Mostra: 1 - 10 of 1.630 RISULTATI
INTERVISTE

AIRAGHI

Le radici erano troppo profonde. Alida Airaghi

 

di Redazione
Gennaio 2025

INTERVISTE www.poetipost68.it
“io custode non di anni ma di attimi”
il collettivo poetipost68 chiede

In che anno della storia del Novecento sei nata? Assume per te un significato privato oltreché pubblico questa data?

Sono nata a Verona nel giugno del 1953, in piena guerra fredda, dunque. Si contrapponevano i due blocchi USA e URSS, proprio in quell’anno segnati da due avvenimenti significativi: la condanna a morte dei coniugi Rosenberg, accusati dagli americani di essere spie russe, e la morte di Stalin in Unione Sovietica. Clima politico internazionale gelido, clima affettuosamente caldo all’interno della mia famiglia cattolica, medioborghese, attenta e partecipe alla crescita di noi tre bambine, ma altrettanto rigorosa nell’educarci. Ambiente ovattato e protetto, per cui mi sono accorta della turbinosa temperie esterna solo alla fine del liceo classico, frequentato nel severo istituto napoleonico del Maffei, quando mi sono iscritta nel 1972 alla facoltà di Lettere Classiche all’Università Statale di Milano. Si respiravano le inquietudini del ’68, era già avvenuta la strage di Piazza Fontana, e poi la morte di Pinelli e Calabresi; iniziavano gli anni di piombo con il terrorismo rosso e nero. Dopo un’adolescenza vissuta cattolicamente tra Gioventù Studentesca, Mani Tese, volontariato, il mito del cristianesimo del dissenso e di Simone Weil, negli anni universitari ho provato a liberarmi dall’educazione formale e religiosa ricevuta sia affrontando diverse esperienze lavorative, anche umili e di fabbrica, sia collaborando alla pagina culturale del Quotidiano dei Lavoratori. Non credo di esserci riuscita, le radici erano troppo profonde, e caramente vincolanti.

Hai avuto delle madri e dei padri in poesia, o nel corso della tua formazione?

Già dalle elementari e alle medie amavo studiare a memoria le poesie imposte a scuola: Gozzano, Pascoli, Ada Negri, Titta Rosa, Pezzani… Affascinata soprattutto dalla musicalità e dalla rima, di cui ancora oggi patisco la dipendenza. Poi c’è stato l’incontro con i cantautori: De André, Gaber, Lauzi e soprattutto Tenco ed Endrigo, di cui imparavo appassionatamente i testi, accompagnandomi con la chitarra, che ho studiato anche nel repertorio classico. Dopo il ginnasio ho iniziato una corrispondenza con il poeta Siro Angeli, scoperto in un’antologia scolastica. Quante lettere? Mille, forse, nel corso di tutto il liceo, l’università, la convivenza, il trasferimento a Zurigo, il matrimonio, fino alla sua morte. La mia cultura letteraria la devo tutta al suo insegnamento, la mia crescita umana al suo esempio morale, il mio amore e il mio dolore alla felicità e alle difficoltà del nostro stare insieme, socialmente stigmatizzato per l’abisso di anni che ci divideva, ma reso più forte dal forte legame affettivo-intellettuale e dalla gioia orgogliosa che ci davano le nostre bambine. Negli anni universitari avevo conosciuto a Milano Giudici e Majorino, e da allora mi sono immersa nella lettura della poesia italiana del ’900. Oggi amo leggere e rileggere Eliot e Rilke.

Esiste a tuo avviso un legame tra Poesia e Storia?

Viviamo di storia e nella storia, come potremmo ritenercene avulsi? Me ne sono occupata in poesia soprattutto nel primo libro pubblicato da Bertani nell’86, Rosa rosse rosa, che risentiva delle atmosfere politicizzate e femministe della Milano degli anni 70-80, e poi negli Omaggi einaudiani del 2017 (con i testi dedicati a Luzi, Zanzotto, Pasolini, Pagliarani) e infine nel volume più recente, Quanto di storia, che ripercorre gli avvenimenti politici che hanno attraversato la mia esistenza a partire dalla giovinezza. Ma, se devo essere proprio sincera, l’osservazione della realtà mi ha sempre fatto soffrire (Eliot scrive “human kind / Cannot bear very much reality”), e amo soprattutto riflettere su ciò che sta “oltre” il reale. In tutti gli altri miei libri prevalgono interessi filosofici e teologici.

Che significato assume, nel tuo orizzonte culturale e artistico, la parola “generazione/i”? E in che modo l’esperienza personale, privata, biologica, influenza l’idea di “generazione”?

Non ho mai dato grande rilievo al concetto di generazione, anzi, mi sono sempre trovata più a mio agio con i bambini e gli anziani che con i miei coetanei. Mi è sembrato di poter imparare di più da loro, dall’ingenuità e dalla libertà di giudizio dei piccoli e degli adolescenti, dalla saggezza dei vecchi. Avverto nel termine “generazione” qualcosa di limitato e artificioso.

Quale idea hai del concetto di trasmissione e di tradizione? E in cosa consiste il tuo “scarto” rispetto ai modelli poetici e letterari a cui è legata la tua formazione?

Essendo stata insegnante, sono consapevole dell’importanza fondamentale di entrambi i concetti. Non so quanto posso trasmettere ai più giovani con la mia scrittura, non credo di avere alcuna autorità o sapienza particolare da esprimere. Mi sento invece totalmente inserita nel solco della tradizione poetica italiana del Novecento, senza aver osato “scarti” originali e innovativi.

Che funzionamento ha la tua memoria come traduzione, invenzione, rimozione, riconsiderazione – rispetto all’automatismo e al controllo formale del linguaggio?

Tendo a non proiettarmi nel futuro, che ovviamente vedo come molto ridotto rispetto al tempo che ho vissuto. La memoria è un’ancora, una miniera di significati e significanti, sia nello scandaglio arricchente, sia nel distanziamento sospettoso. Non mi spaventa l’idea di essere considerata fuori moda o passatista, mi attira poco lo sperimentalismo linguistico.

Quale funzione ha nella tua produzione la prosa (sia essa narrativa, critica e/o teoretica) e quale rapporto intesse con la poesia?

Alterno nella produzione e nella pubblicazione poesia e prosa, ho scritto cinque libri di racconti e tre romanzi brevi, più di 1500 recensioni. In poesia mi sono spesso cimentata nella forma del poemetto narrativo. Mi sembra giusto e produttivo che i diversi stili, le varie strutture formali si intersechino, influenzandosi a vicenda.

Quale rapporto ritieni di avere con le nuove generazioni di poeti, e come percepisci le nuove forme di poesia? Puoi descriverci qual è il tuo sentimento del futuro collettivo?

Sono troppo anziana per apprezzare l’improvvisazione del poetry slam, mi sento ancora molto legata al labor limae, come forma di rispettoso impegno verso il testo scritto e verso chi legge. Dei poeti più giovani apprezzo alcuni nomi, anche se mi dà un po’ fastidio questo raggrupparsi in cementate ed elitarie consorterie, che escludono apporti esterni nei vari blog e riviste, in aggiunta a una propensione esasperata verso l’autopromozione e l’esibizione spettacolare di sé. Devo fare molta attenzione quando provo a recensire i loro libri, sono permalosamente suscettibili anche alla critica più innocua e benevola. Tendo quindi a scrivere solo di poeti stranieri o morti, a scanso di venire sfidata a duello!

