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RECENSIONI

STEINER

GEORGE STEINER, HEIDEGGER – GARZANTI, MILANO 2011

Se qualcuno fosse interessato ad avvicinarsi a Martin Heidegger, anche senza una preparazione filosofica specifica, credo che non esista introduzione più esaustiva e chiara del volume che gli ha dedicato nel 1978 George Steiner, pubblicato e più volte ristampato da Garzanti, intitolato semplicemente Heidegger. George Steiner (Parigi, 1929) è uno dei maggiori critici letterari mondiali: si è occupato non solo di narrativa classica e contemporanea, di teatro, di filosofia e di linguistica, ma ha indagato anche il rapporto politico esistente tra cittadini e Stato, soffermandosi sul concetto di libertà e di responsabilità etica nelle scelte individuali e collettive. Forse proprio per la vastità dei suoi interessi culturali, ha trovato in Heidegger l’espressione più compiuta di pensatore del XX secolo, in quanto in ciascuno di questo ambiti il filosofo di Messkirch (1889-1976) ha giocato un ruolo determinante, sebbene molto discusso, di guida e provocatorio maestro.

Ebreo, orgogliosamente consapevole di quanto la sua origine, la fede dei suoi padri e le sofferenze del suo popolo abbiano contribuito a formare la sua coscienza di uomo e studioso, Steiner non fa dell’adesione di Heidegger al nazismo (pur stigmatizzata in uno dei capitoli del volume) il nucleo centrale e rancoroso della sua critica, rivalutando invece pienamente l’importanza fondamentale del filosofo, che considera il più influente e profondo del ‘900. «Heidegger è stato l’esempio moderno di una vita rivolta alla causa della ricerca intellettuale e morale. Poiché Heidegger è stato tra noi, si è affermato il concetto che porre delle domande è la suprema forma di pietà dello spirito, e la credenza che il pensiero astratto è l’eminente privilegio e il fardello dell’uomo».

I punti centrali e più originali della teorizzazione heideggeriana vengono enucleati da Steiner nella loro primaria rilevanza. In primo luogo, il dovere umano di porsi delle domande sul significato dell’esistenza (perché l’essere, cos’è l’essere); secondariamente, la capacità di provare stupore, meraviglia e gratitudine nei confronti del semplice e momentaneo vivere nel tempo. Accanto a queste due questioni fondamentali, i nodi principali della ricerca di Heidegger sono «la revisione radicale del modello platonico, aristotelico e kantiano di verità e logica, la sua teoria dell’arte, le sue riflessioni sulla tecnologia, il suo modello di linguaggio». La filosofia occidentale si è corrotta nelle sue tradizioni metafisiche (Platone) e scientifiche (Aristotele e Cartesio), che hanno oscurato e obliato il mistero dell’Essere, quale invece era stato intuito dai presocratici, rendendo alienata, estraniata e assoggettata alla tecnologia, al consumismo e alla banalità della chiacchera quotidiana la condizione dell’uomo moderno, che si sta avviando a una deriva nichilista. Nel suo capolavoro incompiuto Essere e tempo (1927) Heidegger auspica quindi un necessario ritorno alla «dimora dell’Essere», all’autenticità dell’”esserci” nella realtà del mondo, attraverso la “cura”, la preoccupazione per gli altri, e la riscoperta della verità, attingibile nell’arte e nella poesia.

Il pensiero di Heidegger, il suo scavo nell’etimologia per recuperare il senso pieno del linguaggio, il suo recupero dei filosofi e tragici greci, la sua dialettica tortuosa e irrisolta ma dinamica, sempre in ricerca lungo un “sentiero” che conduca a una “radura” illuminata nell’oscurità del bosco che ci circonda, ha influenzato tutta la filosofia, la teologia, la psicanalisi, l’estetica e la linguistica contemporanea, da Sartre a Derrida, da Bultmann a Rahner, da Gadamer a Lacan (e in Italia, da Severino a Galimberti e a Cacciari). Imprescindibile, quindi, accostarsi ai testi di Heidegger, accompagnati magari dalle straordinarie pagine di George Steiner.

