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RECENSIONI

JOYCE

JAMES JOYCE, NON POSSO SCRIVERE SENZA OFFENDERE LE PERSONE

ERETICA EDIZIONI, BUCCINO (SA) 2024

 

La casa editrice Eretica propone una selezione di lettere che James Joyce (Dublino1882-Zurigo1941) indirizzò nell’arco di una trentina d’anni ai suoi corrispondenti durante le tormentose vicende editoriali che per motivi di censura ostacolarono la pubblicazione dei suoi libri Dubliners e Ulysses: Non posso scrivere senza offendere le persone.
I racconti dei Dubliners patirono nove anni di continui rifiuti, richieste di revisione, polemiche, prima di venire finalmente pubblicati nel 1914 dall’editore Grant Richards: si temevano accuse di antipatriottismo e di oscenità da parte dei lettori e delle autorità irlandesi.
Per Ulysses, invece, le circostanze assunsero da subito un’altra piega, in quanto Joyce si era nel frattempo fatto conoscere come autore di rilievo, ottenendo il plauso e il sostegno di importanti intellettuali come Ezra Pound, per cui interi brani del romanzo iniziarono a uscire su influenti riviste letterarie, nonostante la continua minaccia di sequestri, finché nel 1921 negli Stati Uniti il testo finì sotto processo e venne condannato per oscenità, e ne fu interrotta la pubblicazione anche in Inghilterra. Soltanto grazie al coraggio della casa editrice parigina Shakespeare & Co., il libro uscì in Francia nel 1922. Tuttavia, bisognò attendere il 1933 perché Ulysses fosse liberato dall’accusa di oscenità e potesse venire diffuso nel resto del mondo. Nella conservatrice Irlanda, il capolavoro joyciano iniziò a circolare liberamente solo negli anni ’60, quando il suo autore era ormai morto da vent’anni.
Le lettere presentate in questa raccolta sono state tradotte dagli originali pubblicati nel 1957, nel 1966 e nel 1975. Ognuna di esse è preceduta da data, luogo di invio e nome del destinatario, ed è accompagnata da notizie sugli eventi, i luoghi, le persone e le opere menzionate.
Inoltre nell’Appendice possiamo leggere le traduzioni con originale a fronte di Gas from a Burner, poemetto satirico del 1912 ispirato alla vicenda della pubblicazione dei Dubliners, e l’episodio di Nausicaa dell’Ulisse, incriminato negli anni ’20.
L’epistolario si apre con una prima lettera, datata 26 aprile 1906 e inviata da Trieste all’editore Grant Richards, e si chiude il 31 luglio 1934, con un biglietto spedito da Anversa al fratello di Joyce, Stanislaus.. Tra i destinatari delle missive leggiamo nomi famosi (Italo Svevo, T.S. Eliot), ma prevalgono comunque gli editori con cui il grande letterato dovette combattere per tutta la sua esistenza. Si difendeva con veemenza, talvolta usando toni sarcastici o irosi, accusando i corrispondenti più retrivi di clericalismo o di mentalità militaresca: “Ho scritto il mio libro con notevole cura, nonostante mille difficoltà e coerentemente con quella che ritengo essere la tradizione classica della mia arte… Non posso fare più di questo… Non posso modificare ciò che ho scritto… Non sono un emissario di un Ministero della Guerra che sperimenta un nuovo esplosivo… Non ho tuttavia detto quale delusione sarebbe per me se non potessi condividere le mie opinioni”.
Succedeva che fossero addirittura i tipografi a rifiutarsi di stampare i testi, ergendosi a censori e difensori della pubblica moralità: in un caso venne rimproverato allo scrittore l’uso del termina “dannato” in quanto violento e disdicevole.
James Joyce era assolutamente fiero della propria produzione, e ne menava vanto: “Ho fatto il primo passo verso la liberazione spirituale del mio paese”, attaccando anche la mediocrità della sua città natale: “La mia intenzione era quella di scrivere un capitolo della storia morale del mio paese e per la scena ho scelto Dublino perché quella città mi sembrava il centro della paralisi”. Arrivò spesso a minacciare azioni legali sia contro gli editori inadempienti del contratto, sia contro le pubblicazioni clandestine e piratesche: altre volte si dichiarò disposto a contribuire alle spese di stampa pur di vedere pubblicati i suoi lavori, in cui giustamente credeva moltissimo. I più noti letterati dell’epoca firmarono per solidarietà la sua denuncia contro i soprusi editoriali di cui era vittima: tra gli altri Benedetto Croce, Albert Einstein, T.S. Eliot, André Gide, Ernest Hemingway, D.H. Lawrence, Thomas Mann, Luigi Pirandello, Bertrand Russell, Italo Svevo, Virginia Woolf, W.B. Yeats.
A proposito di Dubliners, rifiutato da quaranta editori, Joyce scriveva “Il libro mi è costato tra spese legali, di viaggio e postali circa 3000 franchi: mi è costato anche nove anni di vita. Ero in corrispondenza con sette avvocati, centoventi giornali e diversi letterati a riguardo — i quali tutti, tranne il Sig. Ezra Pound, si rifiutarono di aiutarmi… Una persona molto gentile acquistò l’intera edizione e la fece bruciare a Dublino: un autodafé nuovo e privato”. Si vendicò anche in versi contro l’ottusità cattolicamente becera dei suoi connazionali: “O Irlanda mio primo e unico amore / Dove Cristo e Cesare sono culo e camicia!”
L’appassionata postfazione del volume, per firma di Sofia Cavazzoni, ci restituisce l’atmosfera claustrofobica e persecutoria che ha circondato e preso di mira le pubblicazioni dei capolavori joyciani, ricostruendo puntualmente tutte le vicissitudini editoriali che le hanno accompagnate per mezzo secolo.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 25 luglio 2024

RECENSIONI

MALAMUD

BERNARD MALAMUD, PER ME NON ESISTE ALTRO – MINIMUM FAX, ROMA 2015

Minimum Fax ha pubblicato nel 2015 Per me non esiste altro, un omaggio alla letteratura di Bernard Malamud (Brooklyn 1914-New York 1986). Scrittore americano di origine ebraiche, Malamud ottenne importanti riconoscimenti sia per i suoi sette romanzi (il più famoso fu Il commesso, del 1957), sia per i numerosi racconti che gli valsero il National Book Award. Nei suoi lavori utilizzava uno stile asciutto e realistico, descrivendo con intensa partecipazione emotiva e lieve ironia il mondo piccolo borghese di individui e famiglie incapaci di adattarsi alle esigenze della società moderna. In genere perdenti, afflitti da perenne malinconia, perdutamente e infelicemente innamorati, i suoi personaggi riflettono il rigore etico e la rassegnata pazienza dei tanti invisibili Giobbe che si celano nelle pieghe di un mondo sopraffattore e spietato.

Malamud è stato uno scrittore in conflitto con la sua epoca, di cui criticava ingiustizie e disumanità, senza però arrivare mai alla polemica o alla rivendicazione rivoluzionaria. La sua contestazione della contemporaneità si è espressa quasi esclusivamente attraverso la letteratura, e questo volume ne è una efficace testimonianza. Si tratta di una raccolta di riflessioni e suggerimenti per la scrittura, una serie di lezioni sui meccanismi narrativi da seguire per produrre un testo non solo convincente per i lettori, ma anche in grado di proporre un insegnamento morale. Queste indicazioni suggeriscono inoltre una guida di lettura, un libretto d’istruzione per interpretare forme e contenuti dell’opera di Malamud stesso, maestro ed esempio di scrittura raffinata, fondata su un’esigenza etica di interpretazione dell’agire umano.

