustizia
invocata da troppi, da lontano implorata da troppi;
e nessuno si muove. Ah, giustizia.
Io qui sola.
Sanno tutti cos’era da fare,
fanno finta di niente.
**
Ifigenia
Quello è mio padre. Quello alto
laggiù che parla al vento.
È lui il mio re: il più forte
del campo, il più giusto. Mi vanto
del suo nome, del suo cenno
imperioso mi compiaccio se
di fronte a invitati mi chiama
‒ che ci vedano
uguali
nel sorriso severo nell’agile caviglia.
Sono la figlia bella
colei in cui egli si specchia.
Proprio oggi in mio onore (giù
al porto) è la festa a cui prima
di tutte mi ha ordinato
di giungere: a me darà
il braccio nell’aprire le danze.
Per me farà accendere fuochi
farà alzare le vele alle navi.
**
Alcesti
Hanno detto dedizione.
Vivere
di uno che non può
più vivere: perciò morire. Con lui
o per lui è lo stesso, se si deve.
Ma non è stato questo.
Sapevo il patto: non era la mia aria,
non lo respiravo. Godevo una quiete maritale
con fastidi, non bramavo l’assoluto.
È che l’ho visto spaventato tanto
da sorriderne. Sempre un poco tremava
alle mie doglie, scappava al dolore
altrui: ma in quei giorni era terreo, bambino
piangeva aggrappato ai lenzuoli.
Mi misi a letto come a fare un altro
figlio;
lo feci nascere, cieco e avido.
**
Medea
Di loro mi pesa lo sguardo.
Lo taglio (lo sguardo) lo tolgo dal cuore,
pensiero di niente che ho voglia
di amare, di niente, di acqua.
Ho voglia di brucio, di fare pulito lo sporco.
Di loro mi pesano i gesti e il modo
che hanno di non parlare
di capire
di tradire.
Bambini
che poco somigliano ai giochi.
che poco somigliano a loro stessi.
(Se fossero miei.
Se fossero miei).
Decido che grande è l’amore
che uccide se stesso e grande è la carne
che uccide la sua carne. Non ho
pentimenti e troppo poco soffro.
Di me sono stati piccola parte
e per poco, cattivi: mi hanno presto lasciata.
Ma miei più di sempre
se sempre bambini saranno.
Se solo con l’aria li dovrò dividere.
Non voglio vedere l’amore
e intorno non lo sopporto.
Viva chi vuole. Chi sa.
La mia mano i miei piedi
sanno solo una strada
né la testa conosce dove tornare indietro.
Miei: più di tutto vi penso
e nessuno capisce.
Ma più miei dei miei stessi capelli
dei miei occhi. E più miei
del dolore.
**
Le vergini di Mileto
Furia di morte le prese a Mileto, furia
d’amore: di amare pure,
di non versare sangue (di non aprire
ai colpi il loro ventre).
Oh, loro che da sole
sapevano toccarsi, sole si amavano,
davano baci al vento – a quindici anni –
oh loro sole amavano se stesse
e le sorelle, amavano le mani delicate
e i turbamenti dolci: per questo che era amore
e non pazzia, piccole streghe della verginità,
per questo si impedirono il respiro
a quindici anni (una ogni notte
alto un laccio di morte appendeva) finché
turpi arrivarono i padri
i fratelli maggiori i creditori amanti
a pretendere ancora il pedaggio di sangue,
a trascinarle nude per le strade
di Mileto, e esigere rispetto
per le abitudini quotidiane.
In Rosa rosse rosa, Bertani, Verona 1986
CONSACRAZIONE DELL’ISTANTE
CONSACRAZIONE DELL’ISTANTE
For most of us, there is only the unattended
Moment, the moment in and out of time
Eliot, The Dry Salvages V, 206-207
È qui, presente; o forse sta per nascere.
Segreta ancora, ancora immaginata
solamente. Non certa, non decisa;
potrebbe ripensarci, fuggire,
rinunciare, preferire l’assenza.
O non esistenza, scegli ‒ ti prego ‒
di esserci. Appari come sei:
chiara, evidente.
*
Prova a pesare un pugno di sabbia,
e poi mezzo pugno, così leggero.
Tieni tra le dita solo qualche granello,
e il resto lascialo scorrere, mia mano clessidra.
Non lo fermi, il tempo, e quello che è successo
non puoi fare che non sia accaduto;
ma misura l’istante, la sua sfida
all’eterno. Il solo granello rimasto
fermo tra pelle e unghia:
l’adesso che dura e non si è perduto.
