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RECENSIONI

SCHUETZ

ALFRED SCHÜTZ, DON CHISCIOTTE E IL PROBLEMA DELLA REALTA’ – ARMANDO, ROMA 1996

                                  LO STRANIERO / IL REDUCE ‒ ASTERIOS, TRIESTE 2013

Alonso Quijano non si riconosceva nel suo corpo, nel suo ambiente e nella sua epoca: si inventò quindi una nuova esistenza e un nome diverso, diventando El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, intrepido e valoroso combattente, deciso a riparare torti, violenze e soprusi perpetrati contro donzelle indifese e altre vittime innocenti. Si scelse come scudiero un contadinotto tarchiato, che ribattezzò Sancho Panza. Offrì i suoi servigi a una nobile dama, Dulcinea del Toboso, che assomigliava (ma senz’altro non era!) la sua umile vicina di casa Aldonza Lorenzo. Salì in groppa al docile Ronzinante, fiero e veloce come il Bucefalo di Alessandro Magno; imbracciò la sua potente lancia spuntata e partì alla ventura, elettosi da sé “cavaliere errante”, sul modello dei romanzi cavallereschi che tanto ammirava.

Nel suo fantastico viaggio (la vida es sueño…) si imbatté in mirabolanti avventure, in eroiche imprese e strenui duelli. Lottò contro giganti dalle braccia rotanti camuffati da mulini a vento, contro eserciti di arabi mascherati da greggi di pecore, contro pericolosi masnadieri che si fingevano innocui mercanti. Le osterie in cui si fermava erano fastosi castelli, umili frati benedettini maghi incantatori, un teatro di burattini celava in realtà pericolosi anfratti animati da demoni. E l’elmo che indossava, chi mai potrebbe sostenere fosse una bacinella da barbiere? Anche il giovane studente di Salamanca che lo aveva sfidato nascondeva proditoriamente la sua effettiva identità di “Cavaliere della Luna Bianca”. Il nobile Hidalgo scambiava le sue fantasie per verità, l’immaginazione per consistenza. O no? Cos’è vero e cos’è falso, cosa illusione e cosa oggettività?

Alfred Schütz (Vienna,1899New York,1959) nel 1955 rilesse filosoficamente il capolavoro di Cervantes in un saggio, Don Chisciotte e il problema della realtà, affrontandovi la questione della costruzione intersoggettiva del reale. Schütz, nato da famiglia ebraica, è considerato il fondatore della sociologia fenomenologica; le sue teorie sono state influenzate dalle ricerche di Max Weber, Henri Bergson, Edmund Husserl e Max Scheler. Emigrato negli Usa nel 1938 per sfuggire alle persecuzioni naziste, insegnò a New York, dove morì a sessant’anni. L’influenza del pragmatismo americano e del positivismo logico consolidò in lui l”attenzione empirica al mondo concretamente vissuto, nella sfera delle occupazioni quotidiane, minute e abitudinarie, cadenzate dalla routine cui ci si abbandona per comodità, pigrizia o mancanza di alternative, rispondendo in maniera acritica e amorfa ai suggerimenti dell’opinione prevalente.

Il saggio di Schütz, pubblicato a più riprese dall’editore Armando, è introdotto da una concisa e illuminante prefazione di Paolo Jedlowski, che indica al lettore quale fosse l’intento fondamentale dell’autore nel ripercorrere le pagine dell’opera cervantiana: esistono tante diverse realtà, e non è detto che quello che il senso comune dà per scontato sia “vero”. “Don Chisciotte non partecipa del ‘senso comune’. Per lui, sono plausibili e reali cose che per Sancho Panza (il rappresentante per eccellenza del senso comune) sono solo fantasie”. Le figure dei due protagonisti del romanzo (il visionario e il concreto, ii sognatore e il disincantato) ci mostrano in quale maniera per ciascuno di noi funzioni “il modo in cui attribuiamo un senso di realtà alle cose in cui ci imbattiamo e alle forme con cui ce le rappresentiamo”.

Schütz derivava dalla fenomenologia il concetto antipositivista e antidogmatico che noi sappiamo della realtà solo ciò che appare, ciò che si manifesta nei contenuti delle percezioni e della coscienza. E riteniamo reale ciò che gli altri ci confermano come tale, in un rapporto intersoggettivo che quando viene a cadere insinua in noi il dubbio di essere in torto, di sognare o fantasticare. Se manca l’accordo intersoggettivo su quanto esperiamo, ecco che non siamo più sicuri della nostra stessa esperienza. Nella vita quotidiana ci affidiamo infatti al senso comune, che ritiene le cose essere esattamente come appaiono, secondo quanto ci hanno insegnato i genitori, i maestri, le convenzioni collettive, la verifica sensoriale: così pensava, senza farsi eccessivi scrupoli, Sancho Panza.