Il primo suggerimento offerto a chi volesse misurarsi con la pagina bianca, riguarda l’oggetto della scrittura: cosa scrivere, quali argomenti prendere in considerazione, con quali tipologie caratteriali confrontarsi. Senza eccedere nello scandaglio interiore della psicanalisi (secondo l’autore colpevole di non esprimere giudizi di valore sui comportamenti individuali), l’aspirante scrittore deve possedere una conoscenza profonda dell’animo umano, dei suoi sentimenti ed emozioni, delle motivazioni che lo spingono all’azione. Una responsabile esplorazione dell’io rimane alla base di questa ricerca: senza scadere in un eccessivo autobiografismo, si possono opportunamente combinare spunti del proprio vissuto con altre fonti di ispirazione provenienti dall’esterno. Quali temi prediligere, dunque? Non si deve temere di ripercorrere argomenti logori e abusati della letteratura mondiale, inseguendo falsi ideali di novità e originalità assolute. Si possono scegliere temi intimistici, ispirati dalla cronaca, dalla storia mondiale o del tutto fantastici, riorganizzandoli secondo la propria inclinazione ed esperienza personale. Nella costruzione di una storia è importante privilegiare l’idea del conflitto, con sé stessi o con la società, di lotta contro un destino avverso, o con l’inquietudine dell’inconscio. Ciò dà spessore a ogni carattere e a ogni vicenda, anche puramente sentimentale.

Leggere moltissimo, trarre insegnamenti dai capolavori della letteratura mondiale è ovviamente indispensabile, evitando però il confronto con i giganti, e il desiderio di emularli: i libri altrui vanno osservati a distanza, attraversati senza fagocitarli. Una volta scelto il tema da raccontare, è opportuno redigere una scaletta, modificabile man mano si procede nel lavoro, perché aiuta a organizzare meglio lo sviluppo della trama, e offre un’idea complessiva dell’opera, dall’ossatura iniziale al perfezionamento dei dettagli.

È utile poi creare combinazioni diverse per testarne la forza drammatica, cercando di ampliare il proprio punto di vista, senza imporre una visione univoca della realtà. Chi scrive non deve aver paura di inventare, di usare l’immaginazione, di fantasticare sul mistero e sull’irreale, di sfruttare l’ironia e la comicità, alleggerendo un contesto troppo serio o appesantito. Nella costruzione dei personaggi, si deve lasciarli liberi di cambiare prospettive, scelte e carattere nel corso della narrazione, scavando nella loro interiorità fatta di dubbi, rimorsi, complessi, sentimenti positivi o negativi, di sogni e incubi.

Lo stile è fondamentale nella produzione di un autore: deve essere sobrio e controllato, e va continuamente corretto, nel corso di molteplici stesure: “riscrivere, riscrivere, riscrivere”, con il coraggio di cestinare i tentativi falliti, ricominciando da capo finche non si trova il giusto ritmo narrativo.

Come uomo e come scrittore, Malamud poneva tra i suoi irrinunciabili valori onestà, disciplina, integrità, orientandosi verso la dimensione etica della vita e della letteratura. Diffidente verso chi nell’arte esalta l’espansione della coscienza attraverso pratiche psichedeliche, l’uso di droghe, o altre esperienze violentemente distruttive, credeva essenzialmente nell’impegno costante e razionale del lavoro sul testo, e nella creazione di un’estetica morale, capace di dare un significato al senso dell’esistenza. Concordava quindi con l’affermazione di Camus secondo cui “compito principale dello scrittore è evitare che il mondo si autodistrugga”.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 21 luglio 2024

 

 

RECENSIONI

SŌDERGRAN

EDITH SŌDERGRAN, NOTTURNO E ALTRE POESIE – MAURO PAGLIAI, FIRENZE 2009

Alla poeta finno-svedese Edith Södergran (San Pietroburgo, 1892Raivola, 1923) l’editore Mauro Pagliai ha dedicato nel 2009 l’antologia Notturno ed altre poesie, con testo a fronte e cura di Bruno Argenziano. Considerata la fondatrice del modernismo finlandese, Södergran ha influenzato la lirica nord-europea fra le due guerre mondiali attraverso la sua delicata ma intensa voce poetica, che raccoglieva le eredità del Simbolismo francese, dall’Espressionismo tedesco e dal Futurismo russo, filtrandole con “raffinata sensibilità e prorompente vitalità”. Esordì nel 1916 con la raccolta Poesie, alla quale seguirono altri quattro volumi di versi, in cui sempre si evidenziava un’acuta percezione visiva e affettiva della natura.

“Di tutto il nostro assolato mondo / desidero soltanto una panchina da giardino / dove un gatto prende il sole…”; “Gli amari garofani allignano lungo la via / dove impenetrabile si fa la penombra dell’abete”; “Me ne sto sola fra gli alberi del lago, vivo in amicizia coi vecchi abeti della riva / e in segreta concordia con tutti i giovani sorbi”.

Nata a San Pietroburgo, Edith visse con la famiglia tra la capitale russa e Raivola (oggi Roshchino), piccolo centro a pochi chilometri dal mare e dal confine con la Finlandia, scelto come meta estiva dalle famiglie borghesi della zona. Educata in prestigiosi collegi, si esprimeva perfettamente in russo, in tedesco, e ovviamente nella lingua materna, lo svedese parlato in Finlandia. Leggeva testi sia nelle lingue classiche, sia in francese, inglese, italiano. Dai temi di ispirazione elegiaca delle prime raccolte, l’interesse della giovane poeta si orientò verso interessi politici e filosofici, frutto di approfondite letture, soprattutto da Freud e Nietzsche, con una precoce e risentita attenzione nei riguardi del ruolo subalterno delle donne nella società. Quindicenne si ammalò di tubercolosi, la stessa malattia che aveva portato alla morte suo padre, e che la costrinse a lunghi periodi di cura in sanatori svizzeri, uccidendola a soli trentun anni. Il presentimento della morte velava i suoi versi di malinconia e pessimismo, insieme al nostalgico desiderio di un amore e di un futuro che sapeva irrealizzabili:

“Il futuro getta su di me la sua ombra beata; / non è altro che fluente sole: / trafitta di luce morirò, una volta calpestato tutto il fortuito, / con un sorriso volgerò le spalle alla vita”; “Tra breve vorrò stendermi sul mio giaciglio, / i folletti mi copriranno di bianchi veli / e rosse rose spargeranno sulla mia bara. / Muoio – perché son troppo felice”; “Amavo una volta un uomo, non credeva in nulla… / Venne un freddo giorno e gli occhi eran vuoti, / se ne andò un plumbeo giorno e c’era oblio sulla fronte”.

Recentemente, non solo nel mondo scandinavo ma anche in Italia, le poesie di Edith sono state lette, recensite e citate con grande interesse dalla critica femminista, che ha trovato nella poeta finno-svedese un’intelligente anticipatrice delle tematiche più cogenti della lotta di liberazione della donna. L’orgoglio della propria femminilità la rendeva erede delle grandi figure del mito, e contemporaneamente proiettata in un mondo di gioiosa indipendenza fisica e intellettuale:

“A piedi / mi toccò attraversare il sistema solare, / prima di trovare il primo filo del mio abito rosso. / Ho già il presagio di me stessa. / In qualche posto nello spazio è appeso il mio cuore, / faville si sprigionano da esso, e l’aria si scuote, / verso altri smisurati cuori”.

