Poiché gli unici angeli rimasti

sono gli amanti fedeli, l’uno

nunzio all’altro di essere e bene.

I soli che soli rimangono,

che soli si guardano: sfiorandosi

si sanno, non hanno vergogna.

Noi strani e stranieri, incapaci

di abbandono, noi sì ci vergogniamo,

e più non riusciremmo a sorridere

del riso dell’altro, ma presi

da un sospetto, da un’invidia

tremante scuoteremmo la testa

allontanandoci. Beati i promessi,

invece, che si fidano delle loro parole,

le presumono nuove, ansiosi di illudersi

ancora, di credersi sinceri.

 

 

Infatti se si sfiorano le dita

per errore, hanno come un soprassalto,

quasi un brivido. Si ritraggono, dapprima;

poi si cercano. E ripetono il gesto,

lo ripetono studiandosi, se per caso

l’intenzione calcolata suscitasse

nell’altro un leggero fastidio,

o piacere. Nel palmo della mano

premono poi la mano sconosciuta,

ne ascoltano il tepore, la proteggono.

Così semplice allora diventa

tentare altri gesti, qualche carezza;

così semplice toccarsi, esplorarsi.

E subito «sei mio» si dicono, «sei mia»,

sentendosi padroni, e insieme servi.

 

 

Quello che fuori non li interessava

diventa loro in un istante. Tanto si espande

in chi ama il sentire, che cielo

erba segnali stradali si imprimono

in dissolvenza, scenario

irrilevante – o necessario. E l’albero

la sedia il portacenere spariscono,

per poi riaffacciarsi imperiosi,

decisi a ribadire «ci siamo,

e testimoni potremmo se richiesti

assolvere o accusare».

Gli oggetti, i silenziosi complici,

le congiuranti spie

di incontri, abbracci,

promesse imperiture.

 

 

Il miracolo nasce nello sguardo,

non altrove: tutto lì è il prodigio,

sotto le ciglia che vibrano appena,

negli occhi che restano socchiusi

timorosi di abbagli.

In loro si riflette la paura,

l’esultante scoperta del volto

messo a fuoco, isolato dal resto

del giorno. Proprio quella è la faccia,

impastata dal fango in una creazione

generosa; poi offerta,

poi premio allo sguardo paziente

impaziente che aspettava,

e trema, adesso

– incredulo, turbato.

 

 

Così povere, sempre, le parole:

inadeguate a esprimere, incapaci

anche solo di rispecchiare il fiato.

Eppure a loro chiedono soccorso

gli occhi le mani degli amanti

per dire e dire (non sanno bene

cosa, dire; come). Preziose

illuminate le vorrebbero i due,

e nuove, coraggiose: invece sulle labbra

intimidite si bloccano, balbettano;

oppure torrenziali straripano,

torbide inutili. Tacete, allora,

innamorati sciocchi. Preferite

il silenzio, arrendetevi zitti.

Vedete come stanno muti

i fiori, le nuvole, la neve.

 

 

 

Da Elegie del risveglio, Sigismundus, Ascoli Piceno 2017, e in Gli Stati Generali, 12 gennaio 2021