 

© Riproduzione riservata       www.poetipost68.it, gennaio 2025

RECENSIONI

GALGUT

DAMON GALGUT, LA PREDA – E/O, ROMA 2024

Dello scrittore sudafricano Damon Galgut (Pretoria 1963), autore di libri di grande successo come The Good Doctor e The Promise, la casa editrice E/O ha pubblicato uno dei primi romanzi, La Preda del 1995, che certo non demerita rispetto alle opere successive.

I suoi 56 capitoli brevi, a volte brevissimi, e lo stile steinbeckiano, paratattico, seccamente oggettivo, rendono facile e veloce la lettura, in modo tale che è soprattutto l’accavallarsi rapido degli avvenimenti ad assorbire ogni curiosità di chi legge, direzionandola verso la conclusione, forse intuibile ma non scontata.

“Li guardò e loro lo guardarono e poi entrambi si guardarono l’un l’altro”; “Erano in un capannone attiguo alla casa. Erano Valentine e Small. Erano fratelli”; “E il caldo. E l’attesa. E gli occhi”. Due esempi tra in tanti che si potrebbero fare del metodo di scrittura, scarno nei dialoghi ridotti all’osso ritmato e contenuto dalla frequenza dei punti fermi, con cui Galgut procede scandendo la narrazione. Eppure, il suo studio dell’ambiente, dei personaggi, degli oggetti, è comunque attento e vigile. Le strade sterrate tra erbacce e canneti bruciati dal vento; il litorale sabbioso che scivola verso il mare appena increspato; il veld brullo, spezzato da fossi; il mondo animale in genere abbrutito o comunque disgustante (corvi, manguste, termiti, scarafaggi, cani randagi, pipistrelli); gli esseri umani perlopiù sovrappeso, sudati, oppure scheletriti, con le mani screpolate, il viso macchiato di nei e brufoli; suppellettili sformate, finestre e porte sgangherate. Tutto, insomma, sembra voler sottolineare la desolazione del mondo circostante, su cui implacabili si abbattono improvvise piogge torrenziali oppure arde un sole “giallo e costante”.

Su questo sfondo si stagliano poche, memorabili figure. La vicenda si apre con il protagonista senza nome che cammina, impaurito e stravolto dalla stanchezza, lungo una strada polverosa, probabilmente fuggendo da qualcosa: piange, ha mani e bocca piene di vesciche. Lo affianca un furgone guidato da un uomo tarchiato e quasi calvo: è un prete diretto verso una parrocchia rimasta temporaneamente vacante. Si chiama Frans Niemand, gli offre un passaggio, pagandogli una doppia colazione in una sala da tè. Quando in seguito tenta un maldestro approccio sessuale, lo sconosciuto gli spacca le testa con una bottiglia e trascina il cadavere in una cava. “La cava era nera, un’assenza nella superficie del mondo”. La cava, il burrone, la buca, la miniera dismessa, tornano spesso nell’arco della storia come metafora del nascondimento, del rimosso e del sepolto, così come il continuo lavarsi le mani, la faccia e il corpo di tutti i personaggi indica il tentativo di liberarsi di qualsiasi sporco possa essersi incrostato sulla pelle e nell’anima.

L’assassino decide di sostituirsi al sacerdote ucciso, dirigendosi verso la missione che gli era stata assegnata con il veicolo stipato di valigie, paramenti e testi sacri. “La città era piccola e dispersa e brutta. Prevaleva una sterilità di cemento. Le strade principali erano state asfaltate molto tempo prima, ma le strade secondarie erano di ghiaia. Niente era più alto di un piano”. Una donna in vestaglia lo accoglie in canonica, indicandogli con indifferenza la camera da letto. Svegliatosi nel tardo mattino, scopre che il furgone è stato svaligiato, e alla stazione di polizia dove si reca per la denuncia fa la conoscenza con il Capitano Mong. Tra i due inizia da questo momento un duello fatto di reciproci sospetti, pedinamenti, fughe, in uno scambio di ruoli tra preda e predatore, vittima e carnefice, in cui i confini di colpa e rettitudine, perdono e punizione si confondono.

Nel paesino di pescatori “taciturni e diffidenti”, il falso prete si investe del ruolo religioso usurpato dicendo messa e preparando le omelie, mentre intorno a lui l’atmosfera si incupisce sempre più opprimente quando nella cava viene ritrovato il corpo del sacerdote assassinato.

La seconda parte del romanzo assume una struttura sempre più concitata, in cui episodi violenti e inattesi si susseguono, accompagnati da uno stile ansimante, franto, punteggiato da dialoghi confusi di protagonisti e comparse, in una narrazione che continuamente ripercorre e ricostruisce il già detto. Processi farsa, poliziotti maldestri, incendi dolosi, arresti ed evasioni, inseguimenti ed esecuzioni sommarie, vengono accompagnati dalla musica euforica diffusa da un circo di saltimbanchi straccioni. L’inseguimento tra il Capitano esausto e il falso prete fuggiasco diventa emblematico dell’eterna contesa tra verità e finzione, bene e male, quando il reale sfrangia i suoi contorni in filamenti ingarbugliati, e le sembianze concrete di corpi e oggetti si trasformano in allucinazioni ossessionanti. Lo sfondo in cui si colloca lo scontro finale incombe minaccioso tra dighe e dirupi, paludi e alture, nella solitudine spettrale in cui i due uomini si fronteggiano. “Quando il poliziotto risalì fuori dalla diga, anche lui si rialzò e proseguì. Non era più sicuro che ci fosse una differenza tra loro o che fossero separati l’uno dall’altro e si spostarono insieme sulla superficie del mondo e il sole tramontò e si fece buio e continuarono a duettare. Si muovevano nella notte in vaghi contorni come i sogni che il suolo stava facendo”.

La vicenda narrata da Damon Galgut si fa allora metafora di una condizione esistenziale in cui tutti diventano malvagi torturatori e insieme pietose vittime, e il finale livellante non libera nessuno dalla colpa di vivere.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 15 gennaio 2025

 

 

 

RECENSIONI

OMODEI

ANTONIO FILOTEO OMODEI, RIME – IL CONVIVIO, CASTIGLIONE DI SICILIA (CT) 2024

Il Professor Giuseppe Manitta, poeta e studioso di testi classici della nostra letteratura (da Boccaccio a Leopardi a Carducci, fino al Novecento), direttore editoriale del marchio Il Convivio, ha curato l’edizione critica, l’introduzione e il commento delle Rime di Antonio Philotheo Homodei, scrittore siciliano del 1500.