 

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 6 luglio 2024

RECENSIONI

CURI

UMBERTO CURI, PARLARE CON DIO. UN’INDAGINE TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA

BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2024

 

In un passaggio del Crizia (107 c-d) Platone afferma che poiché non sappiamo nulla di preciso degli argomenti celesti e divini, ci riteniamo soddisfatti che vengano esposti anche con una piccola parte di verosimiglianza, accontentandoci “di un chiaroscuro indistinto e ingannevole”. Più di due mila anni dopo, Heidegger considera teologia e filosofia due scienze opposte, in quanto la prima si basa su una rivelazione indiscussa e indiscutibile, mentre la seconda si costituisce come ricerca e disquisizione delle basi dell’essere. La teologia afferma una verità, la filosofia ne mette in discussione i presupposti. Ma davvero esiste un solo modo di parlare di Dio, aderendo alle indicazioni della teologia, o se ne può trattare in maniera più complessa? Se lo chiede Umberto Curi, Professore emerito di Storia della Filosofia all’Università di Padova, nel suo volume più recente, Parlare con Dio, edito da Bollati Boringhieri.

A partire dalla ricostruzione della consegna delle Tavole della Legge da Yhwh a Mosè sul Sinai (un dialogo, e non un monologo!), l’autore commenta l’interpretazione tradizionale delle parole e dei silenzi intercorsi tra Dio e le creature, tenendo conto delle inesattezze delle varie traduzioni, dei fraintendimenti involontari o tendenziosi, dalle tesi manipolatorie determinate dai diversi culti religiosi. Nell’impossibilità di accedere alla definitiva verità del testo, “le dieci parole assomigliano più a coloro che le ricevono, piuttosto che a colui che le avrebbe pronunciate; ricalcano dunque i limiti di chi dovrebbe metterle in pratica, più che l’onnipotenza di chi le avrebbe originariamente formulate”.

Anche del libro di Giobbe si possono dare diverse letture. Il protagonista, “persona perfetta e retta, fedele a Dio e nemico del male” ma tormentato da sofferenze crudeli e immeritate, viene quasi sempre esibito come eroe della fede, simbolo di paziente e umile accettazione, mentre si ridimensiona la ribellione espressa dal suo grido di protesta e di accusa, che chiama in causa il Supremo come dispensatore di ingiustizie e dolori. La replica di Yhwh, che riduce l’uomo alla sua irrilevanza di fronte alla grandiosità del creato e all’incomprensibilità dei disegni divini, sancisce l’assoluta e ingiudicabile superiorità di Dio, mettendo a tacere la vittima, che proprio nell’atto finale di obbedienza si vedrà ricompensata dei mali patiti. Giobbe non parla di Dio, ma parla a Dio, spalancando il rapporto con il totalmente altro dall’essere umano. Nell’innovativa esegesi di Kierkegaard non viene ridotto a simbolo di rassegnazione (“Il Signore ha dato e il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”), ma va rivalutato proprio per la sua coraggiosa contesa con il Creatore, che preannuncia il messaggio cristiano, opposto alla logica retributiva tra colpa e pena insita nell’ortodossia religiosa giudaica, e invece foriero di un possibile superamento del dolore grazie alla misericordia divina.

Il silenzio con cui Giobbe mette fine alla sua protesta, è altro dal silenzio fedele e adempiente di Abramo, più di lui eroe della fede in quanto nella sua totale obbedienza, nella sua disposizione all’ascolto (“eccomi!”, ripetuto tre volte a un richiamo difficile da accettare), esprime l’accettazione totale di quello che non riesce a comprendere: la fede inizia là dove finisce la ragione, “la fede altro non è che credere nell’assurdo, accettare il paradosso, convivere con l’angoscia, subire la persecuzione”. Fede come timore e tremore, secondo Kierkegaard; secondo San Paolo “prova di cose che non si vedono”. Con i due personaggi veterotestamentarie di Giobbe e di Abramo si entra in una nuova teologia, più prossima a quella evangelica, in cui l’uomo si pone di fronte a Dio, gli parla e gli ubbidisce, pur senza riuscire a comprenderlo. Prefiguratori del Cristo, Giobbe e Abramo si muovono già nella disposizione etica peculiare del Nuovo Testamento.

La parola chiave, davvero rivoluzionaria, del Vangelo, diventa “misericordia”, mai contemplata dalla legge giudaica. Umberto Curi ne introduce il concetto commentando il brano delle Beatitudini riportato in Mt. 5, 3-12 e in Lc 6, 20-26, conosciuto come il “discorso della montagna” (quante montagne, simbolo di ascesi spirituale, nella Bibbia: Sinai, Or, Ermon, Carmelo, Libano, Tabor, Garizim, Sion, Getsemani, Golgota…). Generalmente considerato come l’antitesi neotestamentaria al Decalogo, espressione dell’etica cristiana più elevata rispetto al formalismo legalitario della morale veterotestamentaria, esso indica un rovesciamento di grande portata eversiva della gerarchia dei valori dominanti nella storia umana: mitezza contro violenza, umiltà contro superbia, sobrietà contro ricchezza, misericordia contro intransigenza. Gesù definisce beati coloro che sono agli antipodi di ciò che abitualmente viene stimato essere importante. Soprattutto beati sono i misericordiosi, che vengono ricompensati non con un premio futuro ma con il riconoscimento attuale della misericordia a loro destinata dal Signore: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt 5,7).

Curi cita in particolare due episodi dei Vangeli in cui la misericordia esprime empatia, pietà e compassione per l’infelicità o gli errori dell’altro: la parabola del buon Samaritano (Lc 10,37) e la difesa dell’adultera (Gv 8, 1-11). Il buon Samaritano è un “fuori casta”, un uomo senza identità, un pagano che soccorre il viandante ferito trovato per strada, mentre prima di lui un sacerdote e un levita gli avevano negato qualsiasi assistenza. Il discorso che Gesù rivolge alla donna adultera (“neppure io ti condanno”) annulla l’ineludibile corrispondenza veterotestamentaria tra colpa e pena, opponendo al castigo la sovrabbondanza della misericordia divina.

Non sarà irrilevante notare come l’autore citi, a suffragare le sue tesi, testimonianze filosofiche e letterarie che spaziano dai presocratici ai classici greci e latini fino a Heidegger, da Sant’Agostino a Derrida, da Kierkegaard a Cacciari, ripercorrendo attraverso un’esegesi approfondita e sapiente tutte le Sacre Scritture, a partire da Genesi per arrivare all’Apocalisse.

La riflessione sul tempo, dalle accezioni più antiche (aión, chrónos, kairós per i greci) si modifica sostanzialmente con il cristianesimo: non più eternità, divenire, occasione, bensì compimento, irriducibile alle categorie del prima e del dopo. Tempo come ciò che già è, dispiegato e manifesto dinanzi a noi, presente che si fa storia. Per il cristiano, responsabilità del restare in attesa che si manifesti ciò che era nascosto: apocalissi significa appunto rivelazione, svelamento.