 

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https://www.sololibri.net/Heiddeger-Steiner.html      22 maggio 2018

RECENSIONI

STEINER

GEORGE STEINER, ERRATA – GARZANTI, MILANO 1998-2008

Mi sono spesso domandata come mai i libri di George Steiner, e la sua intera vita, suscitino in me un così vivo interesse, e una forte partecipazione emotiva, unita a una vivida corrente di simpatia umana. Non è solamente perché, a differenza di molti critici letterari, Steiner si esprime sulla pagina con una sapienza non tediosa o saccente, e con una buona dose di leggerezza ironica; non è nemmeno per la vastità dei suoi interessi e l’enciclopedismo della sua cultura, per quanto queste doti provochino non solo la mia ammirazione, ma anche una certa benevola invidia. Ma è soprattutto la profonda umanità, lontana da ogni accademismo, che trapela dai suoi scritti che mi conquista, perché la si avverte generata e nutrita dal terreno fertile di una passione totale e incontenibile per il sapere, in ogni aspetto – luogo e tempo ‒ esso si manifesti o si sia manifestato.

L’autobiografia uscita una ventina di anni fa da Garzanti ha il pregio di introdurci a un percorso intellettuale ed esistenziale di grande rilevanza, di pacato ma solido addestramento mentale. Già dal titolo Errata che, nella sua ammiccante modestia, in bibliografia rimanda agli errori commessi nella stampa di un libro. Mentre il sottotitolo, Una vita sotto esame, sottintende giocosamente chi sia il giudice più severo del cammino umano e professionale dell’autore.

Nato a Parigi nel 1929 da una colta famiglia ebraica di origine austriaca, che si trasferì negli Stati Uniti nel 1940 per sfuggire all’antisemitismo diffuso in Europa, Steiner è stato celebrato critico letterario per il New Yorker, The Economist e il Times literary supplement; ha occupato prestigiose cattedre universitarie a Ginevra, Oxford, Princeton, Stanford. Si è interessato soprattutto di linguistica (impegnandosi a farla uscire dalle strettoie puramente accademiche dello strutturalismo), di comunicazione e di traduzione, intese anche nel loro rilievo etico e sociale. Multiculturalismo e multilinguismo sono sempre stati da lui considerati come un arricchimento per l’umanità intera: Babele diventa simbolo di vitalità ed energia, non di anarchia, indebolimento o perdita di identità, poiché è capace di generare realtà alternative, proiettate nel futuro, mentre l’egemonia totalizzante delle lingue maggiori ha condotto a un processo di massificazione e livellamento della cultura occidentale. Forse per questa sua diffidente insofferenza soprattutto nei riguardi dell’inglese, Steiner non è tra i massimi estimatori di Shakespeare, che considera “disuguale, eteroclito, ridondante, inferiore a se stesso, come lo è la natura umana… tragicomico in ogni fibra”. Tra gli autori teatrali, apprezza ovviamente i tragici greci (The death of tragedy, 1961; Antigones, 1979), e poi Racine: sobrio, rigoroso, lucido e introspettivo, il cui riguardo verso l’essenzialità e la dignità morale ha avuto come erede Beckett.

Cosa intenda Steiner per “classico” è facilmente intuibile. In letteratura, come nell’arte, nella musica o nella filosofia, esso ci trasforma, modifica la nostra coscienza in modo talvolta traumatico o inatteso, non si accontenta di venire solo recepito o capito, ma richiede una nostra re-azione, riordinandoci o dislocandoci nello spirito e nelle idee, provocando “scosse sismiche interiori”. “Il classico possiede il diritto imperioso di esigere e di generare una risposta, una ripetizione attiva… va letto con una matita in mano”.

Oggi ci riconosciamo tutti epigoni di una grandezza irripetibile, testimoni di un crepuscolo intellettuale e culturale inevitabile, vittime come siamo del culto dell’effimero, e indifferenti alla durata nel tempo. Temiamo non possano più nascere un Rembrandt, un Dante, un Mozart: ma non possiamo nemmeno escludere la possibilità di ulteriori e stupefacenti riprese artistiche e teoriche.