Tuttavia, non si vive solo nella realtà quotidiana; esistono infatti anche altre realtà in cui ci immergiamo, per esempio quando andiamo a teatro o al cinema, o quando ci lasciamo assorbire da idee-guida religiose, scientifiche, artistiche. Il filosofo William James le catalogava come sotto-universi: sono molteplici, e ciascuno di noi vive nei suoi, non sempre comunicabili e condivisibili. Don Chisciotte era totalmente immerso nel sotto-universo del suo mondo cavalleresco, e senz’altro non partecipava del senso comune: “Io immagino che tutto ciò che dico, è vero. Niente di più, niente di meno”, affermava perentoriamente. Secondo Alfred Schütz, la fonte della realtà, dal punto di vista assoluto e pratico, è soggettiva: siamo noi che abbiamo la possibilità di pensare in modo diverso a proposito del medesimo oggetto, e scegliere in seguito a quale modo aderire e quale scartare. Quando il trascendente e lo stra-ordinario si insinuano nella vita quotidiana, la nostra ragione può negarli o dissimularli, preferendo aggrapparsi al tran-tran quotidiano, adeguandosi alle regole comuni. Siamo, così decidendo, saggi o folli, e a quale universo generale o sotto-universo personale aderiamo?

La riflessione del sociologo austriaco si era già soffermata sul concetto di estraneità e conformità nella vita collettiva, in due lavori del 1944-45 che oggi assumono un rilievo particolare, in quanto si occupano delle figure dello straniero e del reduce, cioè di chi non appartenendo a una specifica comunità cerca di avvicinarla e introdurcisi, e di chi essendosene allontanato vuole o deve rientrarci. Con parole empatiche e di straordinaria sensibilità, che lasciano trapelare quanto lo stesso Schütz avesse sofferto sulla sua pelle l’abbandono dell’Europa e il trasferimento negli Stati Uniti, la figura dello straniero viene indagata nel rapporto vicendevole instaurato con l’ambiente di accoglienza. Lo straniero trova difficoltà nell’interpretare il modello culturale del gruppo sociale cui si avvicina, teme di non comprenderlo e di non esserne compreso poiché la sua storia personale (lingua, studi, affetti, educazione, gestualità, abitudini) non sono quelli della comunità che deve accoglierlo.
Può forse aspirare a condividere, con grande sforzo e buona volontà, presente e futuro con il gruppo cui si è avvicinato, ma rimarrà escluso dalle esperienze che riguardano il passato suo e degli altri, mai spartibile. Icasticamente Schütz afferma: “Tombe e ricordi non possono venire né trasferiti né conquistati”. Come chi impara una lingua diversa difficilmente riesce ad appropriarsi delle sue implicazioni emotive, della terminologia specifica, di espressioni idiomatiche, degli schemi espressivi e dei vari codici privati, così lo straniero che aspira a inserirsi in una nuova società non riuscirà mai a possederne completamente gli automatismi, le sfumature irrazionali, i segni dell’abitualità. Sarà destinato a rimanere un ibrido culturale, a rivestire un ruolo marginale, soffrendo di un costante disorientamento che lo renderà diffidente e insieme infido, in una distanza che mai potrà sfociare nell’intimità. La stessa cosa vale per chi, allontanatosi dal suo luogo d’origine (“Home is where one starts from”, scriveva Thomas S. Eliot), tornandovi non la troverà come la ricordava, avendo interrotto una comunanza di spazio e tempo con il gruppo primario cui apparteneva, e avendo sperimentato altre dimensioni sociali, altri posti e valori.

Nella mia piuttosto lunga esperienza di insegnante a Zurigo, ricordo che i nostri connazionali emigrati confessavano di non riuscire più a definirsi orgogliosamente italiani (resi critici dal confronto con una collettività economicamente avanzata) e insieme di non aspirare a identificarsi con la popolazione svizzera. Chi poi rientrava al paese dopo una vita spesa all’estero, viveva una penosa incapacità di riadattamento, un doloroso senso di esclusione e auto-esclusione: cosa che è successa anche a me e alla mia famiglia.

“Da principio non è soltanto la patria a mostrare al reduce un volto insolito. Il reduce appare altrettanto estraneo a coloro che lo attendono, e la nebbia intorno a lui lo farà irriconoscibile”. Come Don Chisciotte, lo straniero e il reduce rimangono secondo Alfred Schütz, disadattati, incompresi, chiusi in un loro mondo incomunicabile agli altri, in cui spesso il sogno prevarica la realtà, alterandola nel tentativo di addomesticarla e renderla inoffensiva.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 26 settembre 2019

 

 