Negli ultimi due capitoli del volume, Umberto Curi si misura con le domande fondamentali dell’esistenza, indagando il perché del dolore, dell’ingiustizia, del male, attraverso la figura di Cristo, che ha rivoluzionato non solo il concetto di tempo, dandogli una prospettiva di riscatto, ma anche quella dei singoli destini mortali, aprendo loro la possibilità di spezzare, attraverso il perdono e la misericordia, la condizione fallimentare della colpa e della condanna. Le pagine dedicate alla Passione di Gesù nel Getsemani affrontano la sua sofferenza di creatura, la paura e il dubbio, la delusione dell’abbandono e del tradimento, l’estrema solitudine: aspetti angosciosi di un umanissimo tormento che la parola non riesce completamente a rendere, nella sua univocità e asciuttezza. Più duttili ed espressive risultano le arti: pittura, musica, cinema.

Utilizzando le proprie competenze di studioso non solo di filosofia, ma anche di estetica, Curi compie un interessante excursus sulle varie modalità con cui le arti hanno affrontato il mistero della Croce e della morte del Deus patibilis che soffre, ma nella sofferenza assume su di sé il peccato del mondo e lo espia, salvandolo ed elevandolo nell’infinito celeste. Vengono citati quindi “Il compianto sul Cristo morto” di Giotto, che – al pari degli altri capolavori di Botticelli, Perugino, Signorelli, Mantegna sullo stesso tema – non trova alcuna rispondenza nella narrazione evangelica. Tra i film, l’autore commenta criticamente quelli di Mel Gibson e di Pasolini, entrambi poco fedeli all’austera e composta descrizione degli evangelisti. Solo nella Passione secondo Matteo di Bach, Curi riesce a trovare un intenso afflato religioso che rimanda alla trascendenza dell’evento più irrappresentabile del Nuovo Testamento.

A conclusione dell’indagine filosofica e teologica proposta dal volume, Curi ritorna sul quesito iniziale: “È possibile rappresentare Dio senza rappresentarlo? È possibile far luogo all’eccedenza senza sanare l’eccedenza riportandola a normalità? Si può dire ciò che per definizione è l’indicibile?”

La domanda su quale sia il rapporto fra fede e ragione, tra credenti e non credenti, e se sia possibile un dialogo paritario tra posizioni tanto differenti, trova forse una risposta nell’esigenza di cercare la verità in maniera aperta e problematica, senza illudersi di possederla per sempre. Rimane il silenzio, come possibilità o scelta estrema per avvicinarsi a Dio, disposizione all’ascolto in attesa che Lui parli: “Nella triangolazione fra il silenzio come ascolto, il tempo come cancellazione del divenire e l’ascesi come esercizio, si condensa il monito a ricercare la verità nel ritorno alla propria interiorità”.

 

© Riproduzione riservata                     «Gli Stati Generali», 2 luglio 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

GACCIONE

ANGELO GACCIONE, SCHEGGE – I Quaderni del Bardo Edizioni, 2024

Narratore e drammaturgo, Angelo Gaccione ha pubblicato numerosi libri di saggi, racconti, fiabe, raccolte poetiche e testi teatrali. Vive a Milano, dove da oltre vent’anni dirige il settimanale Odissea, che vanta la collaborazione di prestigiose firme internazionali. Per il suo impegno civile gli è stato conferito il Premio alla Virtù Civica. Recentemente ha pubblicato un pamphlet di aforismi, Schegge, seguendo un’inclinazione che dall’adolescenza lo vede appassionato fruitore e collezionista di questa formula di antichissima tradizione letteraria, già in passato da lui frequentata in diverse occasioni editoriali.

Il prefatore della raccolta, Amedeo Ansaldi, individua giustamente una stringente motivazione etica alla base dei testi qui presentati, la stessa che anima tutti gli interventi giornalistici di Gaccione, risentito commentatore delle più roventi questioni politiche del nostro paese.

“Da sempre sono innamorato di massime, pensieri, sentenze, aforismi, che nascono improvvisi dalla penna di scrittori come stelle dal buio, per illuminare la notte del lettore”, esordisce nella presentazione, evidenziando la sua entusiastica adesione alla lapidaria espressione aforistica, capace di condensare in poche parole giudizi morali sferzanti, ironici, amaramente esacerbati.

Le massime antologizzate sono in parte inedite, oppure provengono da precedenti pubblicazioni, anche piuttosto lontane nel tempo (Il calamaio di Richelieu, Nero su bianco, Il lato estremo, Spore),

Non numerose, ma simpaticamente divertenti, sono quelle più innocue, volte a strappare un sorriso ai lettori: “Musulmane troppo vestire. Cristiane troppo spogliate”, “Finalmente la laurea l’aveva conseguita: ora poteva dedicare il resto della vita all’ignoranza”, “La battezzarono Assunta, ma rimase disoccupata tutta la vita”, “I denti? Costano un occhio!”

Altre sono più severamente critiche nei riguardi della società contemporanea, ritenuta inadeguata nel rispondere alle aspettative dei cittadini, quando non addirittura corrotta e corruttrice, effimera e volgare: “Dove non c’è opposizione, c’è corruzione”, “Ogni potere stupra”, “Chi segue la moda passa di moda”, “L’imbecillità è la più diffusa virtù contemporanea”.

Il richiamo etico è costantemente agguerrito e polemico: “Ci sono intelligenze messe al servizio di pessime cause”, “Pretendono un mondo migliore, ma non muovono un dito perché lo diventi”, “Alta società, bassa moralità”, “Tutti i reazionari sono stupidi, ma non tutti i rivoluzionari sono intelligenti”, “La rivoluzione senza morale è una rivoluzione immorale: cioè un crimine”.

Non mancano gli aforismi che Gaccione riserva a sé stesso, talvolta immalinconiti, spesso sarcastici. “Mi sento così postumo che dubito di essere ancora nato”, “Io non sono uno scrittore maledetto, ma un maledetto scrittore. C’è una grande differenza”; “Spero di andare in Paradiso, almeno da morto vorrei stare largo”, “Sono contrario a qualsiasi imposizione; se mi imponessero la felicità la rifiuterei”, “Scrivo per tenere a freno l’assassino che si nasconde in me”.

Alcune riflessioni sono più articolate, quindi richiedono uno spazio meno circoscritto di quelle aforistiche. Riguardano l’arte, la letteratura, la storia e la religione. Ma è soprattutto nell’idea convintamente pacifista, a cui Angelo Gaccione ha dedicato anni di militanza politica (si veda, a riprova del suo ostinato fervore antibellicista, questa intervista rilasciata a Rai Letteratura: https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2018/12/Angelo-Gaccione-Carlo-Cassola-e-il-disarmo), che il lettore riscontra una vis polemica più radicale, insieme alla consapevole asserzione del dovere civico dello scrittore, come dichiarano queste due incisive sentenze: “Se non vi piace la mia utopia del disarmo, dovere tenervi la vostra realtà della guerra”, “Non si scrive per meritarsi qualcosa, ma per un atto di verità”.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 25 giugno 2024

 

RECENSIONI

ESPOSITO

ROBERTO ESPOSITO, I VOLTI DELL’AVVERSARIO – EINAUDI, TORINO 2024

Roberto Esposito, Professore emerito di Filosofia teoretica all’Università Normale di Pisa, con il suo ultimo, complesso e interessantissimo volume I volti dell’Avversario, traccia una cesura, uno scarto tematico rispetto alla sua produzione più nota, indirizzata negli ultimi anni verso la biopolitica e i rapporti tra movimenti e istituzione: allo stesso modo i dieci versetti della Genesi (32, 23-33) di cui si occupa in questo libro costituiscono una netta rottura all’interno del ciclo narrativo che riguarda il personaggio biblico di Giacobbe. Il brano indagato dall’analisi di Esposito racconta l’episodio della lotta del patriarca (figlio di Isacco e Rebecca, fratello di Esaù, sposo di Lia e di Rachele, padre di dodici figli), che fuggendo dall’inseguimento vendicativo del fratello a cui aveva sottratto la primogenitura con l’inganno, si accampa sulla riva del torrente Jabbòk, dopo aver messo in salvo sull’altra sponda l’intera sua famiglia, nella speranza di condurla alla terra promessagli dal Signore.