*
Impaziente di essere, diventa vero
e arde e si consuma; improvviso
bagliore, inaspettato pensiero
folgorante (o voce, o battito
di ciglia, o corpo esploso;
corpo in frantumi, incendio).
Abisso dell’ignoto, stella cometa,
lancinante traccia nel buio, nome
appena suggerito:
rivelazione, ascesa, intuito.
Baratro e infinito.
*
L’occupazione dei santi: tendere
(attendere) al punto in cui il tempo
incontra il non tempo, e si perde,
si annulla, conduce all’istante
bloccato nel nero del nulla.
L’aspirazione dei santi: scoprire
nel buio feroce, crudele, severo,
la sua negazione. La luce.
*
Ma quando tutto è immobile,
e non succede niente: l’aria è ferma,
il caldo sopportabile, e un tale silenzio
mi impressiona come fossi morta
senza essermene accorta. Quando nemmeno
il moscerino sull’orlo del piatto si muove,
né l’albero in giardino scuote
le sue foglie. E il cielo è azzurro tutto,
sgombro, terso; il lago liscio,
non c’è bava di vento che lo sfiori.
Allora penso, come una tentazione,
di essere un incidente nel creato,
inessenziale e assurdo; e supplico
un evento qualsiasi, una dimostrazione
della mia esistenza reale.
Ed ecco, accade. Qualcosa accade,
fuori di me e dentro. Un urlo,
un tremito, il merlo che gracchia
tra i rami, e vola via.
*
Affronta l’eterno, vi affonda,
scompare: così inessenziale
e minuto, così puntiforme
e casuale.
Ma in lui, nell’istante,
c’è uno spazio
concreto.
Pensiero, sospiro, offesa, carezza.
Più vero, vivo e reale
di ogni assoluto.
*
Improvviso, l’istante di pace.
Di ordine e tranquillità,
nel sole che scompare al di là
di un muro indefinito di nebbia,
e sospesa la luce non ci offende.
Allora dico no alle parole,
e ripeto no all’istinto
rapace che vorrebbe assorbire
ogni fuori esistente.
Sta buono, mio udito. Mia vista,
abbassati. Lasciate che sia
solo suo, ciò che appare
e attende una resa clemente.
*
Il momento prevale. L’evento.
L’adesso, il qui.
Presente-riassunto del prima, del poi
(degli altri, di noi).
E non te ne andare,
minuto-secondo-istante
del tutto: sii punto.
*
I miliardi di persone che non siamo
– il vecchio cinese curvo sulla ciotola
di riso, la ragazza brasiliana
che cammina sulla spiaggia.
Un bambino londinese, la donnina
messicana al mercato.
Non ci siamo riusciti, a essere
altro, o altri: ma solo la piccola
cosa che viviamo. Qui, e qui;
magari altrove, a volte. Sempre
con le nostre mani, il nostro fiato;
i minimi trionfi del passato,
e un domani previsto e prevedibile.
Gonfi di abitudine,
delusi da tante viltà
che non perdoneremo.
Forse un istante,
uno solo, verrà – in ritardo,
a salvarci.
“Esisto”, diremo,
tagliando un traguardo insperato,
da non condividere.
*
Dall’assenza, da ciò che prima non c’era:
semplicemente, il niente.
Da lì veniamo,
dalla non esistenza. E in essa torniamo,
incoscienti, nemmeno spaventati.
Muti, stupiti del silenzio che ci aspetta,
del moto che rallenta e poi si ferma.
Noi che eravamo presenti
– ad occhi spalancati, a mani tese.
In un istante, assenti.
*
Ci apparirà, come dicono,
tutta la vita che abbiamo
vissuto, e sprecato,
nell’istante finale, oscuro;
nel necessario momento
dell’unico giudizio,
del solo tribunale.
Perché
da soli ci condanneremo
o ci perdoneremo,
quando il futuro intero
svanirà nel passato.
*
Avvicinarsi,
stringere il cerchio.
Puntare dritto al bersaglio,
sforzando la vista.
In prossimità della meta,
del dichiarato impenetrabile:
sia buio respingente
o intollerabile luce.
Verità intravista appena,
il niente che acquieta.
*
Furtivamente arriva,
quasi ladro,
approfittando di un’assenza, di difese.
Gli basta una fessura, e penetra
nel tempo, nel silenzio; tacito irrompe
luminoso, violento. Schiarisce
l’angolo più buio della stanza,
della mente: impone la sua folle
danza in un istante.