L’amore per la musica (“La musica mi trasporta spesso ‘fuori di me’ o, più esattamente, in una compagnia molto migliore di me stesso”), la venerazione che George Steiner confessa per i grandi creatori di armonie del passato ‒ da Bach a Schubert, da Brahms a Schönberg ‒ deriva dalla consapevolezza che l’unico linguaggio davvero universale e unificante è appunto quello musicale, “esperanto delle emozioni”, capace di trasportarci al di là di ogni confine puramente materiale, lasciandoci intuire un trascendente che ci disincarna. Mentre il discorso parlato e scritto rimane lineare e sottoposto a una sequenza temporale, la musica utilizza un linguaggio più libero, a volte contradditorio e incoerente, che risponde solo a se stesso, alieno alla verità e alla menzogna anche nella sua molteplicità e polifonia.

Pittura, poesia, musica e filosofia riescono a farci superare ogni meschina differenza o diffidenza che possa sorgere all’interno delle nostre comunità, ignorando sterili nazionalismi: «Si può essere a casa propria dappertutto. Datemi un tavolo da lavoro, sarà la mia patria», si è sempre vantato Steiner, indagatore instancabile di paesi, lingue, tradizioni diverse, e tuttavia orgogliosamente fiero delle proprie radici ebraiche, e persino dello stigma persecutorio patito dal suo popolo. Agli ebrei riconosce un’eccellenza intellettuale e caratteriale che li ha resi ovunque diversi, e invisi agli altri popoli, soprattutto per la severità dei dettami morali e delle regole rituali, basate su una teologia e una metafisica totalizzante che li ha qualificati come “krank an Gott”, malati di Dio: in qualche modo eternamente “altro” nei confronti di un mondo rimasto estraneo.

L’altera rivendicazione dell’irriducibile singolarità dell’ebraismo viene giustificata da Steiner con la convinzione della supremazia dell’intelligenza su qualsiasi altra dote umana, al punto da ritenere, manifestando un utopismo ingenuo ed elitario, che solo un’élite di menti elette e illuminate potrebbe essere in grado di guidare le masse, indifferenti ai valori culturali, e interessate esclusivamente a una sopravvivenza a-problematica e garantita: “È incontestabile che per quasi tutta la specie homo sapiens sapiens la fede mondiale attuale sia il calcio”, mentre le arti e il pensiero vengono considerati come “un gioco più o meno ozioso o un lusso evidente”.

“Anarchico platonico” come si definisce, lo studioso cosmopolita non ha mai aderito a uno schieramento politico particolare, dichiarandosi pronto tuttavia ad appoggiare qualsiasi ordine sociale fosse in grado di diminuire la sofferenza nel mondo, favorendone il progresso e la pace.

A parte qualche perdonabile traccia di narcisismo (più che giustificata, visto lo spessore intellettuale del personaggio), e alcune insistite prese di posizione ideologiche, discutibili nella loro spontanea imprudenza, tutta questa biografia risulta piacevolmente leggibile, soprattutto nelle pagine più direttamente personali, rievocanti l’infanzia e gli anni di formazione. Iniziando dal ricordo del padre, illustre e coltissimo banchiere ebreo nella Vienna del primo Novecento, che volendo assolutamente fare del figlio un umanista, lo aveva invogliato a leggere l’Iliade in greco a soli sei anni, e lo cresceva impartendogli in tre lingue lezioni di filologia, di musica classica e di Talmud (“Mio padre fece della mia infanzia una festa esigente”). Gli anni del liceo francese a Manhattan lo abituarono a convivere con ambienti e sistemi educativi diversi, tra profughi ed esiliati, o figli di diplomatici e di plutocrati.