Giacobbe quindi rimane solo, di notte, e improvvisamente gli appare dinanzi un uomo dal profilo fisico e morale indefinito, con cui inizia a lottare “fino allo spuntare dell’aurora”, in un alternarsi di duri colpi inferti e restituiti vicendevolmente, finché questo oscuro Avversario (Esposito usa l’iniziale maiuscola) lo colpisce all’anca, provocandogli una slogatura che lo renderà zoppo per sempre, e ne segnerà la trasformazione spirituale. Infatti, al sorgere del sole la sfida tra i due contendenti si conclude, e Giacobbe chiede al nemico di benedirlo; questi, senza rivelargli la propria identità, così gli risponde: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”.  Giacobbe stesso riconosce orgogliosamente la propria superiorità nel conflitto, quando afferma: “Ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”.

Il nome Israele, attribuitogli da un’entità sconosciuta, significa “colui che lotta con il Signore”, e sta a indicare non solo il suo destino, ma anche quello della popolazione di cui sarà capostipite, segnata nei millenni da un’immedicabile “ferita che si è fatta storia”.

Chi è l’Avversario? Chi è colui che lotta con Giacobbe “fino allo spuntare dell’aurora”? Un uomo, come lo definisce il brano genesiaco, oppure Dio, un Angelo, il Male, un nemico nazionale o religioso, una divinità protettiva del fiume Jabbòk, un incubo, l’inconscio rimosso? E cosa simboleggia la lotta tra i due? Si tratta veramente di uno scontro, di un corpo a corpo feroce, o non piuttosto di un abbraccio furioso e annichilente, o di una danza inebriata, secondo le varie raffigurazioni tramandateci dall’arte?

L’indagine di Roberto Esposito si articola in dieci capitoli e in un corposo repertorio di glosse e di note, che non si accentrano solo sull’episodio biblico preso in considerazione, ma ne valutano la “straordinaria irradiazione nella tradizione culturale degli ultimi due secoli in ambito filosofico, letterario, artistico, politico, psicoanalitico”.

I filosofi, gli storici, gli psicanalisti passati in rassegna dall’autore indicano ipotesi diverse e a volte contrastanti nel delineare la figura del nemico: vengono citati Heidegger, Barthes, Girard, Rank, Freud, Jung, Schmitt, Stirner, Peterson, Lacan, Recalcati, Agamben, tutti concordi nel sottolineare la potenza metamorfica che consente all’Avversario di assumere infiniti volti.

Scrittori e poeti come Baudelaire, Malraux, Mann, Bernanos, Sachs, Celan, Corbin, Carrère, Capote,

si sono confrontati con i nuclei tematici che emergono dal ciclo di Giacobbe (Potere, violenza, inganno, dualità, fratellanza, vendetta, paura, rimorso, narcisismo, enigma), tentando di darne una chiarificazione. La stessa cosa hanno fatto i pittori presi in esame da Esposito, in primo luogo Eugène Delacroix, il cui dipinto – collocato su una parete della chiesa di Saint-Sulpice a Parigi -, ha attirato l’attenzione dell’autore in ogni visita alla capitale francese reiterata per trent’anni. Se Delacroix raffigura il movimento dei corpi che lottano in un epico contrasto tra l’impeto furioso di Giacobbe e la forza trattenuta ed elegante dell’Angelo, Rembrandt lega i due contendenti in un abbraccio inclusivo, mentre Odilon Redon addirittura nasconde il patriarca tra le ali del Messaggero, e Moreau mantiene i duellanti discosti;  Gaugin invece oggettivizza la scena attraverso lo sguardo di alcune spettatrici in primo piano, Chagall e Bonnat utilizzano intensi contrasti coloristici, e Marte Sonnet raffigura l’Avversario come una nera forza informe e minacciosa.

Un ulteriore e forse definitivo conflitto è quello che coinvolge il lettore di Genesi 32 con l’interpretazione del testo, a cui Roberto Esposito tende a dare infine una soluzione assolutamente condivisibile: “Non si lotta – da parte di Giacobbe come da parte di ognuno di noi – per impadronirsi di una verità inattingibile, ma per accertarne l’inafferrabilità… Quale ne sia la motivazione contingente, in ultima analisi lottiamo sempre per la nostra verità, per cercare, almeno per una volta di vederla ‘faccia a faccia’, come Giacobbe fa con l’Avversario, prima che si dilegui di nuovo…”. Lottiamo tutti con il nostro inconscio, il daimon interno che tendiamo a espellere fuori di noi: “dal momento che non si darà mai un tempo umano riconciliato, esteriore o posteriore al conflitto con l’altro e con se stesso”. Per dirlo con le magiche parole della poetessa Nelly Sachs, che tanto ha combattuto con i mulini a vento della mente e con le concretissime persecuzioni della Storia: “nessuno torna illeso dal suo dio”.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 22 giugno 2024

 

RECENSIONI

CASELLI

ROBERTO CASELLI, LA STORIA DELLA BLACK MUSIC – HOEPLI, MILANO 2024

 

L’ultima autorevole e documentata pubblicazione di Roberto Caselli riguarda La storia della black music, edita da Hoepli come tutti i precedenti volumi dell’autore.

Caselli, giornalista, critico musicale e voce storica di Radio Popolare, ha al suo attivo lunghe collaborazioni con quotidiani, giornali specializzati, enciclopedie e siti web. È stato direttore della rivista Hi Folks! e del mensile musicale Jam. Tra i suoi numerosi libri che spaziano tra rock, blues e musica d’autore vanno citati il saggio Hallelujah sui testi di Leonard Cohen, La storia del bluesJim MorrisonStoria della canzone italianaLa storia del rock in Italia.

In questo lavoro (che ha richiesto due anni di studio e indagini storiografiche, insieme a traduzioni e commenti dei testi), viene analizzata l’evoluzione della musica afroamericana a partire dalle sue origini, cioè dalla deportazione dei neri dall’Africa in America, per arrivare alle ultime espressioni artistiche del rap e del trap. Una potente esplosione di creatività e versatilità, che nel corso del ’900 i discografici bianchi hanno cercato di annacquare, trasformandone la potenza deflagrante in prodotti più gradevoli e commerciali, meno politicamente pericolosi.