Imploso
dentro un colpo di vento,
poi sparisce.
*
Intercettare dio,
il dio della pazienza e del conforto,
il dio che aspetta, e sa, e non ha fretta;
fermo nella potenza,
a sé risorto; visibile
in una chiara, arresa
trasparenza. Così arpionarlo,
con dita scorticate
tremanti, innamorate:
pretesa indifferibile
dopo una vita avara.
*
Qualsiasi momento si ribella;
anche il più insignificante è sovversivo,
dichiara guerra al nulla
e al sempre, è vivo,
arrogante e fiero
della sua unicità:
pronto a sparire,
ma attento a sé,
presente.
L’istante, il vero.
In Nazione Indiana, 2 ottobre 2018
COSE
COSE
ELEGIE DEL RISVEGLIO
ELSEWHERE
ELSEWHERE
C’è un fondo al cielo,
in fondo al cielo: e prima luce,
e primo buio. Fine di tutto,
innanzi a tutto.
Velo che tieni il mondo,
ripara il fiore, il frutto.
***
Tu che non puoi non essere,
non puoi finire.
Costretto a vivere
il futuro nell’adesso:
condannato a te stesso.
***
Ma tu sei un dio nascosto.
Oppure solo stanco:
e vorresti confonderti,
bianco nel bianco;
arrenderti, non esserci.
Invece stai al tuo posto.
***
Ma chi può consolarlo
se soffre, a chi può chiedere
aiuto? Cosa pregare,
a chi confessare il tarlo
di un dubbio: lui, muto?
***
Fare la guardia al niente.
Per millenni di vuoto
opporsi al niente, senza essere cosa.
E poi la scelta, il lampo. La voglia
che esistesse una rosa.
***
Prima di Dio non c’era dio,
prima del nulla non esisteva niente.
E niente e dio e fine e avvio
furono tutto, insieme: corpo e mente.
***
Ci chiederà mai scusa
per il male che ha potuto farci
(l’eterno, l’infinito, onnipotente)
a noi, che usa come alibi,
se ci ha destinati
all’inferno del niente?
***
Non crede al suo essere Dio,
non chiede di esistere eterno.
Gli basta che un lieve brusio
lo invochi presente e paterno.
***
Se gli arriva al di là degli spazi
sepolti e persi, oltre i cieli
le galassie gli universi;
se riesce a giungere a lui, leggera,
sottile come un soffio,
la preghiera incredula e viva
di uno che ha paura ma chiede
che lui ascolti; fosse solo per questo,
per questa minima fede,
dovrebbe esistere e rispondere,
esserci,
anche se non si vede.
***
Altro da me e da tutto,
non visto non visibile: muto.
Solo e inconosciuto,
lontano – irraggiungibile.
E in ogni cosa, in ogni rosa;
abisso e vetta, pantano
e volo. Tu, sordo
a qualsiasi grido, tu – grido.
Puro e trasparente, insanguinato
e lordo. Mio Dio, mio io,
mio muro. O niente.
***
Le tue mille e mille cattedrali,
come le amo nei loro silenzi,
nel buio dei confessionali: altari
spogli e cupole pesanti,
le nicchie, i banchi in fila,
la pazza solitudine dei santi.
***
Se il giorno è stato senza luce,
la notte lo riscatterà:
le parole sbagliate taceranno,
le offese saranno perdonate.
Nel sonno innocente di ognuno
il male si riduce a niente.
In Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003; Nazione Indiana, 30 agosto 2020
EURIDICE
EURIDICE
I
Niente succede a caso, niente.
Che io ti abbia trovata, Euridice,
che tu sia apparsa a me – felice
di essere scoperta tra la gente –
un giorno non qualunque
di un non qualunque anno,
pronta a svelarmi inganno e disinganno;
per cui nel riconoscerti «Dunque
sei tu», nient’altro, e basta:
una stretta di mano, la mano
nella mia tiepida appena, casta,
e la voce che trema e non osa
dire quello che sa, ma piano
suggerisce altre cose, altra cosa.
II
E’ stata quindi una necessità
incontrarti, te tra millecento
che potevo, te pioggia sole vento
e subito me stesso, mia metà.
Più mia del mio sorriso e della pena,
più mia della parola, di ogni gesto.
Nome che chiamo, nome manifesto,
sangue che pulsa lento nella vena.