Il corposo volume di seicento pagine, costato a Manitta più di dieci anni di lavoro, colma un’importante lacuna degli studi sul petrarchismo rinascimentale, poiché il corpus poetico di Omodei è rimasto inedito per secoli, nonostante l’autore fosse ben inserito nel dibattito letterario a lui coevo: riscoperto dallo stesso Manitta con il recupero del manoscritto autografo Capponiano 139, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, vede finalmente la luce con questa pubblicazione.

Philotheo Homodei, poeta, narratore ed erudito di pregio, era nato a Castiglione di Sicilia, in provincia di Catania, intorno al 1515, e dopo gli studi universitari di letteratura e giurisprudenza aveva lasciato la sua terra per approdare a Roma, inserendosi negli ambienti culturali della città papalina, dove concentrò la sua attività letteraria tra il 1550 e il 1650, pubblicando un romanzo, una Descrizione della Sicilia, la Vita della beata Chiara da Monte Falco e il Canzoniere intitolato Romana Aetna Travolta. Il soggiorno romano di Omodei si rivelò da subito foriero di arricchenti opportunità di studio e di frequentazione con molte personalità di rilievo, tra cui Annibal Caro, molti ecclesiastici, dame e nobiluomini della corte di Ippolito II d’Este. Tra il 1568 e il 1570 il poeta venne poi coinvolto in un processo intentato all’ autore di un libello contro il papa Paolo IV, episodio che segnò il suo declino come intellettuale, mettendolo in cattiva luce presso gli inquisitori. Un’ulteriore motivazione riguardo all’oblio in cui sprofondò il suo nome fu l’errata attribuzione delle sue opere per una quasi omonimia con Giulio Filoteo, questione dibattuta durante tutto il XVIII secolo.

Il Codice Capponiano 139 da cui Giuseppe Manitta ha recuperato il corpus delle Rime, era autenticamente autografo, scritto in bella grafia e preparato per la stampa, con copertina cartonata e rivestita in cartapecora, suddiviso in quattro parti. Dedicataria era la donna amata da Omodei, Antea, il cui nome fu traslato dal poeta in Aetna in omaggio alla sua Sicilia. Il sentimento provato per la colta dama romana si trasformò da un amore vivo e partecipato a improvvisa freddezza, anticipatrice dell’abbandono: da bruciante come la lava etnea fino al gelo della neve, testimoniato dai vari sonetti di stile petrarchesco della prima parte del Codice: “Laccio non mai sì stretto strinse Amore, / Nel dolce inganno, e mai sentì tal foco / Vulcano, Aetna, e Vesuvio, od altro loco, / A par di quel mi stringe, e bruggia il core. // … Te sol al mondo adoro, cerco, et amo”.

Già nella seconda parte, il nome della donna non compare più, sebbene le poesie sentimentali siano ancora predominanti, e invece continua a prevalere l’imitazione dell’Aretino: “VOI ch’ascoltate in rime sparse, il suono / Del mio fiero languir, con tanto Ardore…”. Nella terza parte il modello ispirativo è quello dei Trionfi, mentre nell’ultima sezione l’artificio retorico è più evidente nella costruzione di acrostici riferiti ai personaggi illustri conosciuti a Roma.

Omodei usava celare il suo nome e quello dell’amata con pseudonimi anagrammati, in una sorta di gioco linguistico che comunque traeva sempre ispirazione dal Petrarca, attraverso furti, ricalchi e riprese dei versi più noti, sia nella struttura (metrica e rime) che nel lessico. Ma la tradizione petrarchesca veniva spesso rimodulata da Omodei, e messa in relazione a citazioni di una tradizione diversa, e a poeti coevi che si muovevamo nello stesso ambito imitativo. La puntuale e approfondita introduzione del curatore Giuseppe Manitta ne offre particolareggiata testimonianza, insieme ad altri prestiti danteschi, ariosteschi, da Pulci e Sannazaro, indicativi di quanto l’autore da lui preso in considerazione fosse esemplarmente inserito nella produzione letteraria cinquecentesca.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 6 gennaio 2025

INTERVISTE

MARCHAND

INTERVISTA AL PROFESSOR JEAN-JACQUES MARCHAND

di Alida Airaghi

 

Il professor Jean-Jacques Marchand, Accademico della Crusca e ideatore del Progetto internazionale Baslie, risponde ad alcune domande sull’importante opera di catalogazione dei testi letterari prodotti dagli italiani all’estero

I Gennaio 2025 – Gli Stati Generali

Logo_ACCADEMIA DELLA CRUSCA | Storie di Storia

Nato nel 1944, da padre svizzero e da madre fiorentina, Jean-Jacques Marchand ha studiato a Losanna e a Firenze. È stato ordinario di letteratura italiana all’Università di Losanna fino al 2006 ed è adesso Professore emerito. Docente invitato in varie università svizzere e straniere, i suoi ambiti di specializzazione sono il Rinascimento (Machiavelli, la poesia di corte del Quattrocento) e il periodo contemporaneo (la letteratura degli emigrati di lingua italiana nel mondo, gli autori della Svizzera italiana). Ha pubblicato una ventina di volumi e circa 150 articoli. Ha organizzato vari convegni internazionali, in particolare sul Rinascimento fiorentino come Machiavelli storico politico e letterato (1995), Storiografia fiorentina tra Quattro e Cinquecento (2002) e Machiavelli senza i Medici, Scrittura del potere / potere della scrittura (2004). Una ricerca da lui diretta è sfociata nella pubblicazione: Dalla storia alla politica nella Toscana del Rinascimento (Roma, 2005). Ha fatto parte del comitato dell’Accademia svizzera di scienze morali e del Consiglio di Fondazione del Dizionario Storico della Svizzera. È membro del comitato scientifico per l’Edizione Nazionale delle Opere di Machiavelli e del Consiglio direttivo dell’Enciclopedia Machiavelli (Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani), per la quale ha scritto una dozzina di voci. Ha pubblicato nel 2018 due volumi di Studi machiavelliani (Firenze) e la voce “Machiavelli” nella decima Appendice dell’Enciclopedia Treccani. È membro di vari comitati di redazione, tra cui “Storici e cronisti di Firenze”, “Centro Camporesi” e “Medioevo e Umanesimo”; è presidente della commissione “Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana”. È Accademico della Crusca e Corrispondente della Classe di Lettere e arti dell’Accademia Olimpica di Vicenza.

 

Jean-Jacques Marchand | University of Lausanne - Academia.edu

 

Professor Marchand, a quando risale la sua affiliazione all’Accademia della Crusca Italiana? Immagino che questa nomina l’abbia colmata di gioia e legittimo orgoglio: non penso siano molti gli stranieri che ne fanno parte…

Sono stato eletto accademico corrispondente estero dell’Accademia della Crusca nel 2017. È stata una vera sorpresa: sono certo un filologo che ha lavorato all’edizione di testi in prosa e in poesia, prevalentemente del Rinascimento, ed ho avuto perciò a che fare con la lingua italiana, ma non sono un linguista puro. La gioia è stata quella di pensare che l’amore per la lingua italiana che i miei genitori, e mia madre fiorentina in particolare, mi avevano inculcato, mi aveva portato a questo riconoscimento, riservato a pochi, dato che gli accademici corrispondenti esteri per tutto il mondo sono un po’ più di una trentina.