Caselli apre il suo excursus esplorativo affrontando il tema del colonialismo, che ha determinato la diaspora africana e l’istituzione dello schiavismo da parte delle potenze europee. La sofferenza di milioni di neri, costretti ad abbandonare il proprio continente, si espresse musicalmente nello spiritual, dando voce all’angoscia, alla tristezza e alla rabbia successivamente incanalate in una ribellione sociale collettiva, che trovava rispondenza e consolazione nelle vicende bibliche, dal tormentato cammino percorso dal popolo ebraico per arrivare alla terra promessa, fino alle pagine evangeliche che promettono un riscatto e un premio celeste. Lo spiritual si nutriva non solo di accenti religiosi cristiani, ma manteneva tracce di culti animistici africani, e addirittura celava nei testi indicazioni di vie di fuga da seguire per raggiungere gli stati antischiavisti del nord e il Canada.

Allo stesso modo, altri generi musicali furono successivamente in grado di traghettare aspirazioni, proteste e lotte della popolazione nera, e Roberto Caselli mette in luce soprattutto questo aspetto sovversivo, rivoluzionario, ideologico, veicolato da testi e ritmi. Contemporaneamente, vengono riletti i momenti cruciali della storia americana in maniera critica e antiretorica, a partire dalle intenzioni non del tutto libertarie, democratiche e antirazziste della guerra civile, passando attraverso i drammatici linciaggi e la nascita del Ku Klux Klan, il proibizionismo, la grande depressione, il maccartismo, i movimenti per i diritti civili, le marce pacifiste. La protesta dei neri si radicalizzava, fino a trasformarsi in lotta aperta alle istituzioni, con Malcom X, il Black Power, le Black Panthers, Angela Davis.

Ci furono coraggiose figure di spicco nella letteratura, nel teatro e nell’arte che appoggiarono la lotta contro ogni discriminazione razziale (Langston Hughes, Lawrence Beitler, e poi grandi scrittori come Caldwell, Faulkner, O’Connor, Kerouac, Ginsberg): a tutti loro viene dedicata un’approfondita scheda informativa.

La narrazione di Caselli segue i momenti più rilevanti dello sviluppo della black music, offrendo un esaustivo repertorio dei vari stili susseguitisi in due secoli di storia, partendo appunto dai canti di lavoro, dagli spiritual e dai blues del Delta e di Chicago, per spingersi fino al jazz, allo swing, al bebop, al R&B e al soul, e arrivare infine alle ultime espressioni della discomusic, dell’hip hop e del trap. Vengono raccontate le vite e le esecuzioni eccezionali di artisti famosissimi e meno noti (Odetta, Bessie Smith, Robert Johnson, Muddy Waters, James Brown, Otis Redding, Billie Holiday, Charlie Parker, Nina Simone, Isaac Hayes, Tupac, Run DMC, Beyoncé, Dr. Dre, per fare solo alcuni nomi), attraverso il commento dei loro album, la descrizione di concerti, festival e raduni, i percorsi biografici, le dipendenze, le inimicizie e le persecuzioni, gli amori e i lutti.

La nascita del rock’n’roll negli anni ’50 prese avvio proprio dal misto di eccitazione e rozzezza che costituiva la sostanza grezza della black music, assumendo da subito un carattere oppositivo alla cultura ufficiale, che venne presto associato alla delinquenza. Il pubblico adulto bianco, spaventato dalla sua forza trasgressiva, diresse la discografia verso una commercializzazione blanda del fenomeno, che dopo i rocker della prima ora, propose interpreti più docili e sentimentali come Pat Boone, Gene Pitney, Neil Sedaka, Paul Anka. A questa edulcorazione si oppose la commistione del rock con il blues e il soul proposta da Otis Redding, Aretha Franklin, Wilson Pickett, James Brown.

Con il tramonto delle utopie rivoluzionarie subentrò un periodo di riflusso, in cui la disco music segnò un ritorno al privato, con una ricerca ossessiva del piacere e del divertimento, celebrato dai disk jockey che imponevano i gusti da seguire. Nei ghetti resisteva il funky, mentre dalla vicina Giamaica arrivava il reggae con l’esaltante figura di Bob Marley. A partire dagli anni ’80 dalle periferie newyorkesi più disastrate si fece largo un nuovo movimento culturale articolato non solo musicalmente, ma anche sul fronte della danza (break dance) e del          writing (graffiti).

A questi ultimi decenni della black music, Caselli dedica particolare attenzione, soffermandosi sugli sviluppi del fenomeno hip hop e del rap che ben presto uscirono dai confini del Bronx per conquistare il mondo intero, ed evolvendosi poi nel trap, subito sedotto dal richiamo del successo e della ricchezza economica. Solo con la nascita del movimento “Black Lives Matter” nuovi rapper tornarono ad attivare un rifiuto consapevole del consumismo capitalista: una presa di posizione coraggiosa che si affiancò alle lotte che i giovani neri ingaggiavano per far riconoscere i propri diritti sociali e politici in un’America che continua tuttora a marginalizzarli.

Le otto sezioni del libro di Roberto Caselli, suddivise in cinque capitoli arricchiti da schede informative e da un ricco repertorio iconografico, offrono la possibilità di accedere utilizzando i QR code a canzoni riferite a ogni argomento trattato, e a un ulteriore “extended book” di approfondimento bibliografico e letterario.

La storia della black music è un volume accattivante non solo per l’esposizione formale, chiara e concisa, ma anche per la vivacità tipografica e la ricchezza delle illustrazioni, dei manifesti colorati, dei titoli e degli slogan riportati nella loro enunciazione originale. La commossa prefazione del cantante e deejay americano Ronnie Jones, da molti anni residente in Italia, ribadisce l’importanza avuta dalla musica nera nella ricostruzione orgogliosa dell’identità del popolo afroamericano, sottolineando l’abisso di sofferenza e di ingiusti soprusi patiti per secoli.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 giugno 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BETOCCHI

CARLO BETOCCHI, TUTTE LE POESIE – GARZANTI, MILANO 2019

“Che ne sarà del vento in Paradiso, / il vento che riporta la memoria”; “Il mio cuore è debole, stasera, / come il sole che lento risale / i tetti, e profonde sono le mie colpe; / ahi! L’uomo, come sempre tramonta”; “Cielo, quel po’ che c’è, oggi, di sole, / un po’ dalle tue nuvole, ti prego, / per il mio freddo lascia trasparire”; “C’è soltanto della pura gioia, nello stridìo / delle rondini, o anche un fitto / dolore?”; “Le stanze sono poche: la tua tosse / erra di stanza in stanza: il mio silenzio / è ovunque, quieto, strano, come fosse / lui solo”.

Sono alcuni dei folgoranti incipit delle poesie che Carlo Betocchi (straordinario, schivo, dimenticato poeta di paesaggi, di antichi amori domestici) scrisse nella sua lunga e laboriosa vita. Esistenza non puramente da intellettuale, la sua, ma all’inizio da capocantiere, vicina agli operai e alla gente del popolo, quindi da insegnante: imbevuta di una poesia imparata dai classici, fatta propria e prodotta poi con gentilezza sapiente, e con una grazia quasi francescana, da innamorato della natura e della creazione.