Perché sei tu e non altra, tu, Euridice,
compagna e sposa mia, sorella mia,
incisa nella pelle, cicatrice,
che mi riempi pensiero, bocca, sesso,
e non capisco ancora come sia
che perdo me nel ritrovarti, adesso.
III
Ascoltatemi, animali e voi piante,
tu cielo – monti torrenti scarpate –
voi cose sospese e interrate,
cose che mi girate intorno, tante.
Di certo non avrei mai creduto
di afferrare l’esistente con un dito:
se mi sento diventare infinito
e poi limite e fine, sordo e muto.
Euridice, continuo a nominare,
Euridice che canto e che invento,
Euridice, mio eterno pensare.
Siamo in due, siamo due e uno solo:
esserti fuori o dentro è tormento
in cui affondo. E poi volo.
IV
Può finire un amore, può cessare
di scorrere il sangue, così improvvisamente,
bloccarsi un corpo, tacere una mente,
e dicono non ci sia nulla da fare.
Io ti scuoto e ti scuoto, Euridice,
non è possibile che non mi rispondi
lì dove sei finita e ti nascondi,
tornata sottoterra, mia radice.
Ê uno scherzo, non può essere vero
che rimanga di te solo il dolore:
tutto intorno più nero del nero.
Per questo alzati, cara, non fingere
un silenzio adirato, accusatore.
Non restartene lì come una sfinge.
V
Andrò da maghi a vendermi il destino,
carte false farò con fattucchiere,
annegato nell’acqua di un bicchiere
perché non ci sei più, non ti ho vicino.
Maledetti gli dei; quell’uno solo
che ha deciso dall’alto del suo alto
– indifferente a tutto, ad ogni soprassalto
del cuore, trionfante nel suo ruolo –
di lasciarti morire, Euridice,
che non gli hai fatto niente,
mia figlia e sposa, amica mia, nutrice:
lo maledico con tutto me stesso,
dio colpevole e te innocente,
per quello che ha voluto, che ha permesso.
VI
Se provassi a pregare, se riuscissi
a convincerlo? Lui può fare
che sia quel che non è, può fermare
la terra, il sole, inventare un’eclissi.
Dio degli dei, dio dei viventi, dio,
non c’è un motivo vero, una ragione
per cui la vita mi diventi prigione,
e quello che era mio non sia più mio.
Ti scongiuro, signore dell’abisso,
ti imploro, lascia che ritorni
a fare uno di me che sono scisso.
Del tutto vero quello che si dice:
sono pronto a dannare i miei giorni
per riportarla a me, Euridice.
VII
Verrò a prenderti, cara, verrò
a liberarti, Euridice sprofondata
in un sonno ingannatore; mia malata,
rinuncerò a curarti, se vedrò
che ti avvolgi in un buio più profondo.
Cosa ti tiene, che cosa ti trattiene
laggiù, lontana dal mio bene:
hai paura di perderlo nel mondo?
Ma io scendo, comunque, a salvarti:
perché la vita vera è qui, è ora,
nel mio presente, nel mio sempre pensarti.
Non c’è assoluto che sia meglio
di noi, del mio volerti ancora.
Ed è un incubo il sonno in cui sto sveglio.
VIII
Sono pronto a fare una promessa,
barattando il mio sguardo col respiro
di te viva, il mio silenzio-capogiro
col tuo nome: Euridice principessa.
Giuro che non ti sfioro con gli occhi,
con le mani, che non mi avvicino
col mio corpo teso di bambino
incantato dal paese dei balocchi:
purché tu, semplicemente, sia
rimarrò muto, cieco e sospeso
vivendo viva e vera la magia
del tuo ritorno; impazienza
di averti, avendoti preteso,
mia ombra inconsistente, mia esistenza.
IX
Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina.
Ma non ti guardo, taccio, sono bravo.
Ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo,
Euridice, mia madre e bambina.
Come vorrei mi prendessi la mano,
toccarti un braccio, sfiorarti la bocca:
so che non devo, so cosa mi tocca
se non resisto a starti lontano.
Sei silenziosa e ferma al mio fianco,
oppure ti nascondi, resti indietro;
segui ubbidiente il mio passo stanco
e nel tuo passo leggero ti ascolto.
Tu, trasparente pensiero di vetro:
voglio appannarti. Ecco, mi volto.
In Litania periferica, Manni, Lecce 2000
e in Nuovi Poeti Italiani 6, Einaudi, Torino 2012
FRONTIERE DEL TEMPO
FRONTIERE DEL TEMPO, MANNI, SAN CESARIO DI LECCE 2006
GEMMA DONATI
GEMMA DONATI
I
Mi dicono di lui che è un buon partito,
ma così serio sempre che un po’ temo
la mia vita futura, e il marito
che sarà. A notte veglio a lungo, e tremo.