RECENSIONI

SCHULTZ

PHILIP SCHULTZ, ERRANTI SENZA ALI – DONZELLI, ROMA 2016

Nel commentare il libro di Philip Schultz – con testo inglese a fronte – appena uscito da Donzelli, vorrei soffermarmi sulla nota finale delle traduttrici (Basile, Mormile, Rava, Robustelli, Splendore), per rendere il meritato riconoscimento all’operazione difficile e misconosciuta della traduzione. Le autrici, rendendo conto del loro esperimento durato più di un anno (incoraggiato dall’associazione romana Monteverdelegge), vantano il lavoro di gruppo «perché agisce come correttivo di atteggiamenti di prevaricazione sul testo più facilmente diffusi nelle traduzioni fatte singolarmente». Una di loro, Paola Splendore, ha firmato anche l’esaustiva postfazione, presentando la biografia e la produzione letteraria di Schultz, «personalità poetica estranea a scuole e movimenti, la cui forza è nel linguaggio intimo e diretto con cui tratta i suoi temi». Nato a Rochester nel 1945, da una modesta famiglia di ebrei immigrati dall’Europa orientale, l’autore di queste poesie ha vissuto un’infanzia e una giovinezza difficile, minata dalla dislessia e da altri problemi psichici, che lo portarono a un tentativo di suicidio, all’internamento in una clinica e alla cura con l’elettroshock. Queste esperienze sofferte trovarono poi un loro riscatto nella scrittura, dapprima in prosa (sulle tracce di Hemingway, Salinger e Bellow), quindi in poesia, con la pubblicazione di diversi volumi, uno dei quali, Failure (2007) vinse il Premio Pulitzer.
Da questa raccolta, che proprio al fallimento umano (espresso dalla fragilità mentale, dall’esclusione sociale, dalla povertà intellettuale e materiale del suo ambiente nativo) era intesa a offrire un solidale e affettuoso omaggio, sono tratte le quattro sezioni di Erranti senza ali.

Chi sono questi erranti (The Wandering Wingless) è presto detto: i vinti della storia, le persone che trascorrono la loro esistenza senza lasciare traccia di sé, prive di qualsiasi aspirazione alla trascendenza, costrette alla pura lotta quotidiana del sopravvivere. Quindi i genitori, la madre umiliata in lavori sfibranti («le dita rosse e gonfie / per i tagli della carta, / gli occhi, fondali neri»), il padre, figura odiata-amata per la sua violenta e castrante nullità («perché / papà non possedeva, non credeva, / non ammetteva, non capiva / non amava niente… perché / era così spaventato / dalla bontà / che aveva dentro?»). Erranti senza riposo e spersi nei loro sbagli, nelle loro colpe, senza possibilità di redenzione: erranti come l’ebreo che vaga per il globo non sapendo dove e come fermarsi, scontando una condanna più divina che storica.  Così Schultz si inventa un alter ego, un dog-walker di New York che porta a passeggio, attraverso il Village, la Madison Avenue, la Washington Square, Soho o il Central Park, i cani aristocratici dei ricconi americani: quadrupedi dalla tosatura costosa, dai nomi sfiziosi o altosonanti («Vanno forte gli scrittori / ora: ho un Gogol, un Omero e due Wolf»), cagnoline sexy, barboncini incappottati elegantemente, alani imponenti. Mescolandosi all’umanità più varia e a «una noia del mondo / squisitamente illecita», il dog-walker si annulla come persona, riducendosi ad accompagnatore-servo di viziati animali domestici: «Porta a spasso cani per campare / e diventi inesistente, / eclissato / da una forza superiore». Le sue minime considerazioni filosofiche sulla superiorità canina rispetto all’egoismo superficiale degli esseri umani sono inframezzate da flashback che hanno la crudele evidenza di incubi (il ricordo dell’11 settembre, la morte del padre e della nonna, la perdita della cagnolina più amata nell’adolescenza, la malattia mentale, il lavoro nero come operaio edile): e la colloquialità dello stile – espressa in versi brevi, serrati, ritmici – bene si accorda col tono (talvolta ironico, sferzante, e più spesso commosso, malinconico) di tutta la raccolta, intenerito omaggio alla sconfitta: «Al mondo per me / non c’è niente di meglio / che guardare correre i cani, / la lingua penzoloni, / le orecchie sventolanti, / il cuore che gli scoppia / contro le costole», «ognuno di noi / è un’emergenza che si prepara / ad accadere, una storia / di implacabile dolore, / Un World Trade Center / di immane rovina, / un riverbero, una teologia, / … tutto tenuto insieme per caso, / solo per caso», «Mi spaventava tutto quello che amavo. / Era questo il fallimento? – / Una paura senza fine?»

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Erranti-senza-ali-Philip-Schultz.html     15 settembre 2015

 

 

RECENSIONI

SCHULZ

BRUNO SCHULZ, LE BOTTEGHE COLOR CANNELLA – EINAUDI, TORINO 2008

Einaudi ha ripubblicato nel 2008 gli scritti, i saggi e i disegni, ormai introvabili, di Bruno Schulz, ebreo galiziano ucciso dai nazisti a 50 anni nel ’42. L’opera omnia di questo scrittore consiste soprattutto di una trentina di racconti (pubblicati in Polonia tra il 34 e il 38), poiché il resto della sua produzione è andato perduto durante la guerra: Schulz infatti aveva affidato i suoi scritti a un mezzo quanto mai precario quale la corrispondenza privata. Nella stessa atmosfera che anima le pagine di Kafka, di Musil, e in qualche modo anche di Singer e di Canetti, si muoveva questo timido e malaticcio professore di disegno, vissuto sempre in famiglia, senza mai uscire dalla natia Drohobycz. E si muoveva con l’impaccio di chi abita preferibilmente le stanze del pensiero, e quando è costretto a uscirne subisce l’impatto con un “esterno” deformato e allucinante. Quello che Schulz ha scritto costituisce un ininterrotto viaggio a ritroso nella mitica infanzia: «Il genere d’arte che mi sta a cuore è appunto la regressione…Il mio ideale è di ‘maturare’ fino all’infanzia».