Betocchi nacque a Torino nel 1899 da una famiglia di lavoratori: il padre ferroviere dovette trasferirsi a Firenze quando lui aveva sette anni, e morì nel 1911 lasciandolo appena adolescente con la mamma e due fratelli minori. Formatosi nell’ambito di un cattolicesimo tradizionale e fervente, diplomato perito agrimensore, combatté nella prima guerra mondiale e poi volontario in Libia. In seguito lavorò come geometra edile, spostandosi in varie città italiane e francesi, ma mantenendo un entusiastico interesse per la letteratura, soprattutto di ispirazione religiosa. Fraterno amico di Piero Bargellini e Nicola Lisi, frequentava a Firenze gli scrittori e i critici del circolo ermetico (Luzi, Bo, Caproni), collaborando alle maggiori riviste culturali dell’epoca: Il Frontespizio, la Fiera letteraria, L’Approdo.

Attraverso un linguaggio diretto e colloquiale, un lessico privo di ricercatezze e sperimentalismi, una metrica basata sulla musicalità più lineare e cantilenante, a partire dalla prima raccolta del 1932 –  Realtà vince il sogno –, Betocchi descriveva la vita quotidiana delle città, dei cantieri, delle officine e dei campi, gli affetti domestici i panorami sereni e colorati, dal cielo cristallino e dalle campagne verdi, manifestando una lieta serenità verso l’esistenza e un affettuosità fraterna nei riguardi dei viventi e della natura, restando invece indifferente ai richiami del successo economico e della celebrità mondana: “Al declinare impallidito / ti vedo, giorno infinito; / va la solitaria luna, / terra, sassi, deserta schiuma”.

Di questo primo periodo poetico, Giovanni Raboni sottolineò “la profonda veridicità, la natura essenzialmente, intimamente realistica”, venuta trasformandosi nel tempo in senso “disperatamente diaristico e introspettivo”. Ne è testimonianza l’evidente cambio di registro stilistico negli argomenti spirituali, che da una religiosità naturale e festosa passa all’interrogazione cupa e dolorosa della stagione finale, messa a dura prova da lutti e malattie, quando la fede divenuta meno candida e festosa, si fa più intima, interrogante e dubbiosa: “Oh, da vecchio, andarsene con i lunghi passi della prosa! (…) Diranno: – Com’è cambiato! È diventato un altro!”, “Lascio me stesso a me stesso, / un disutile arnese: / meglio ancora: non lascio nulla, non esisto”, “Silenzio. È la mia vita / che dice silenzio. / Non dimentica, ma tace”.

Carlo Betocchi morì a Bordighera, il 25 maggio 1986, quai novantenne. Le sue poesie sono state raccolte in diverse antologie, edite dai nostri maggiori editori. La pubblicazione più recente si deve a Garzanti, e riporta giudizi e recensioni ammirate di molti critici e poeti.

Così ne scrive Pasolini, ad esempio: “poesia piena di pace, verrebbe voglia di dire di benessere… inspiegabilità dovuta a un suo anacronismo… attenzione per le cose… pansensualismo che si identifica col panteismo… assoluto impegno umano… virile tenerezza … ininterrotto sentimento del divino…”.

E Mario Luzi: “L’umiltà è in Betocchi la coincidenza di un fervido e innato sentimento creaturale con una vigorosa e davvero rivoluzionaria intuizione conoscitiva e creativa”, Carlo Bo ne esalta soprattutto la figura umana: “Non ho mai visto tanto naturale distacco nei confronti della propria piccola fama, così come non mi è mai capitato di trovare una così piena corrispondenza fra l’uomo e il poeta”. Mentre Luigi Baldacci parla di “religiosità creaturale… magico quotidiano … perpetua meraviglia”. Infine Andrea Zanzotto: “quotidianità e brusca umiltà verso il mondo… sghemba allegria… consolazione e insieme gioia, anche un po’ stranita… luce e letizia”.

Luce, letizia, meraviglia, umiltà, benevolenza: ovviamente non si parla di un santo o di un monaco, ma di un poeta dallo sguardo capace di posarsi con trasparenza e lievità sulla realtà circostante, non sterminata materialmente, ma spiritualmente profonda e vitale.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 6 giugno 2024

 

 

 

RECENSIONI

GUARDINI

ROMANO GUARDINI, RITRATTO DELLA MALINCONIA – MORCELLIANA, BRESCIA 2022

Un breve testo prezioso, questo Ritratto della malinconia di Romano Guardini, pubblicato in Germania nel 1928 e tradotto in Italia dalla casa editrice Morcelliana nel 1952, riproposto quindi in diverse edizioni fino alla più recente del 2022. Mantiene ancora oggi tutto il suo fascino di riflessione filosofica profonda, di scrittura elegante e sensibile, nell’affrontare un tema spesso indagato sia artisticamente sia psicanaliticamente, ma trascurato nella sua più elevata dimensione metafisica.

Teologo, filosofo e sacerdote, nato a Verona nel 1885 ma vissuto in Germania fino alla morte nel 1965, Guardini fu titolare di cattedre universitarie a Berlino, Tubinga e Monaco: perseguitato dai nazisti dovette a più riprese sospendere l’insegnamento. La sua vastissima produzione – che esprime una fine sensibilità artistica oltre che una forte ispirazione religiosa – è tutta intesa a prospettare, senza intenti sistematici, una concezione cattolica del mondo direttamente impegnata di fronte alle problematiche sociali ed esistenziali della vita moderna.

L’incipit del saggio non conosce addolcimenti retorici o diplomatici: “Troppo dolorosa è la malinconia e troppo a fondo spinge le sue radici nel nostro essere di uomini, perché la si debba abbandonare nelle mani degli psichiatri”.

Il riferimento obbligato è già dalle prime pagine quello al filosofo danese Sören Kierkegaard, alla sua “nostalgia divorante… vaga e informe”, immotivata, inspiegabile in un giovane uomo amato in famiglia e dagli amici, stimato intellettualmente, privo di inquietudini economiche o problemi di salute, ma in uno stato di perenne angoscia, incapace di cercare conforto e aiuto negli altri, di comprendere il mondo e sé stesso, consegnandosi alla gioia.

Secondo Guardini, nella malinconia “più che altrove si manifesta la criticità della nostra condizione umana”; essa nasce da una particolare vulnerabilità e sensibilità che rende indifesi rispetto alla spietatezza stessa dell’esistenza, alla sofferenza diffusa ovunque, tra gli uomini e nella natura. Nel malinconico esiste una sproporzione tra le cause di circostanze effettivamente negative e l’effetto che esse producono nell’animo: “Il male non sta nelle occasioni e nei conflitti esteriori, sta proprio nell’intimo; in una specie di affinità elettiva con tutto quello che può ferire”. In genere la malinconia si associa a una disistima di sé, a una scarsa consapevolezza del proprio valore che provoca timidezza e imbarazzo nelle frequentazioni sociali, nonostante l’aspirazione ad affermarsi e al riconoscimento avvertiti acutamente. Ciò porta a uno stato di insoddisfazione e di continuo auto-tormento, che induce a desiderare il proprio totale fallimento o addirittura la morte. Intuire la grandezza dei valori positivi, anziché produrre entusiasmo e desiderio di agire, può avere effetti disgreganti, soprattutto negli artisti che aspirano a ottenere la perfezione nelle loro opere, o nei religiosi che mirano alla santità: il senso di inadeguatezza e di colpa che derivano dal non raggiungimento degli obiettivi assume contorni autodistruttivi, costringendo il soggetto al nascondimento, alla solitudine.