Però di giorno, nel sentir cantare
per le strade sull’aria di Casella
quella ballata sua che invita a amare,
allora mi consola la mia stella.
Un altro ci sarebbe che mi piace,
ma il mio pensiero non è mai costante.
So ciò che devo per avere pace,
e non farò quello che fanno tante.
Per questo il cuore si rassegna e tace;
gliel’ordino. Il mio promesso è Dante.
II
L’ho visto oggi, in allegra brigata,
per la via che il sestriere divide.
Non mi ha guardato, finché sono entrata
in chiesa: poi li ho sentiti ridere.
Si potrebbe pensare si vergogni
di portare così stampato in faccia
che non vuole privarsi dei suoi sogni.
Forse crede che questo mi dispiaccia.
Pare abbia scelto per le rime un nome
e se ne serva come di uno stemma:
nome di donna che riluce come
la stella diana; ed è uno stratagemma
facile da rimar per chi compone.
Lui scrive Beatrice e pensa Gemma.
III
Ho aspettato il mattino del mio giorno
pregando Dio e facendomi bella.
Mentre la gente si stringeva intorno
lui cercava coraggio in sua sorella.
Stava lì come chi si sente privo
di qualcosa o qualcuno, abbandonato.
Io piangendo troppa gioia mentivo.
Lui taceva, di me forse irritato.
Io sono una Donati, io; antica
e nobile famiglia, che a confronto
gli Alighieri scompaiono. Non dicano
che mi ha fatto un onore, è un affronto
che l’una all’altra gente fa nemica.
Io non voglio pagare nessun conto.
IV
Gli ho fatto un maschio. L’ha chiamato Pietro,
scegliendo un nome che di Cristo vive,
e senza uscire dal suo umore tetro
è tornato nella sua stanza a scrivere.
Fa così perché è un genio. L’ho capito
che le gioie di tutti non lo toccano.
Non posso domandare a un tal marito
di pendere da ciò che ho sulla bocca.
Mi sono messa a frugare le carte
con la speranza di trarne la prova
che a interessarlo non è solo l’arte,
che l’esistenza in famiglia gli giova,
e ne scrive. Chissà se almeno in parte
a me dedicherà la Vita nova.
V
Alcuni su Firenze ci si impinguano:
lui ama la città più di se stesso.
E’ questo che lo perde, e la sua lingua.
Io mi aspettavo ciò che fanno adesso.
I migliori non hanno mosso un dito
quando la casa ci è stata distrutta;
lui per fortuna era via, partito
per sempre. Ma io, Gemma, ero lì, tutta.
Come fanno da sempre i peregrini
che nelle corti sopportano il giogo,
scriverà, amerà, farà gli inchini.
Con se stesso, sta bene in ogni luogo.
Sarò sola per anni, coi bambini;
sono sposata a un condannato al rogo.
VI
So della donna di cui Dante dice
beato e beatifico il sorriso,
colei cui diede nome Beatrice
fingendo di seguirla in Paradiso.
Alcuni pensano esista davvero,
altri sia morta ormai da molti anni.
Guardate quanti stravolgono il vero
per vederlo vestito d’altri panni!
Si narra poi che gli vive lontana,
che in gioventù l’ha avvicinato a Dio:
ho sentito ripeter che è toscana
– di Firenze –, proprio del borgo mio.
Credano gli altri a una memoria vana.
Quella che l’ha ispirato, sono io.
In Rosa rosse rosa, Bertani, Verona 1986.
GLI ANNI ZITTI
GLI ANNI ZITTI
Quando è morto mio marito
non avevo ancora quarant’anni,
e ho sperato, sì, per giorni e per anni,
di trovare un amore, una carezza,
qualcuno da incontrare a metà settimana.
Forse il mercoledì. A cui regalare
un maglione di lana, una cravatta.
E telefonargli la sera.
Invece, che matta! Mi sono sposata
la tristezza; la più vera, la più sola.
***
Io, in attesa
e ferma come una cosa
qualunque, trascurata, inessenziale
(non mi avesse vista
un mattino; oppure subito
− così! − cancellata).
Ad aspettare
un nuovo sguardo,
nuovo davvero, non educato;
o la mano che osa alzarsi
sulla mia. Poi resta
sospesa, senza appoggiarsi,
turbata.