Niente a che vedere, per fortuna, con i noiosissimi ‘come eravamo’ cui ci ha abituato la letteratura nostrana: qui non ci troviamo davanti a recuperi, ma a una reinvenzione totale, a un’esasperazione, a una magia caleidoscopica dei minimi appigli forniti dalla memoria. Monumento di quest’infanzia è il padre Jakub, mercante di stoffe, che volteggia folletto in un oscuro negozio dagli scaffali di muffa, in una casa dalla stanze che si rincorrono e dalle tappezzerie ricamate, in una cittadina le cui vie scompaiono e ricompaiono nelle nebbie, le cui carrozze corrono senza cocchieri…Jakub è insieme vittima e creatore di metamorfosi, illusionista e demiurgo che muore e resuscita, si rinsecchisce e si espande, diventa mosca, uccello e pompiere, scarafaggio. Jakub crede nei miracoli eretici, nati dall’assurdo, da situazioni illogiche in cui tutto può accadere. Il regno di questa potenzialità del tutto, e della distruzione, è la materia «priva di iniziativa propria, lascivamente arrendevole», tuttavia anche «oppressa» e sofferente nelle forme immobili, nei «manichini» in cui uomini e dei la costringono. Gli oggetti formati da questa materia non hanno pace (come aveva scritto Ripellino in un suo articolo), mutano, si ribellano, diventano anime (mentre le anime a volte si amorfizzano, si riducono a cose). Anche la natura è un trionfo della materia, lussureggiante, rigogliosa, sensuale nel caldo dei suoi mesi estivi, nella vacuità della primavera, nell’immobilità dell’autunno o addirittura nell’assurdità di un 13° mese imposto dal calendario. Questa materia schulziana non produce storia né cronaca: ogni avvenimento assume la potenza e la necessità dei destini biblici, l’infallibilità del fato. L’imperatore Francesco Giuseppe, suo fratello Massimiliano, sono entrambi emblemi immobili, caricature di un’idea. Ciò che accade è assorbito da un tempo cosmico, relativo, che si trascina fino ad annullarsi in un luogo e contemporaneamente rinasce per bruciare in un istante, altrove. Chi è morto può rivivere e assumere qualsiasi forma, smontarsi e rimontarsi come una formula chimica. Schulz arriva dove lo spiritualismo più esasperato confina con un materialismo conseguente fino all’autocreazione. I suoi racconti si concludono tutti in una misura perfetta, senza un filo di retorica o una sbavatura, ma così, con indifferenza, come se dovessero anch’essi ricominciare subito da capo. La prosa di Schulz, barocca, piena di metafore fino all’esasperazione, può richiedere impegno al lettore, ma alla fine lo premia con un’illuminazione e una conversione alla sensibilità del pensiero interiore, commosso e partecipe.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Le-botteghe-color-cannella-Bruno-Schulz.html     17 ottobre 2015

RECENSIONI

SCHWARZENBACH

ANNEMARIE SCHWARZENBACH, GLI AMICI DI BERNHARD – L’ORMA, ROMA 2014

Annemarie Schwarzenbach, nata a Zurigo da facoltosi industriali nel 1908 e morta precocemente nel 1942, fu scrittrice anticonformista e ribelle, lesbica e morfinomane, viaggiatrice instancabile e chiacchierata protagonista dei salotti dell’alta borghesia internazionale. L’elegante casa editrice L’ Orma pubblica ora il suo primo romanzo, scritto a ventitré anni, ambientato nell’elitario e ovattato milieu dell’aristocrazia finanziaria, culturale e artistica imperante in Europa tra le due guerre. Protagonisti della narrazione sono i compagni di Bernhard, un diciassettenne tedesco sensibile, mite, dolcissimo che vorrebbe dedicare la sua intera esistenza all’amicizia e alla musica. I giovani che gli ruotano intorno (Gert, Irma, Hans, Christine, Leon…) sono belli, alti, eterei, raffinati, benestanti, privi di interessi politici e indifferenti a qualsiasi scrupolo religioso o solidarietà sociale. Le loro ambizioni sono volte a raggiungere traguardi non tanto economici quanto di notorietà artistica (seppure effimera) come pianisti, pittori, scultori. Vivono senza programmare il futuro, in un continuo accavallarsi di incontri, viaggi, cene, spettacoli, e amori incrociati che mai si trasformano in dedizione, passione o tormento. La seduzione reciproca, la continua allusione a un’omosessualità tentatrice ma temuta, le ripicche adolescenziali, le gelosie e i fallimenti vengono raccontati dall’autrice con vivacità divertita e cronachistica, passando spesso dalla prima alla terza persona, o usando l’artificio didascalico di rivolgersi direttamente al lettore. Non ci troviamo di fronte alla profondità della Woolf, né all’eleganza di Scott Fitzgerald: ma l’inquietudine, l’insoddisfazione morale, i tremori emotivi di questi amici nascono negli stessi anni e nelle stesse atmosfere: «…si dovrebbe vietare ai giovani di dichiararsi soli. Che paradosso, scrivere la tragedia di un giovane».