Eppure, questo stato d’animo di “oscura tristezza” nasconde spesso tesori di profondità intellettuale, di volontà di raccoglimento, di indifferenza verso la superficialità e l’esteriorità, di attitudine alla gentilezza e alla benevolenza: segretamente vi si cela un desiderio inappagato di amore e bellezza, la nostalgia del bene e dell’eterno. Ma tale aspirazione all’assoluto si scontra con la consapevolezza della vanità e della transitorietà delle cose.

Medici e psicologi danno spiegazioni limitate e oggettive riguardo all’incapacità del malinconico di adeguarsi al reale, insistendo soprattutto su complessi relativi alla sessualità o a traumi infantili. Per Romano Guardini, uomo di fede e grande interprete di testi poetici, “la malinconia è l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito. Beatitudine e minaccia a un tempo”. E suggerisce un rimedio per guarirne: radicarsi nella realtà, accettarla nei suoi limiti, accogliendo senza preclusioni la propria esistenza di confine tra materia e spirito, di creatura vincolata dalla propria condizione umana.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net           5 giugno 2024

RECENSIONI

VOLPONI

PAOLO VOLPONI, POESIE – EINAUDI, TORINO 2024, p. 481

Einaudi pubblica l’intero corpus poetico di Paolo Volponi a cura di Emanuele Zinato, professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Padova, con una densa introduzione (L’eroismo della volpe), una bibliografia ragionata, una puntuale nota biografica, e una nota finale di Giovanni Raboni. Il volume, già uscito nel 2001 con il titolo Poesie 1946-1994, presenta due importanti novità, oltre alla segnalazione dei contributi critici dell’ultimo ventennio: la pubblicazione integrale della prima raccolta di versi dello scrittore urbinate, Il Ramarro, e l’inclusione di nove testi inediti.

Paolo Volponi deve la sua fama in particolare alla produzione narrativa (otto romanzi dal 1962 al 1991, vincitori di due Premi Strega), che però è sempre stata accompagnata dalla scrittura in versi, scandita in sei libri dal 1948 al 1990.

Nella prima opera, Il ramarro – composto da quaranta frammenti pubblicati in una plaquette di 120 esemplari, con introduzione di Carlo Bo –, era prevalente la misura breve, il dettato semplice, l’assenza di rime, l’eredità dei lirici greci filtrata dagli echi dell’ermetismo italiano e dalla lirica contemporanea spagnola. Temi prevalenti erano l’eros e il corpo, descritti con sentimenti ambivalenti tra attrazione e repulsione (“Mi fa schifo / tenerti in bocca”), e l’attenzione per l’ambiente animale e vegetale, vibrante di acuta recettività sensoriale (“Io sento / il rumore dell’ossatura delle cose”).

La seconda raccolta del 1955, L’antica moneta, vincitrice del Premio Carducci ex aequo con Pasolini, manteneva l’interesse per le stesse tematiche, arricchite da una maggiore considerazione verso paesaggi differenti, come quelli romani e meridionali, che il poeta aveva imparato a conoscere dopo aver lasciato Urbino ed essere stato assunto da Adriano Olivetti, con l’incarico di effettuare una serie di inchieste nell’Italia del sud. Emergono inoltre spunti di esplorazione autoanalitica in costante riferimento alla vastità dello spazio siderale, oscillanti tra rigore logico e rapimento inebriato: “È una notte / facile ed inconsueta, così luminosa / che una cometa s’indovina / dietro l’orizzonte. / Tu sei di vetro, / io vedo le mie mani / dietro la tua nuca”.

Le porte dell’Appennino (1960), premiata al Viareggio, accentuava invece una disposizione di stampo sociale e antropologico – probabilmente incoraggiata dalla frequentazione dell’autore con gli impegnati redattori della rivista “Officina” –, indirizzando i contenuti in senso epico e narrativo, e la struttura formale nella direzione del poemetto. Qui Volponi valutava soluzioni destinate a essere recuperate nella composizione dei romanzi più noti. Ad esempio gli elementi biografici e familiari (“Quando io sono nato / mio padre non c’era”), collocati in uno scenario storico-collettivo, e addirittura cosmico, nella volontà di distanziarsi dal privato per assumere valenze universali. Non solamente l’ambiente domestico viene descritto con la tecnica del racconto e del saggio in versi, ma anche il persistente dissidio tra l’attaccamento ai luoghi originari e il desiderio di allontanarsene, inserito nella condizione più generale dell’abbandono delle campagne e dell’inurbamento, tipica degli anni ’60: “l’immagine di Urbino / che io non posso fuggire, / la sua crudele festa, / quieta tra le mie ire. // Questo dovrei lasciare / se io avessi l’ardire”.

Passeranno quattordici anni, durante i quali andava consolidandosi la fama del Volponi romanziere, prima della pubblicazione di Foglia mortale (1974), contenente cinque componimenti scritti tra il ’62 e il ’66, stilisticamente connotati non solo da un recupero di tonalità leopardiane, ma soprattutto da un’intenzionalità pedagogica, con l’invenzione di un destinatario adolescente, fortemente autobiografico (il “por bordel”), da avvicinare mediante l’uso di termini dialettali, fiabeschi e cantilenanti: “Tu te rovini, tu te rovini, bordel, tu te rovini / se non scarpini”, “Burdel, né orto né porto, / niente ti potrà salvare / se  tu non rompi il sigillo / che imprime la tua pena”.

Nel 1980 Einaudi riproponeva tutto il corpus poetico volponiano in un unico volume, Poesie e poemetti 1946-1966, con postfazione di Gualtiero De Santi, riguardo a cui diversi critici espressero giudizi concordi nel sottolineare le varie stratificazioni linguistiche e formali, dal timbro elegiaco a quello prosastico, insieme al motivo esistenziale dell’esilio dalle radici natali, fecondante tutta la produzione narrativa posteriore.

Con testo a fronte, quinto volume di poesia fortemente caratterizzato teoricamente, apparve nel 1986, e fu subito accolto dai pareri favorevoli di Bo, Ramat, Santato, Papini, De Santi, Raboni, Asor Rosa, Fortini, che ne evidenziarono il lirismo visionario animato da robusti accenti corali e arcaici, leggibile sia attraverso categorie psicologiche e introspettive, sia ancora utilizzando la motivazione sociologica del contrasto tra mondo rurale (con la presenza insistita di figure ornitologiche) e mondo aziendale-cittadino: “aquila è nel linguaggio industriale / l’imprenditore il presidente il capo”.

Infine, la svolta rappresentata dall’ultimo libro di versi Nel silenzio campale (1990) consisteva nel prevalere dell’allegorismo e della tematica politica, con l’impiego martellante della rima utilizzata in maniera talvolta parodistica, a segnare l’approdo coerente della ricerca letteraria ed etica dell’autore, in un generoso lascito intellettuale: “Se qualcosa di me ancora vale / debbono tale cosa prenderla gli altri, / impiegarla e trarne profitto presente e reale”.

Nel centenario della nascita di Paolo Volponi, questo corposo volume einaudiano rende omaggio a un poeta che ha saputo traghettare in un’esemplare e celebrata narrativa le sue “inquietudini da selvatico” e da “devoto dirigente”, esprimendo il dramma antropologico novecentesco dell’alienazione produttivistica e dell’urbanizzazione, attuata a discapito dell’ambiente naturale.

 

© Riproduzione riservata                «L’Indice dei Libri del Mese» n. VI, giugno 2024