L’università a Chicago alla fine degli anni Quaranta (“una megalopoli di pura intensità”) lo avvicinò a nuove avventure dello spirito, con la scoperta del jazz, l’interesse per la scienza, le tensioni razziali, le interminabili discussioni politiche tra coetanei, le prime esperienze sessuali, il poker, lo sport: “quelle arti dell’ordinario che sono le più difficili da acquisire per un topo di biblioteca, un privilegiato intellettuale ebreo”. Fu allora che raggiunse la consapevolezza di voler diventare un insegnante, in una notte in cui aveva aiutato i compagni a interpretare un racconto di Joyce, conquistandone una stima rispettosa, ammirata e commossa. “Da quella notte in poi, le sirene dell’insegnamento e dell’interpretazione hanno cantato per me”.

Non solo insegnante, però. L’ansia e la voluttà di imparare hanno assediato ogni attimo della vita di George Steiner, con il timore di avere disperso e sprecato molte energie in troppe ramificazioni del sapere, e il rammarico di non averne approfondite ancora di più: “Rimane in me la sofferenza all’idea delle porte che non ho aperto: la mia ignoranza del russo da una parte, la mia incapacità di accedere all’Islam dall’altra… Adesso che la mia fine si avvicina, so che la mia solitudine affollata, che l’assenza di qualsiasi scuola o movimento nato dalla mia opera e la somma delle imperfezioni sono, in gran parte, colpa mia”. Basterebbe tuttavia leggere lo splendido ultimo capitolo di questa autobiografia per convincersi dei meriti, ben maggiori delle eventuali colpe, di questo grande, saggio e lucido intellettuale.

Maestro e discepolo insieme, ha vissuto dedicandosi allo studio, alla riflessione, all’esegesi, alla passione per il linguaggio in ogni sua espressione: l’esistenza, per quanto lunga e piena di incontri, avvenimenti e libri, è comunque troppo breve per chi come lui, polymath versatile e vorace, ha sempre manifestato la necessità e il desiderio di sopravvivere alla propria transitorietà umana.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 27 agosto 2019

RECENSIONI

STEINER

GEORGE STEINER, LA POESIA DEL PENSIERO – GARZANTI, MILANO 2012

George Steiner, critico letterario di fama mondiale, è nato a Parigi nel 1929 da una colta famiglia ebraica di origine austriaca, che si trasferì negli Stati Uniti nel 1940 per sfuggire all’antisemitismo diffuso in Europa. Firma prestigiosa per il New Yorker, The Economist e il Times literary supplement, ha occupato diverse cattedre universitarie, a Ginevra, Oxford, Princeton, Stanford. Si è interessato soprattutto di linguistica (impegnandosi a farla uscire dalle strettoie puramente accademiche dello strutturalismo), di comunicazione e di traduzione, intese anche nel loro rilievo etico e sociale. Culturalmente la sua ricerca, radicata nella cultura classica, ha attraversato molti campi di indagine: dal teatro alla musica, dalla religione alla politica.

Nel volume La poesia del pensiero, pubblicato a New York nel 2011 e da Garzanti l’anno  seguente, l’attenzione dell’autore si focalizza sul rapporto tra linguaggio poetico e filosofia, a partire dalle origini del pensiero occidentale, in un’ottica però assolutamente eurocentrica, che esclude le culture orientali e le Americhe. Qui Steiner si propone di indagare «le collisioni, le complicità, le compenetrazioni e le commistioni tra filosofia e letteratura, tra il poema e il trattato metafisico», nella convinzione che «il pensiero nella poesia e il poetico del pensiero sono atti della grammatica, del linguaggio in movimento. I loro mezzi, i loro vincoli sono quelli dello stile». Addirittura, tutta la filosofia è in primo luogo “stile”, inseparabile dai suoi contesti semantici. Pertanto, in principio era la parola, e anche se poesia e filosofia sembrano avere finalità diverse – la prima aspira a re-inventare il linguaggio, la seconda si adopera per rendere il linguaggio rigorosamente trasparente, per liberarlo da ambiguità e confusione –, entrambe utilizzano lo stesso mezzo espressivo, contaminandosi a vicenda.