***
Tante facce tra noi
ci allontanavano da noi.
Visi da salotto o da metropolitana,
gesti indecisi.
E occhi spalancati,
sorrisi cenni
sottintesi.
In due, far finta di niente,
scontrosi eroi
della diversità.
Ma vincevano,
poi,
i banali invidiosi,
allontanandoci − io e lui
arresi a chiedere pietà.
Così restavamo esitanti,
perdenti.
Delusi
di loro, di noi.
***
Quanto mi lasciava sola
davanti a Dio (al mondo, alle paure),
e sapeva nascondersi
dietro le spalle fragili:
di me, delle bambine.
Ma come si appendeva a noi,
chiedendoci più vita, e gioia,
e anni.
Quanto restavo sola, allora;
e ancora, dopo.
***
Il silenzio cade,
e qualcuno non verrà mai più.
Mai più per sempre.
Per sempre zitta la sua voce,
ogni parola.
Riguardiamo le foto,
sistemiamo i biglietti d’auguri,
i filmini superotto, le cassette
registrate. Poi torna il silenzio,
aspettando
oltre i muri un’assenza.
***
La sua assenza, il suo mancare,
non imprimere il gesto nell’aria,
la voce nel silenzio; la traccia delle scarpe
sulla neve in giardino, il calco
della mano sul cuscino del divano.
È tutto cancellato,
divorato dal niente.
Così resto a pensare, cerco di ricordare:
com’era veramente la sua faccia
se mi guardava e tratteneva il fiato.
***
Molte cose muoiono
insieme a chi muore.
Le sue impazienze, i sorrisi
improvvisi. Il sonno
del primo pomeriggio
da non disturbare,
la crema per le mani
vanitose, la pianta
sempreverde rinsecchita.
Partenze affrettate,
ritorni pentiti.
E le parole
tenere, quelle dubbiose;
le musiche, le rabbie, i vestiti.
Lo sguardo di chi lo cercava
e adesso non sa cosa fare:
vaga, trema, si incanta
o si perde.
***
Rimangono tante cose da dire
che non si sono dette,
per pigrizia, distrazione, mancanza
di tempo o di passione.
Sarebbe bastato un sorriso,
un cenno divertito a qualcosa
di non tragico accaduto:
scusa per quella volta
o grazie per le altre volte.
Ma non c’è stato tempo, eravamo
distratti, pigri, impazienti
e abbiamo perso l’ultima occasione.
***
Le storie che finiscono
− storie che durano oltre,
rami intrecciati, radici
radicate sotto i sassi,
lapidi, marmi
(O my dear, O my dear)
Mia madre mio padre
mio marito, le lastre
pesanti, le foto, preghiere
e labbra cucite,
e mani gelate
(O my dear, O my dear)
Le storie sepolte
di cenere alla cenere,
lontani i lontani,
le ancore ancoranti
sciolte divelte risucchiate
(O my dear, o my dear)
La terra tornata di terra
le voci zittite,
in alto più pallido
un sole risorto
tramonta risorge rimane
(O my dear, O my dear)
***
Se arriva una lettera da uno che era vivo
e poi è morto, una lettera scritta da un vivo
che arriva giorni dopo la sua morte,
o settimane; si ha paura ad aprirla,
si teme un rimpianto una ferita
e la rivelazione di un segreto taciuto
da sempre; ma se in quella stessa lettera
che arriva da un morto non c’è niente
di male, né scuse né accuse, soltanto
una carezza tardiva, i baci alle bambine,
pensieri sospesi destinati a restare
sospesi in eterno, nell’aria,
in qualche chissà dove; allora la si legge,
si rilegge, la si impara a memoria,
e si sfiora con le dita l’indirizzo
che non verrà più scritto
allo stesso indirizzo da un mittente
che è morto, e si pensa alla firma
impietrita, al suo nome sepolto,
al silenzio futuro:
mentre tutto era vivo, presente, affettuoso
nella lettera scritta da un morto
quando ancora era vivo,
e ci pensava.
***
Alle mie figlie
Al nostro ieri basta dare
un altro nome,
proiettarlo in un futuro sconosciuto:
ed ecco che è promessa
− non più tristezza.
Festa e non lutto,
conquista e non sconfitta.
Invenzione, mai memoria;
progetto, non storia antica.
Fantasia speranza alba
(il mio domani, il vostro).
Via il pianto, la fatica dell’odio,
ogni brutto pensiero.
Danza canto bellezza.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 1 novembre 2018