 

Il suo amore per la letteratura italiana, in particolare per il Rinascimento fiorentino, è nato negli anni universitari, o le era già stato inculcato nell’infanzia dall’educazione materna?

Il mio amore per la letteratura italiana risale certamente all’educazione materna. Visto che ero nato e frequentavo una scuola di lingua francese, mia madre si è premurata fin dai primi anni di trasmettermi l’amore non solo per la lingua, ma anche per la cultura italiana in senso ampio. Quando ero ancora piccolo, la mamma passò spericolatamente dalla lettura di Cuore di De Amicis ai Promessi Sposi manzoniani, che ascoltavo come un romanzo d’avventure! Contemporaneamente avveniva la scoperta delle città d’Italia, grazie ai meravigliosi album di foto del Touring Club Italiano, seguita dall’iniziazione all’opera, di cui, in mancanza di dischi, la mamma mi raccontava l’intreccio, illustrandomelo con arie che aveva imparato frequentando il Maggio musicale fiorentino. Poi ci fu l’incontro, all’inizio dei miei studi universitari, con Fredi Chiappelli, un brillante professore di letteratura italiana, che mi prese subito come assistente, facendomi presto trascrivere centinaia e centinaia di lettere amministrative e diplomatiche di Machiavelli. Negli anni seguenti, mi cimentai con una sfida filologica: l’edizione critica in cinque volumi dell’opera poetica, allestita con una collega messinese, delle Rime di Antonio Tebaldeo. Nel frattempo, ci furono i concorsi universitari, fino alla nomina a professore straordinario nel 1983: una cattedra ancora parziale che venne completata nel corso degli anni fino all’ordinariato…

All’interno dell’Accademia, quale è stato il suo ruolo nell’ideazione del Progetto Baslie? In cosa consiste tale programma? È stato difficile farlo accettare dagli altri membri della Crusca?

Il progetto BASLIE nasce nel 1990 all’Università di Losanna dove insegnavo, da un altro filone delle mie ricerche: le opere scritte da emigrati o da residenti italiani all’estero. Era un fenomeno letterario praticamente ignoto all’epoca, sebbene fosse costituito da migliaia di testi pubblicati praticamente su tutti i continenti, e prevalentemente in Europa, nelle due Americhe e in Australia. Faceva seguito a un convegno internazionale che avevo organizzato poco prima a Losanna. Allestito e sviluppato con pochi mezzi finanziari e tecnici, venne ampliato negli anni seguenti fino verso il 2010. Ma, se per i paesi europei la copertura raggiungeva un buon livello, per gli altri continenti le lacune erano ancora notevoli. Il mio ingresso alla Crusca, e l’inserimento fra gli “Scaffali digitali” dell’Accademia della BASILI, creata dal prof. Armando Gnisci all’università di Roma, sul modello e come “pendant” della BASLIE, in quanto registra le opere scritte in italiano da immigrati venuti a vivere e lavorare in Italia, mi ha spinto a proporre la migrazione della nostra banca dati alla Crusca. L’operazione ha richiesto un ripensamento totale della struttura per adeguarla alle norme dell’Accademia, un controllo sistematico delle schede e un loro parziale aggiornamento. Attualmente la BASLIE censisce circa 700 opere per 440 autori.

 

Quali prospettive di sviluppo si pone Baslie? Su quanti collaboratori sparsi per il mondo può contare?

 La BASLIE andrà sviluppata in due direzioni: l’ampliamento del censimento, a partire dalle prime manifestazioni del fenomeno alla fine dell’Ottocento, nelle due Americhe e in Australia due continenti di forte emigrazione italiana (e forse anche in Africa durante gli anni della colonizzazione) e, d’altra parte, l’aggiornamento per tutti i paesi, in particolare europei, sulle opere uscite negli ultimi 20-30 anni. Lo sviluppo dovrà anche tenere conto delle nuove forme di spostamento e di lavoro degli italiani all’estero – fra le decine di migliaia d’italiani che partono ogni anno all’estero sono convinto che alcuni scrivono e pubblicano ancora testi di intento letterario – e di nuove forme di pubblicazione dei testi sempre più frequentemente on line su siti o blog, come questo. Occorrerà ricostituire una rete di collaboratori in vari paesi come quella che avevamo ancora alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. La Crusca non disponendo di finanziamenti ad hoc, dovremo contare molto sul volontariato di studiosi, e magari su qualche contributo di ricerca, come quello che ci è stato recentemente concesso dall’università di Losanna.

 

Crede che lo studio della lingua e della letteratura del nostro Paese sia destinato ad avere un      incremento, in questo particolare periodo storico in cui è l’inglese a dominare qualsiasi modalità espressiva a livello internazionale?

 Non mi faccio molte illusioni sull’incremento dello studio della lingua e della letteratura italiana, vista la prevalenza assoluta e sempre più imperante dell’inglese; ma credo che le posizioni della nostra lingua nel mondo non siano vicine all’implosione. Anche se gli italiani che si recano all’estero usano di solito l’inglese, è anche vero che numerosi sono gli studenti americani, australiani, giapponesi ed anche cinesi che imparano e usano la nostra lingua. In molto ambiti come l’arte, la moda, la gastronomia, il turismo, l’italiano ha delle posizioni da difendere. Numerosissime sono le persone nel mondo che hanno una conoscenza almeno passiva della nostra lingua.

 

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», I gennaio 2025

RECENSIONI

MAGONI

GIOVANNI BATTISTA MAGONI, SULLE TRACCE DELL’ASSENTE  – ÀNCORA, MILANO 2024

In molti si sono occupati dell’opera del regista polacco Krzysztof Kieślowski (Varsavia, 1941-1996): non solo critici cinematografici, ma anche filosofi, psicanalisti, teologi. Tra di loro, ultimamente Giovanni Battista Magoni, sacerdote pavoniano e direttore della casa editrice Àncora, gli ha dedicato un esaustivo volume, intitolato Sulle tracce dell’assente, che in maniera esplicita si propone di reperire nella sua filmografia possibili tracce di un’alterità che si nasconde e insieme si rivela nell’immanenza delle storie quotidiane.

Kieslowski non si dichiarava né cattolico né ateo, ma era convinto di un suo rapporto personale con Dio, nel suo affidarsi a un cristianesimo senza religione e senza dogmi, eppure segnato da illuminazioni interiori capaci di aprire a riflessioni metafisiche, oltrepassanti la pura materialità dell’accadere. La sua era un’indagine sul senso della vita, sulle sfere della libertà e dell’etica, sul rapporto misterioso e spesso tragico con il destino, sulle inquietudini che animano le scelte umane, rivolgendole a volte casualmente verso il bene o il male. Entomologo dell’anima, il regista polacco esplorava l’interiorità dei suoi personaggi, emblematicamente rappresentativi di problematiche e sentimenti angosciosi e contraddittori (amore e odio, fedeltà e tradimento, stima e disprezzo, coraggio e viltà), studiati attraverso una rigorosa attenzione alle espressioni dei volti, alla segreta simbologia degli oggetti, alla disposizione allegorica delle luci.