Già a partire dai primi frammenti dei presocratici, l’articolazione e la comunicazione di un concetto si è assoggettato alla dinamica e alle limitazioni del “soffocante recinto del linguaggio” e della sua sintassi. Il miracolo della nascita del pensiero astratto in Grecia tra VI e V secolo ha avuto come protagonisti figure eccezionali nell’anticipare teorie fisiche, cosmologiche, geometriche utilizzando la visionarietà del mito, la fantasmagoria della metafora. Steiner non lesina gli esempi: Eraclito, che con la sua oscura densità, la sua ambiguità semantica e le elisioni paratattiche fu amato da Nietzsche e Wittgenstein, filosofi «inclini al rapsodico e all’oracolare». Parmenide, su cui Heidegger scrisse lezioni magistrali. Empedocle, ieratico e seduttivo, che con la musicalità delle sue Purificazioni affascinò i teorici del romanticismo. Zenone venne citato da Valéry nel Cimetière marin, mentre l’atomismo materialistico di Democrito rimase un faro luminoso nel pantheon marxiano.
L’ibridismo tra parola immaginativa e parola razionale ha segnato per più di duemila anni la produzione filosofica occidentale, e autorevolmente George Steiner ne indica come primo artefice Platone. I dialoghi e le lettere del filosofo ateniese «sono atti letterari performativi che restano insuperabili per ricchezza e complessità»: nell’Apologia, nel Fedone, nel Simposio la figura di Socrate assume la grandezza morale del Cristo evangelico, grazie alla resa teatrale e tragica, liricamente ispirata, di quella prosa. Se è vero che Platone condannò la poesia e i poeti come corruttori del costume pubblico e ingannevoli inventori di illusioni, è perché diffidava e temeva l’attrattiva del «sommo drammaturgo, creatore di miti e narratore di genio presenti nelle proprie potenzialità». Il dialogo come genere letterario, che lo ebbe come eminente iniziatore, mette in scena l’oralità, nel metodo di interrogazione, confutazione, correzione tra due o più protagonisti: ha avuto degni rappresentanti in Cicerone, Luciano, Agostino, Abelardo, Galileo (scienziato-filosofo-scrittore arguto anche nel postillare opere di Petrarca, Ariosto e Tasso), Berkeley, Hume, fino a Paul Valéry: tutti loro, nello scambio democratico delle opinioni espresse verbalmente, recuperavano un fecondo e stimolante clima antiautoritario e antisistematico.

Nel quinto capitolo del volume, Steiner ci offre alcuni ritratti di famosi filosofi che hanno fatto dello stile letterario un carattere distintivo della loro realizzazione teorica. A iniziare da Cartesio, «algebrista metafisico… virtuoso del congiuntivo e del trapassato», appassionato di poesia e in particolare dei classici latini su cui modellò la sua prosa, vigorosa ed elegante: a lui il poeta tedesco Durs Grünbein ha dedicato un poemetto pubblicato da Einaudi nel 2005. Poi Hegel, sintatticamente tortuoso, lessicalmente plumbeo, intenzionalmente oscuro, poiché pretendeva dai lettori lo sforzo laborioso dell’interpretazione e della concettualizzazione. L’inacessibilità della sua scrittura, che aspirava «alla collisione con la materia inerte del luogo comune», è diventata un tratto caratterizzante di molti letterati e filosofi moderni: da Pound a Joyce e Celan, da Adorno a Lacan e Derrida. E ancora Marx, in cui «retorica analitica e profetica» e utilizzo pungente della satira rivelavano analogie con la pratica rabbinica e il dibattito talmudico; Nietzsche, che sapeva magistralmente fondere speculazione astratta, poesia e musica con un’incredibile virtuosità stilistica; Bergson, premio Nobel per la letteratura nel 1927, che influenzò tutta la produzione letteraria europea tra le due guerre; Freud, che aspirando al Nobel per la medicina ricevette invece il premio Goethe per la sua scrittura. Lo stile aforistico, frantumato, oracolare di Wittgenstein affonda le sue radici nei frammenti eraclitei e nelle anafore di Blake e Rimbaud, più che in qualsiasi altra opera formalmente filosofica.