«Leggendaria» n. 111, maggio 2015

RECENSIONI

SCHWARZENBACH

ANNEMARIE SCHWARZENBACH, OGNI COSA E’ DA LEI ILLUMINATA
IL SAGGIATORE, Milano 2012

La casa editrice milanese Il Saggiatore rifonda dopo più di cinquant’anni l’elegante collana di narrativa breve e saggi Le Silerchie, e tra i primi volumi proposti offre ai lettori un racconto del 1929 di Annemarie Schwarzenbach. Nata a Zurigo nel 1908 e morta nel 1942, la Schwarzenbach fu scrittrice anticonformista e ribelle, omosessuale e morfinomane, viaggiatrice instancabile e chiacchierata protagonista dei salotti dell’alta borghesia europea. In questo racconto ambientato nel fantastico e ovattato ambiente degli hotel di lusso engadinesi, in ristoranti frequentati da raffinati e danarosi clienti provenienti da tutto il mondo, su piste da sci e da pattinaggio curate maniacalmente, in bar esclusivi animati dalla musica di orchestrine jazz, la giovanissima Annemarie descrive l’incontro folgorante, addirittura devastante con una misteriosa e seducente signora.

«Di fronte a me c’è una donna, indossa un cappotto bianco, il suo viso è abbronzato sotto una capigliatura scura, pettinata all’indietro con rudezza maschile, rimango colpita dalla forza, bella e luminosa del suo sguardo, e ora ci incontriamo, per lo spazio di un secondo, e provo l’irresistibile impulso di avvicinarmi a lei, un impulso ancora più aspro e doloroso di seguire l’immenso ignoto che si desta in me come un desiderio ardente e un invito».

«Vedere una donna» (Eine Frau zu sehen): con queste tre parole inizia la narrazione, quasi a indicare una rivelazione, l’illuminazione di un’anima «solo per un secondo, solo nel breve spazio di uno sguardo… come se dovessimo incontrarci sulla soglia dell’ignoto, questa frontiera oscura e malinconica della coscienza». L’incontro avvenuto in ascensore avrà ovviamente un suo seguito, quando la giovane scrittrice deciderà di seguire il suo «diritto al desiderio». Il manoscritto originale di questo diario sentimentale è rimasto fino al 2007 presso l’Archivio svizzero di letteratura di Berna, dove è stato recuperato, trascritto e riordinato dalla nipote dell’autrice, Alexis Schwarzenbach, che di questo volume scrive la postfazione.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

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SCHWOB

MARCEL SCHWOB, VITE IMMAGINARIE – STAMPA ALTERNATIVA, 1995

Corredato da splendide illustrazioni a colori dell’artista déco George Barbier, questa edizione delle Vite immaginarie di Marcel Schwob ha riproposto, a quasi cento anni dalla prima uscita, le ventidue esistenze (concrete e magiche insieme, storiche e fantastiche) di uomini e donne trasferiti dalla realtà al mito, e così eternizzati attraverso una scrittura elegante e classica, sobria e intensa, capace di resistere all’usura del tempo. Racconti che contrappongono (come intuisce giustamente Omar Austin nella prefazione) “una sostanziale fedeltà alla tradizione… al gusto di prendere in contropiede l’esattezza storica”, perseguendo “l’emblematico e l’irripetibile, un che di astratto e bidimensionale, voluto e consapevole”. I personaggi raccontati appartengono per lo più a un passato remoto: Empedocle (“figlio di se stesso”), Erostrato (“iracondo e vergine”), Cratete (“non si curava di nulla”), Lucrezio (“contemplò l’immenso formicolio dell’universo”), Clodia (“bella e ardente”), Petronio (“piccolo, scuro di pelle e guercio da un occhio”). Alcuni sono medievali: Fra Dolcino eretico (“un ignorante mosso dalla violenza”), Cecco Angiolieri (“povero e nudo come il lastricato d’una chiesa”). E poi pittori, soldati, meretrici, attori. Infine protagonisti di fiabe, come Pocahontas (“Aveva il viso assottigliato, zigomi stretti e grandi, dolcissimi occhi”), o diversi terribili e inconcludenti pirati. Raccontandoli, Schwob ci descrive particolari fisici e morali trascurabili, facendoli subito diventare essenziali e rivelatori, riuscendo a fare dell’effimero qualcosa di sostanziale e necessario. I disegni dai colori pastosi di Barbier accompagnano i testi con aderente creatività, con allusiva e discreta ironia. Un libro da conservare gelosamente.