I film più famosi di Kieslowski, riconosciuti come capolavori a livello internazionale, sono stati il Decalogo, I tre colori, La doppia vita di Veronica. Magoni li illustra esaurientemente, soffermandosi sulla trama e sugli interpreti, sulla fotografia e le musiche, e approfondendo le motivazioni psicologiche che regolano le azioni dei personaggi, talvolta dettate da impulsi irrazionali, violenti o egoistici, più spesso improntate a indifferenza e sottomissione.

Più della metà del volume è dedicato all’analisi del Decalogo, dieci episodi indipendenti tra di loro e ispirati ciascuno a un comandamento biblico, trasmessi dalla televisione tra il 1987 e il 1989. Erano stati ideati e sceneggiati insieme all’amico avvocato Piesiewicz, in un periodo storico particolarmente buio per il paese, con la dittatura del generale Jaruzelski che opponeva leggi liberticide all’ansia di libertà e democrazia della popolazione. Intento dell’opera era appunto di reagire al clima di disorientamento sociale e di perdita dei valori comunitari, proponendo dieci storie ambientate in un unico condominio, con l’esigenza di stimolare gli spettatori a riappropriarsi delle ragioni più personali e intime delle loro coscienze. L’opera, manifestamente polifonica, ha come protagonista un’umanità incapace di ribellione, in un ambiente depauperato economicamente e culturalmente asfittico e rassegnato. I personaggi intersecano marginalmente le loro vicende private, affacciandosi come comparse in vari episodi, mentre un testimone muto e impassibile attraversa rapidamente, in varie vesti e atteggiamenti, le diverse sequenze: interpretato come l’impotente spettatore, o l’occhio supervisore del regista, o addirittura come impietosa presenza metafisica, rimane forse l’idea più originale di tutta la serie televisiva. In ognuno dei dieci racconti emerge il conflitto tra moralità e desiderio, equità e arbitrio, e l’assenza di Dio appare predominante rispetto alla sua presenza, lasciando che la soluzione dei drammi personali dipenda da un’inspiegabile casualità.

Kieslowski mantiene uno sguardo lucido e distaccato, mai colpevolizzante, sui personaggi, esplorando l’eterno dilemma etico su cosa sia la giustizia, su quale sia l’origine e la finalità del male fatto e subito, nel comportamento umano e nell’indifferenza del fato.

Ne La doppia vita di Veronica, film del 1991, Weronika e Véronique sono due ragazze che vivono biografie distinte, una a Cracovia e l’altra a Parigi, accomunate però da una straordinaria somiglianza fisica e dallo stesso amore per la musica: qui la sovrapposizione di due percorsi esistenziali e di due destini paralleli allude al mistero dell’identità e della differenza, della complessità e dell’incompletezza, che può venire risolto solo ricorrendo a soluzioni che superino la contingenza della pura fattualità, affacciandosi invece all’alterità e all’ulteriorità.

Ancora nella trilogia Tre colori: Film Blu, Film Bianco, Film rosso (1993-1994), che ripropone i tre principi della rivoluzione francese (liberté, égalité, fraternité), si evoca l’intervento della trascendenza attraverso l’azione dell’amore, della solidarietà e della Provvidenza, che offrono una possibilità di riscatto e difesa dalla cecità del caso e dalla crudeltà del destino.

La condizione umana di aporia e assurdità, fondata sull’irrilevanza del quotidiano e la persistente aspirazione ad altre realtà, il continuo fallimento del desiderio e la vittoria del nonsenso, segnalano per Giovanni Battista Magoni l’esigenza di una redenzione “ab alio”. Kieslowski rivela nelle fenditure che si aprono nelle singole esistenze il celarsi e l’apparire di un Assente che vorrebbe farsi Presente, rimandando a una Trascendenza che si proponga come via d’uscita e àncora cui aggrapparsi per non essere sommersi dall’insignificanza del nulla.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 27 dicembre 2024

RECENSIONI

CHIALA’

SABINO CHIALÀ, DONNE GENERATIVE CHE APRONO UN FUTURO – QIQAJON, BOSE 2024

Sabino Chialà, Priore di Bose dal 2022, ha pubblicato presso le edizioni Qiqajon della Comunità “Donne generative che aprono un futuro”, testo di una trentina di pagine compreso nella collana Sentieri di senso.

Sei sono le figure femminili prese in considerazione dall’autore, protagoniste dei primi capitoli dell’Esodo, che si apre in realtà con l’elenco dei dodici nomi maschili dei figli di Giacobbe, evocanti le dodici tribù di Israele. Una storia, quella patriarcale qui narrata, segnata da “complessità e drammaticità, fatta di migrazioni causate dalla carestia, di accoglienza e poi di asservimento”.

La discesa in Egitto degli Israeliti, dapprima accolta pacificamente e con benevolenza dal popolo ospitante, viene in seguito avvertita come una minaccia, mettendo in crisi la reciproca convivenza delle due etnie. Il nuovo faraone, che non aveva conosciuto Giuseppe e la sua famiglia, infrange il patto di amichevole tolleranza con gli ebrei, temendo la loro forza crescente, e li perseguita con un’azione repressiva messa in atto dai suoi sovrintendenti attraverso vessazioni e umiliazioni continue, rendendo “amara la loro vita” (es. I, 14). Escogita poi di far uccidere dalle levatrici i neonati maschi delle donne ebree, primitiva procedura di pulizia etnica.

A questa tragica realtà di sopruso e di violenza, si intrecciano però piccoli gesti di attenzione e cura femminile, che aprono la possibilità di un futuro di libertà per gli israeliti. Sei donne si oppongono al destino di morte imposto dal potere maschile, riuscendo a preservare la vita di Mosè, allo stesso tempo salvato e salvatore, come vuole l’etimologia del suo nome. Le prime due donne a entrare in scena sono le due levatrici Sifra e Pua, che disobbediscono al re e lasciano vivere i bambini, timorose del giudizio di Dio e rispettose dell’umanità a cui appartengono. In quanto levatrici, onorano la vita che è a loro affidata, e pur nella semplicità e insignificanza sociale che le contraddistingue, mandano un forte segnale di resistenza contro il male.

Il nuovo ordine del faraone è ancora più crudele, e impone al popolo di gettare nel Nilo ogni figlio maschio: ma saranno altre due donne a invalidare la volontà mortifera del re. La madre e la sorella di Mosè lo pongono in un cestello di papiro affidandolo alle acque del fiume, decise a preservarne l’esistenza non solo in ragione della consanguineità, ma come bene da tutelare in favore dell’intera comunità.

Infine, viene presentata l’ultima coppia di donne: la figlia del faraone con la sua schiava. La principessa egiziana riconosce nel bambino un discendente della stirpe ebraica (Es. 2, 6), quindi un potenziale nemico, e tradisce l’ordine del padre accogliendolo “come un figlio”, perché animata da un tenero sentimento di compassione. Affida alla vera madre del neonato, presa a balia, il compito di allattarlo, e lo battezza con il nome che nei millenni indicherà salvezza.