IBS, 6 marzo 2014

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SCIASCIA

LEONARDO SCIASCIA, UNA STORIA SEMPLICE – ADELPHI, MILANO 1989

Una storia semplice è l’ultimo volume dato alle stampe da Leonardo Sciascia prima della sua scomparsa: uscito da Adelphi, nella collana Piccola Biblioteca. Si tratta di un romanzo breve, o di un racconto lungo, nella più schietta tradizione narrativa dello scrittore siciliano. Semplice la vicenda raccontata non pare davvero: semmai esemplare, elementarmente basata più su fatti concreti che su interpretazioni fittizie, più su dati immodificabili che su illazioni moralistiche. Fedele allo stile dell’ultimo Sciascia, poco propenso ormai alla denuncia e all’indignazione civile, la storia si commenta e si condanna da sé: c’è un morto scomodo, che la polizia vorrebbe far passare per suicida; c’è una villa abbandonata di cui sconosciuti si servono per la preparazione e lo spaccio di droga; c’è il consueto scontro tra carabinieri e polizia, l’assoluto disinteresse per la ricerca della verità, il desiderio di non approfondire questioni ambigue o pericolose da parte dell’autorità giudiziaria. Tutto questo, ma anche una vicenda che nelle ultime quindici pagine assume contorni sempre più inquietanti e scandalosi, con i vertici della polizia e personaggi della chiesa coinvolti totalmente e colpevolmente nel caso; il protagonista, allora, diventa l’eroe buono, l’unico a cui la società può affidare la sua sacrosanta volontà di punizione e redenzione: il brigadiere Antonio Lagandara reagisce alla corruzione che lo circonda uccidendo il commissario in capo, rivelatosi responsabile degli avvenimenti. Per ironia o dramma della sorte, questa uccisione non apre la strada ad ulteriori approfondimenti, non riesce a scuotere le coscienze addormentate dei cittadini, ma viene archiviata come “accidentale” e la “storia semplice” viene ricondotta alla sua banalità quotidiana e inoffensiva. Bocca amara, quindi, per il lettore, cui non resta che cercare tra le scarne pagine affidate ad una severa, essenziale prosa, qualche traccia della sofferenza dignitosa dell’autore che si sapeva condannato, non solo dal suo male, ma forse anche dalla storia della sua Sicilia. Un accenno alla malattia: «…ma il professore aveva, proprio quel pomeriggio, da fare la propria e inalienabile dialisi, pena per giorni l’intossicata immobilità». La consapevolezza che spesso sta più in alto chi ne è meno degno: «Il magistrato scoppiò a ridere. -L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è stato poi un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…- . – L’italiano non è l’italiano: è il ragionare – disse il professore. – Con meno italiano, lei sarebbe forse più in alto-». Infine, la più lapidaria delle constatazioni, la più tragicamente laica: «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza».

 

«Agorà» (Svizzera), 10 gennaio 1990

RECENSIONI

SCIPIONE

SCIPIONE, CARTE SEGRETE – EINAUDI, TORINO 1997

Con lo pseudonimo di Scipione, Gino Bonichi (Macerata, 25 febbraio 1904Arco, 9 novembre 1933), si fece conoscere come uno dei più importanti pittori della Scuola Romana (detta anche di Via Cavour), movimento espressionista che si opponeva al conservatorismo, al neoclassicismo e alla retorica fascista dominanti tra gli anni ’20 e ’30, rappresentati principalmente dal gruppo Novecento.Trasferitosi a Roma dalle Marche ancora bambino, nell’adolescenza si ammalò di tubercolosi, per cui rimase ricoverato in sanatorio fino al 1924. In quell’anno, iscrittosi all’Accademia di Belle Arti, conobbe Mario Mafai, con cui strinse un fruttuoso sodalizio professionale e di amicizia. Insieme a lui, a Renato Marino Mazzacurati e ad Antonietta Raphael, fondò quindi nel 1928 la corrente della Scuola Romana, di cui oggi troviamo ampia e documentata rappresentazione al secondo piano del Casino Nobile del Museo di Villa Torlonia. La vena fantastica e visionaria della pittura di Scipione si espresse soprattutto in noti capolavori, quali il Risveglio della Bionda Sirena (1929) e il Ritratto del Cardinale Decano (1930), in alcune nature morte e in molte vedute romane, barocche e decadenti, dipinte con tratti nervosi e allucinati, i cui colori scuri evidenziano il senso di oppressione provocatogli dal riacutizzarsi della sua malattia, che lo uccise a 29 anni.

Oltreché pittore, Scipione fu anche disegnatore, critico d’arte e poeta. Suoi versi, con il titolo Carte Segrete, furono pubblicati per la prima volta da Vallecchi nel 1943. In seguito Einaudi li raccolse in volume nel 1982 e poi nel 1997, con prefazione di Amelia Rosselli, insieme a brani di diario, prose, lettere e frammenti sparsi in varie riviste e in libri difficilmente reperibili. Le poesie antologizzate nel libro einaudiano sono solo dieci; molto più numerose le lettere (a Enrico Falqui, soprattutto, che fu grande estimatore della sua scrittura, e ne incoraggiò a più riprese la diffusione; al poeta Libero De Libero, al pittore Mazzacurati, a un misterioso Reverendo e al fratello Goffredo), e gli appunti diaristici. Vengono riportati anche un breve saggio sulla pittura del Greco, e una prosa naturalistica. Dei versi, Amelia Rosselli scrive: “Le sue poesie si allontanano di gran lunga dall’esacerbata descrizione d’una Roma decadente e cattolica, impregnata di rossori mortuari e stravolti. La sua poesia è calma, candida, sensoria sì, quasi più dei quadri, ma in essa v’è una tranquillità non espressionistica che la rende del tutto individuale e difficilmente classificabile… Di estasi religiosa e di carne e di morte parlano le poesie senza che l’irrequietezza mistico-tragica, e disperatamente distruttiva, che è evidente nei quadri, traspaia”.