Sabino Chialà (Locorotondo, 1968) è teologo e biblista, studioso di ebraico e siriaco, esperto di scritti apocrifi cristiani e di letteratura dei primi secoli del cristianesimo, soprattutto orientali. Il suo racconto delle sei donne che in differenti maniere generano vita, vuole essere un apologo sulla forza con cui anche le persone meno influenti possono opporsi all’ingiustizia, agendo controcorrente, senza omologarsi a comportamenti servili, lontane da qualsiasi calcolo di convenienza, vincendo la paura. Sono sei donne, in un mondo dominato dal sistema maschile, che obbediscono a un coraggioso richiamo etico, di solidarietà verso l’innocenza violata e di speranza per il futuro.

Nella storia delle grandi imprese, delle genealogie e dei regni, esiste quindi la possibilità di un cammino diverso, umile e concreto, i cui frutti spesso non vengono riconosciuti nell’immediato, ma imprimono tracce difficili da cancellare, perché “nessuna situazione di male è ermeticamente impermeabile al bene, e nessun bene è irrilevante”.

 

© Riproduzione riservata       «La Poesia e lo Spirito», 21 dicembre 2024

 

RECENSIONI

BIDUSSA

DAVID BIDUSSA, PENSARE STANCA – FELTRINELLI, MILANO 2024

Lavorare stanca, scriveva Cesare Pavese. Ma oggi forse, in un’epoca di attivismo sfrenato, è il pensare che stanca di più. Analizzare, riflettere, valutare: compito che ormai viene delegato a un’unica categoria di persone: agli intellettuali. Di loro si occupa David Bidussa nel suo ultimo lavoro, intitolato appunto Pensare stanca.

David Bidussa (Livorno1955), scrittore e  giornalista,  si è auto-definito in un’intervista “storico sociale delle idee”, riferendosi a “una disciplina che comprende un mix di competenze culturali tra le quali: storia contemporanea, storia sociale, semiotica, teoria della letteratura, storia delle dottrine politiche, storia dei partiti e movimenti politici”. E in questo volume troviamo infatti accurate ricostruzioni storiche, accompagnate da acute analisi sociologiche e politiche, spesso non in linea con un’opinione comune addomesticata o addirittura dogmatica.

Il volume è diviso in tre sezioni. La prima, più concettuale, si occupa di definire il profilo identitario dell’intellettuale, nella sua vocazione all’azione pubblica, che lo vede dentro e fuori dalla storia, come suo prodotto e insieme suo interprete. La seconda e terza parte propongono una divisione temporale caratterizzata da un lato dall’egemonia dei partiti politici di massa, dall’altro dall’inizio della loro dissoluzione fino alle soglie dell’attualità. Nel primo periodo si imposero fondamentali figure di “dissidenti impegnati”, di engagé non più militanti ma critici rispetto alle direttive dei partiti, considerati talvolta eretici e per questo allontanati dalla partecipazione politica diretta. Tra di loro, si alzarono coraggiose le voci di Walter Benjamin, Simone Weil e Victor Serge, riascoltate in seguito empaticamente da Hannah Arendt, Albert Camus, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte e Furio Jesi.

La terza parte è dedicata agli ultimi cinquant’anni che hanno registrato la crisi delle democrazie rappresentative e la nascita dei movimenti. In relazione a questi cambiamenti si è imposta una nuova figura di “intellettuale radicale”, che rivendica per sé l’incombenza di indagare trionfi e fallimenti di chi si colloca sulla scena politica, con il proposito di allertare gli strati sociali più disorientati, impreparati o indifferenti. David Bidussa fa alcuni nomi rilevanti di “sentinelle” capaci di mettere in guardia, con particolare sensibilità, dalla diffusione di un pensiero a-problematico, e pacificato nelle convenzioni livellatrici: Edward Said, Susan Sontag, Tony Judt, Zygmunt Bauman, Tzvetan Todorov.

Come è andata trasformandosi la funzione dell’intellettuale nell’ultimo secolo? Desueta appare ormai la figura di guida e profeta, di predicatore o consolatore; altrettanto superata quella di dissacratore e contestatore. Bidussa concorda con Todorov nel sottolineare il necessario atteggiamento critico di chi ha il dovere di prendersi carico dei problemi e delle ansie del proprio tempo, provando a dare risposte che provochino a loro volta ulteriori domande: incarnando passione, consapevolezza, inquietudine, e incoraggiando a pensare in maniera eterodossa, senza “sdraiarsi sul senso comune”.

L’intellettuale infatti non deve creare consenso, ma porre problemi. Capita invece che aspiri a conquistare un ruolo pubblico dominante, oppure a realizzare una posizione di privilegio per sé, proponendosi come specialista in determinati campi del sapere. Non è questo l’obiettivo da raggiungere: piuttosto dovrebbe assumersi il compito di portare alla luce le ambiguità del presente, per consegnare alle giovani generazioni la possibilità di costruire un futuro migliore in difesa dei propri diritti, ma superando la dimensione privata, estranea all’interesse sociale e all’identità collettiva.

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 21 dicembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

LEVANTE

LEVANTE, OPERA QUOTIDIANA – RIZZOLI, MILANO 2024

Levante (Caltagirone 1987), cantautrice siciliana di intensa bellezza mediterranea e provocante presenza scenica, autrice di testi mai banali, dopo aver pubblicato cinque album musicali e tre romanzi di grande successo, si cimenta nel più recente volume Opera quotidiana nella realizzazione di un’opera sincretistica, utilizzando olio su tela, carta, penna, forbici, colla, per offrire ai lettori dipinti e collages vivacissimi, brani di diario, aforismi, riflessioni politico-sociali e confessioni sentimentali. Chiama questa sua nuova esperienza creativa “poesia”, termine che come si sa deriva dal greco “poiein”, che significa “fare”. Infatti, la manualità di questo suo agire concreto è ben visibile nell’attuazione del ritaglio di singole parole o frasi scelte a caso da più di tremila giornali e riviste italiane, incollate poi su fogli bianchi al fine di ottenere un effetto di straniamento nella giustapposizione di concetti diversi. Una tecnica che agli inizi del ’900 era stata portata in auge dai futuristi e dal movimento Dadà, con intento scandalistico nei riguardi della compassata e rigida civiltà letteraria dell’epoca, ma anche di sberleffo provocatorio e di puro divertimento. Questa finalità ludica manca nell’operazione effettuata da Levante, che invece appare più legata a motivazioni intimistiche e di riscontro interpersonale.

Così infatti esplicita il suo progetto compositivo, nella volontà di mantenere “uno sguardo vigile” su ciò che le accade intorno, per resistere “all’orrore, allo sconforto, alla paura”. Soprattutto dopo la nascita della sua bambina Alma Futura, avvenuta due anni fa, l’artista ha cercato “una via di fuga dalla paura” attraverso le parole, “maniglia per aprire uno spazio” in grado di offrirle conforto, sicurezza, speranza.