Di pacatezza malinconica e rassegnata, in verità, si può parlare forse solo per l’ultima poesia, immersa in una visione agreste probabilmente da riferirsi all’anno che Scipione trascorse convalescente in Ciociaria, a Collepardo, nel 1929: ma anche qui con un’evidente premonizione angosciosa di morte, e un fremito timoroso di abbandono: «Alla calata del sole una pecora / ha fatto un agnello. / È uscito tutto di lana, col sangue / il cuore la voce. / Gli uomini sbucano fuori / e se ne vanno via, / gli alberi aspettano il buio / per ignorarsi, / le erbe odorose si mettono / in cammino. / Le civette gridano, tutto si muove / e l’angoscia riempie l’aria / di inquietudine». In uno stile semplicissimo, lontano da qualsiasi barocchismo o pomposità dannunziana, così come dalla tonalità franta del primo Ungaretti, Scipione rende animato il paesaggio naturale, attribuendogli sentimenti e movimenti umani, in un’atmosfera panica di turbamento e mistero.

Più scabra e severa appare invece la poesia di apertura, Estate, anch’essa carica di immagini naturali (terra, sole, stelle, lucertole, grilli…), quasi visionariamente abbacinate, e patite con un’empatia fraterna e impietosita: «La terra è secca, ha sete / e si spacca. / Sui labbri dei crepacci / le lucertole arroventate / corrono in fiamme. // … La terra è secca, ha sete / e la notte è nera e perversa. / Cristo, dalle da bere, / ché vuol peccare / e farsi perdonare».

I colori ci sono, in queste poesie di Scipione, che evidentemente non si dimenticava di essere soprattutto un pittore: non solo i rosso-scuro e i neri dei suoi paesaggi romani, ma anche i gialli e gli ocra della terra bruciata dalla canicola, il verde dei campi, il blu di notti stellate. E c’è movimento, di carne umana e di sussulti animali, in una fisicità totale poco innocente, gravata come da una colpa: «Mise le mani per terra ed era simile / ad una bestia. / La terra ha tutti i nascondigli, / gli scarabei ronzano nell’aria. / La testa alla radice dei capelli brucia, / le spalle si aprono, le viscere si commuovono».

E ancora: «Gli odori colpiscono le narici, / le mani s’alzano a cercare / per toccare le cose create: / la pietra è fredda ‒ la carne è calda / e trascina intorno un fiato / che confonde la terra con il cielo».

Poi di nuovo: «Un uomo nudo cammina: / è bianco come un albero senza corteccia / e tutte le cose create vogliono toccarlo. / E lui taglierà gli alberi / dopo aver goduto della loro frescura, / prenderà i pesci del fiume, / gli uccelli che volano. / Nell’aria c’è il fuoco, / il tuono scoppia / e la folgore scrive nel cielo / il carattere di Dio. / Il timore, il timore di lui / spezza il corpo nell’adorazione».

Aveva ragione Amelia Rosselli quando scriveva dell’intensa religiosità percepibile in questi versi, nutrita forse di letture bibliche, e soprattutto dell’Apocalisse. Ma le divinità che governano il mondo allucinato di Scipione sembrano del tutto paganeggianti, faunesche, riecheggiando semmai le metamorfosi ovidiane, come in questa bellissima composizione con cui desidero chiudere la mia breve rassegna della poesia di questo sfortunato e quasi dimenticato artista:

Coro d’estate

«Io sono la voce dell’albero che cade, / la mia corteccia sarà accarezzata / quando si vedrà che dentro sono bianco. / Le mie radici sono d’avorio e sono / nascoste ‒ la terra fine le ricopre. / Il mio corpo è rotondo, / l’aria sola mi toccava. / Gli uccelli hanno nidificato nei miei rami, / i loro occhi vedevano tutte le mie braccia, / le foglie li nascondevano. / Sotto di me l’uomo si è riposato. / Io sono la voce del fanciullo, / le mie osse sono tenere e possono cadere / e non si romperanno. / Le mie gambe corrono, i miei piedi / non lasciano impronta. / Il timbro della mia voce somiglia / alla campana del mattino, / al bronzo leggero».

 

© Riproduzione riservata   «Il Pickwick», 21 dicembre 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SEELIG