Eccole dunque le parole, recuperate “tra la grazia e l’inquietudine”, con la volontà di essere altro da sé, di essere altrove, per sottrarsi al peso del giorno e indicare una via d’uscita. Parole di uso comune, derivanti da codici linguistici e visivi, ritagliate da fogli di stampa e assemblate secondo una modalità sinestetica, che utilizza caratteri e dimensioni tipografiche diverse (grassetto, corsivo, tondo, stampatello, chiaro, nero, colore, ideogrammi, numeri…), accostate casualmente, per catturare l’attenzione sul significato da veicolare. Ad esempio, in questo messaggio-proclama di orgoglio femminista leggiamo: “carissima / stella nera / principessa inquieta / nel regno dei maschi / hai / LA COLPA DI ESSERE / un cervello a Cuore aperto / con Passo leggero / avanza ancora / questa è la tua voce / alzala”. Oppure questa fiera dichiarazione autobiografica: “NON / PARAGONATEMI / metto la vita nella musica / L’anima trova / un’altra liturgia / Che Cambia / tempie e parole / questa è La mia DIREZIONE OPPOSTA”.

Il richiamo evidente mi sembra essere, più che allo sperimentalismo protonovecentesco, alla poesia visiva di Lamberto Pignotti, a partire dagli anni ’60 iniziatore e maestro di una particolare forma di “poesia visiva” che contestava la capacità comunicativa del linguaggio massificato della società industriale e borghese.

Accanto a queste pseudo-poesie artificialmente ricavate dalle pagine dei giornali, Levante si serve di metodi comunicativi più tradizionali, come i commenti e le riflessioni diaristiche scritte in stampatello a piè di pagina. Qui, temi prevalenti sono quelli sentimentali, con dichiarazioni o violente ricusazioni d’amore: “Non ho mai cambiato il numero di telefono, non vorrei mai non riuscissi a trovarmi. Chiamami, così saprai che se non rispondo, l’ho scelto”, “Impossibile confondersi anche in mezzo a milioni di occhi. Impossibile confonderti”. Vengono affrontate anche meditazioni più generali, di carattere filosofico o politico. Troviamo la consapevolezza della nostra irrilevanza di creature sperse nell’universo (“Siamo formiche sotto le suole del creato. E non smette di girare il mondo se smettiamo di girare noi”), o il bisogno di contare nell’anonimato livellante (“Resta nonostante l’assenza di spazio. Trova il modo di prendere posto”, “Dove fuggi umano? Ti alleni a correre più veloce del tempo e speri di barare al traguardo”).

Le riproduzioni dei dipinti a olio che Levante inserisce nel volume, con soggetti diversi vivamente colorati (ambienti, persone, animali), testimoniano un’abilità pittorica da non sottovalutare; ma sono soprattutto i collages che meritano una particolare attenzione e un elogio, con l’uso intelligente di fotomontaggi e curiosi assemblage, intesi a produrre effetti parodistici e polemici, con la sovrapposizione di elementi classicisti ai più triti slogan pubblicitari.

Frutto di un lavoro artigianale, Opera quotidiana racconta esaltazioni e timori, rabbie e desideri di un’artista immaginosa e poliedrica.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 8 dicembre 2024

 

RECENSIONI

BORGNA

RICORDANDO EUGENIO BORGNA

Il Direttore di Odissea, Angelo Gaccione, mi ha invitato a ricordare Eugenio Borgna riattraversando le fasi della nostra amicizia: altri, più titolati e competenti di me, hanno già saputo e sapranno evidenziarne l’alto magistero intellettuale e scientifico.

Il mio rapporto di familiare e reciproca vicinanza con il Professore è iniziato intorno al 2010, in seguito ad alcune mie recensioni. Da allora si è sviluppato e approfondito, con fasi alterne, fino allo scorso 7 ottobre, quando con l’ultima mail mi comunicava il suo confortante giudizio sui versi di una raccolta inedita che gli avevo fatto leggere, informandosi affettuosamente del mio recupero fisioterapico dopo un’operazione di protesi al ginocchio. Gli ho poi inviato una recensione all’ultimo libro L’ora che non ha più sorelle, pubblicata sul blog SoloLibri il 24 novembre, ottenendo dall’ affezionata e attenta segretaria Nadia l’assicurazione del suo gradimento, insieme al rammarico di non essere in grado di rispondermi personalmente. Voglio credere sia stato così, anche se temo fosse già molto malato. Eppure, solo a metà luglio mi scriveva con relativo ottimismo: “Non so come dirle ancora la mia gratitudine per questa sua presenza amica. A presto. Il suo Eugenio Borgna”.

Decine le lettere e i biglietti che ci siamo scambiati in questi anni, parlando di tutto: di fede e politica, di poesia e di musica, delle nostre famiglie e dei nostri lutti, con una confidenza che si accresceva attraverso le sue frequenti e lunghissime telefonate. Ci scambiavamo le pubblicazioni, le sue accompagnate sempre da un biglietto scritto con una grafia tonda, larga, generosa, e con termini di squisita gentilezza, a volte addirittura di estrema umiltà, quasi dovesse scusarsi di aver osato sconfinare da psichiatra nel campo della letteratura. Nel volume La dignità ferita del 2012 ho ritrovato questo messaggio: “Non so cosa sia questo libro, Alida, se di psichiatria o di antipsichiatria, di psichiatria morale e di psichiatria salvata dalla poesia; ma lei vorrà aiutarmi a ricercarne il senso: se questo c’è? Grazie, e in amicizia”.

Ci siamo incontrati di persona solo due volte, a Milano nel 2012 in occasione di una conferenza a cui mi aveva invitato, e alcuni anni dopo nel corso di una sua inaspettata e graditissima visita a casa mia, a Garda. Ricordo la trepidante agitazione all’idea di conoscerlo, il timore di deluderlo con la mia scorbutica timidezza. In realtà, nelle due ore trascorse in un bar della Stazione Centrale, aveva parlato quasi sempre lui, grande affabulatore com’era, ma spiandomi nel volto qualsiasi espressione, in particolare quella di colpevole imbarazzo quando ci aveva avvicinati un’anziana deforme per chiederci l’elemosina. Avendogli comunicato l’assoluta incapacità che provo di affrontare il dolore, mio e degli altri, lui che del dolore altrui si era occupato per tutta la vita, mi aveva consolato: “È la cosa più difficile, guardare in faccia la sofferenza”.

Più disteso era stato il secondo incontro a casa mia, che aveva lodato per la luminosità e l’ordine e la cura delle piante, con mio grande compiacimento. Era stato inflessibile sulle indicazioni del pranzo: un toast e un succo di pera, a cui avevo aggiunto di mia iniziativa un uovo alla coque di cui lo sapevo goloso. Così alto e magrissimo com’era, non gli risparmiavo le raccomandazioni a nutrirsi di più, e a volte mi comunicava con soddisfazione quasi adolescenziale di avere optato al ristorante per un menù più consistente del solito. Poi ricambiava le mie attenzioni commentando “da medico” le diagnosi sull’artrosi che gli sottoponevo, o il percorso terapeutico per la depressione che seguivo da dieci anni, esortandomi a lasciar perdere gli psicofarmaci e ad affrontare con maggiore coraggio l’esterno e i rapporti con gli altri.

A un certo punto la nostra amicizia ha corso il rischio di infrangersi, per colpa dell’irrigidimento che mi impongo quando temo che un legame diventi troppo coinvolgente in termini affettivi ed emotivi. Mi è successo spesso, soprattutto avanzando con l’età, di interrompere rapporti a cui tenevo, per il timore di soffrire troppo se si fossero guastati per qualsiasi ragione, dopo le tante gravi perdite patite. Avevo rifiutato il suo invito a passare dal “lei” al “tu”, e addirittura gli avevo chiesto di non telefonarmi più. Cosa che immagino l’abbia ferito, perché mi ribadiva spesso la sua gioia per la nostra amicizia. Addirittura in una dura e permalosa mail lo avevo accusato di maschilismo (lui, così attento e sensibile alla fragilità femminile!), perché aveva osato scherzare sulle mie troppe paure, con allusioni da me ritenute inopportune e mortificanti. Il Professore, che si firmava, “il suo Eugenio”, capiva e scusava, conoscendo le difficoltà ambientali che avevo vissuto con le mie figlie per tanti anni, e le nostre sofferenze. Capiva e scusava da amico e da psicanalista.

Sono felice di essere riuscita, l’anno scorso, a esprimergli il mio rammarico per alcune estemporanee irritazioni nei suoi confronti, e la gratitudine invece per i tesori che il nostro rapporto mi aveva regalato: “Gentile Prof. Borgna, spero stia bene, e che il caldo non la faccia soffrire troppo. Qualche giorno fa è morto un caro amico, lasciandomi il rimpianto di un immotivato allontanamento, come succede spesso al mio calvinismo severo. E allora mi è venuto da pensare che per un certo periodo siamo stati molto amici anche noi, e poi io mi sono chiusa a chiave nel mio dolore, per quello che mi succedeva intorno. E ho interrotto i rapporti con tutti. Si sbaglia sempre, non bisognerebbe mai perdere di vista nessuno, nemmeno chi ci ha fatto del male. Così avevo scritto in una poesia, pensando che avrei potuto essere più affettuosa e più attenta anche con mio marito, mia mamma, mio papà, gli amici che ho trascurato. E quindi mi scuso anche con lei, se non sono riuscita a dirle che la sua vicinanza mi è stata cara. Alida”, “Mia gentile Alida Airaghi le sono infinitamente grato della sua mail che mi è giunta segnata da questo grande dolore che è conseguito alla morte di un suo caro amico. Le parole con cui mi dice questo sono come sempre molto gentili, umane, nostalgiche, luminose e poetiche. Infinite grazie di ogni sua mail che mi giunge come una azzurra colomba trakliana, anche se giornate come queste accrescono la nostalgia e il dolore per le persone care che non ci sono più. Non posso dimenticare le sue splendide poesie che rileggo e che sono di una bellezza e di una malinconia dolorosa, ma irrorate del fiume della speranza che è la sola cosa che possa dare un senso al nostro dolore. Grazie di tutto con grande nostalgia. Eugenio Borgna”.

Non so se il rimpianto, insieme alla mia riconoscenza, possano raggiungere il caro Eugenio Borgna, lì dove era certo di arrivare, con la sua limpida fede nell’eternità dell’anima. Ma in qualche modo, pur da non credente, lo spero.

 

© Riproduzione riservata      «Odissea», 7 dicembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, “IN RICORDO DI LEI” – QIQAJON, BOSE 2024

Le edizioni Qiqajon della Comunità di Bose pubblicano nella collana Sentieri di senso un libriccino di venti pagine, In ricordo di lei, trascrizione di una relazione che Don Angelo Casati (Milano 1931) aveva tenuto nel maggio 2013 presso l’hospice Madonna dell’Uliveto ad Albinea (RE).

Don Angelo nella sua lunga vita di presbitero ha sempre lasciato in chi ha avuto occasione di conoscerlo (anche in me, non credente, nel limitato scambio epistolare intrattenuto anni fa) tracce indelebili del suo carattere dolce e benevolo, profondo e umile, insieme alla testimonianza limpida di una fede vissuta con assoluta coerenza e appassionato rigore, ma senza servilismi verso il potere ecclesiastico, e in polemica con un cattolicesimo di rappresentanza.

Innamorato della poesia, e poeta lui stesso, mantiene anche in questo testo uno stile elegante e sobrio, celebrando con ammirata considerazione il gesto della donna che a Betania cosparge di profumo la testa e i piedi di Gesù, asciugandoli con i suoi capelli. Ne parlano tutti e quattro i Vangeli (in particolare quello di Marco: 14, 1-11), incastonando l’episodio nei giorni bui precedenti la Passione, tra il complotto dei sacerdoti e il tradimento di Giuda. L’atto di affettuosa dedizione di Maria viene criticato dagli astanti e dai discepoli, sia perché ritenuto uno spreco di preziose essenze, sia perché la figura stessa della donna appariva moralmente discutibile. Gesù la difende: “Lasciatela stare. Perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me”.

Da qui parte il commento intenso e commosso di Don Casati, che subito prende le difese della donna, e più in generale di altre figure femminili del Vangelo, contro la durezza e l’ipocrisia del pensiero maschile. Sarebbe fuori luogo parlare di femminismo per la posizione assunta dall’autore, sebbene ormai si sia imposta una teologia critica – ampiamente condivisa in vari livelli del cattolicesimo – nei riguardi di una Chiesa tradizionalmente sessista. L’atto di Maria verrà sempre ricordato per la sua tenerezza e gratuità, in opposizione alla mentalità mercantile degli uomini che si scandalizzano per il prezzo del vaso di alabastro frantumato e del prezioso contenuto sprecato: ma il profumo riempie di dolcezza la stanza, e addolcisce la malinconia di Gesù. È un atto “bello”, e di bellezza il mondo, così appiattito sul grigiore dei sentimenti e sul possesso economico, ha sempre avuto e ha tuttora bisogno. Anche nella Chiesa.

“Alle spalle abbiamo stagioni della chiesa, e ancora non sono finite, in cui la bellezza è stata inseguita, per appannamento di memoria o per vile interesse, nei colori delle vesti, nei volti truccati, nella pomposità dei riti, nella corposità degli apparati, nello scambio dei favori, nell’amicizia dei potenti: teatralità vuote, coreografie senz’anima, istituzioni in estinzione di Spirito, casa colma di cose ma senza bellezza, senza bellezza di vangelo”.

Un altro gesto “bello” è quello compiuto dalla vedova povera che offre al tesoro del tempio tutto quello che possiede, una sola moneta, e la sua generosità ha per Gesù più valore delle donazioni dei ricchi (Mc 12,41-44). Due donne, la vedova e Maria, “pure di cuore” perché donne “della totalità”, che nel dare tutto sono diventate vangelo vero.

Per Don Angelo Casati il compito dei cristiani di oggi è quello di detronizzare il vuoto che si è insediato in alto, portando in luce i gesti nascosti, che nella loro semplice generosità vincono sull’arroganza volgare di chi vuole imporre pubblicamente il proprio dominio basato su compromessi e prevaricazioni.

 

© Riproduzione riservata          «SoloLibri», 7 dicembre 2024