CARL SEELIG, PASSEGGIATE CON ROBERT WALSER – ADELPHI, 1981

Robert Walser, scittore svizzero nato nel 1878, fu ricoverato in una clinica per malattie mentali nel 1929, e vi rimase fino alla morte, avvenuta nel 1956. Il suo disturbo psichico non fu mai diagnosticato con chiarezza: era probabilmente asociale, pativa di bruschi cambiamenti d’umore, talvolta si dimostrava aggressivo. Ma non risultò mai pericoloso, per se stesso o per gli altri: aveva un temperamento artistico squisitamente sensibile; in definitiva, era un poeta. Poco compreso dai suoi simili, poco sopportato dalla rigorosa società elvetica del primo 900. Per vent’anni il critico letterario Carl Seelig andò regolarmente a trovarlo in clinica, e si accompagnò a lui in lunghe passeggiate attraverso i boschi e le campagne dell’Appenzell, tra Herisau e San Gallo: in ogni stagione, con qualsiasi temperatura e situazione meteorologica. Le passeggiate compredevano non solo laute colazioni e pranzi in locande e osterie, innaffiati da buon vino e birra, e intervallati dal fumo di robusti sigari, ma soprattutto vivaci conversazioni di letteratura, con giudizi lucidissimi e trancianti che Walser esprimeva sia sugli scrittori più amati, sia su quelli a suo parere sopravvalutati. L’amore per i libri e per la cultura, i suoi stessi romanzi e racconti non erano bastati a farlo apprezzare dalla società letteraria: “Non aveva mai voluto far parte delle chiesuole…il divismo…gli dava semplicemente la nausea: gli sembrava di degradare lo scrittore a lustrascarpe”. Insieme a Seelig, che fu generosissimo mecenate e curatore dei suoi scritti, Walser preferiva la compagnia della natura, dei greggi e delle mandrie, degli osti e dei contadini, o quella silenziosa e sofferente dei degenti della sua clinica. Morì durante una passeggiata il giorno di Natale, nella neve che tanto amava, lui che “si struggeva come un bambino per un mondo di quiete, di purezza e d’amore”.

IBS, 13 aprile 2011

RECENSIONI

SEFERIS

GHIORGOS SEFERIS, LE POESIE – CROCETTI, MILANO 2017

L’editore Nicola Crocetti ha da poco pubblicato, curandone la traduzione, un’antologia di Ghiorgos Seferis, nato a Smirne nel 1900 e morto ad Atene nel 1972, quando vigeva la dittatura della Giunta dei colonnelli, a cui aveva saputo opporsi con dignitosa fermezza. Seferis fu autore prolifico di molte raccolte di versi, di prose diaristiche, di traduzioni e di saggistica, riuscendo a coniugare egregiamente il suo impegno intellettuale con l’attività diplomatica svolta ai massimi livelli, come console e ambasciatore in diversi paesi europei e mediorientali. I suoi volumi di versi coprono un quarantennio di produzione poetica, di cui l’attuale selezione fornisce un policromo ventaglio di stili e repertori, dal frammento al poemetto, dalla forma chiusa al tono colloquiale, proponendo in chiusura sia il discorso di accettazione del Premio Nobel del 1963, sia un’esaustiva nota biobibliografica.

Come ben sottolinea Nicola Gardini nella sua attenta prefazione, la poesia di Seferis «sembra la voce di tante voci», accoglie echi di esperienze formali e culturali diverse, dai classici greci al simbolismo europeo al modernismo di matrice eliotiana, con l’obiettivo di creare un’opera multiforme, liquida e mobile come il suo mare tanto decantato, non coriacea o monolitica, ma mobile e aperta, profonda e leggera insieme, ancorata al passato e proiettata nell’utopia di un riscatto futuro. Opera non ideologica, comunque, e nemmeno asfitticamente personalistica: la memoria drena ricordi collettivi, più che privati, e la nostalgia che pervade i suoi versi sa delinearsi come sentimento ed eredità universale.

«Non sento più alcun rumore / l’ultimo amico è sprofondato / strano come intorno tutto / ogni tanto si fa più basso / qui passano falciando / migliaia di mietitrici», «Questi volti e questi eventi ti seguivano / mentre svolgevi il filo per le reti da pesca sulla spiaggia / perfino quando navigavi col vento in poppa e guardavi la fossa delle onde; / in tutti i mari, in tutti i grembi / erano con te, erano la vita difficile e la gioia».

Il tempo, cosmico e individuale, crudelmente trasforma e cancella eventi e persone; la storia conosce progressi e involuzioni, produce massacri e promette liberazioni, imperscrutabile e inarrestabile nel suo cammino indifferente alle tragedie dei singoli: «Compagno, come siamo caduti in questo cunicolo di paura? / Non era scritto nel tuo destino, e neppure nel mio, / non abbiamo mai venduto o comprato merce simile; / chi è colui che comanda e uccide alle nostre spalle?», «perché abbiamo conosciuto così bene la nostra sorte / vagando tra pietre rotte, per tremila o seimila anni, / frugando in edifici diroccati che forse erano casa nostra, / tentando di ricordare date e gesta eroiche; ci riusciremo?».

Se la realtà e la storia rimangono indecifrabili, pur nella magnificenza delle loro impronte, naturali-mitiche-documentarie, forse solo la poesia può definirsi come rifugio e risposta, invito e cura, testimonianza e offerta. A lei, alla propria Musa, Ghiorgos Seferis dichiara la sua fede e il suo immutabile amore: «Scrivi, se puoi, sull’ultimo tuo coccio / il giorno, il nome, il luogo / e gettalo in mare perché affondi». E, se affonda, lo fa per tornare poi a galla, regalandoci luce, consolazione: «Ancora poco / e vedremo i mandorli fiorire / i marmi splendere al sole / il mare frangersi in onde; // ancora poco, / solleviamoci ancora un po’ più su».

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Le-poesie-Ghiorgos-Seferis.html      18 agosto 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

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