Ma è stato soprattutto Martin Heidegger che ha individuato nella simbiosi tra poesia e pensiero, tra espressione performativa e argomentazione teorica («pensiero poetante, poesia pensante») l’occasione di rinascita di un linguaggio in grado di recuperare l’autenticità dell’Essere. I suoi impareggiabili commenti a Sofocle, George, Mörike, Rilke, Trakl, Hölderlin, Char, Celan hanno arricchito vicendevolmente letteratura e filosofia, indicando nell’atto ermeneutico della lettura l’unica possibilità di penetrazione e appropriazione nel/del logos. La stessa prosa di Heidegger, così ermetica, ha avuto un impatto linguisticamente innovativo, con i suoi arditi neologismi e l’ostinata paratassi: Paul Celan ne seppe fare tesoro nelle sue criptiche composizioni.

Lungo tutto il XX secolo la compenetrazione tra poesia e filosofia è divenuta assoluta e inestricabile: dopo Bergson, ogni filosofo è stato anche scrittore, e viceversa. Ma a quale linguaggio si affida il pensiero novecentesco? Non più a quello lineare e intellegibile della classicità, bensì a codici operanti una frattura tra significante e significato, attigui spesso al silenzio e all’incomunicabilità, non più tesi alla verbalizzazione del reale, perché consapevoli della non-veridicità della parola, sempre opaca e illusoria. La lingua infatti non può competere con l’universalità della musica o della matematica: la prima ha un’intrinseca capacità di simultaneità polisemantica, che può raggiungere ed emozionare chiunque, in ogni luogo e tempo; la seconda è precisa, affidabile, trasparente, autosufficiente. Il linguaggio è invece ambiguo, equivocabile, indeterminato: quello della poesia, poi, è per sua natura evocativo, misterioso, velato. Ma proprio in questa enigmaticità sta la sua originale ricchezza, cui George Steiner si appella contro l’impoverimento attuale della comunicazione, standardizzata, ridotta a gergo minimalista oppure a tecnicismi inerti. E, da umanista “arcaico” come si definisce, si augura che poesia e pensiero ritrovino i loro spazi di silenzio e intimità, che «da qualche parte un cantore ribelle, un filosofo ebbro di solitudine» sappia ancora regalare al mondo l’emozione del pensiero poetante di cui parlava Heidegger.

 

© Riproduzione riservata                 «Nazione Indiana», 8 novembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

STENDHAL

STENDHAL, LA BADESSA DI CASTRO – LEONE, TREVISO 2014

E’ l’ultima e la meglio riuscita tra le Cronache Italiane pubblicate da Stendhal (1839): lunghi racconti che lo scrittore aveva tratto da manoscritti italiani secenteschi. La narrazione, la vicenda, i protagonisti, richiamano a tratti I Promessi Sposi, di cui Stendhal fu attento lettore; però con una distinzione fondamentale. Mentre Manzoni fa dei due innamorati due vittime che patiscono la violenza, in balia di eventi e soprusi tanto più grandi di loro, Stendhal narra di una giovane nobile, Elena di Campireali, che si innamora di un brigante, Giulio Franciforte, scegliendo con l’amante il proprio destino di transfuga, di ribelle, e contribuendo a edificarlo anche con l’assunzione in prima persona del male, della colpa.
Chi erano, nel 1500, i briganti, se non «l’opposizione contro i governi atroci»? Giulio si fa brigante per Elena, per essere degno del suo amore, per poterle comparire di fronte vestito riccamente. Elena sfida la violenza del padre e del fratello, esce di notte dal palazzo o vi fa entrare l’amico, è determinata e coerente. La famiglia, il paese, le bande dei briganti si appropriano della storia dei due giovani, ne fanno una storia loro, parteggiando per l’una o per l’altra fazione, in un susseguirsi di appostamenti, spionaggi, dicerie sparse ad arte. Durante un combattimento, Giulio uccide il fratello di Elena, e lei è costretta a rinchiudersi in un convento. A nulla vale un tentativo di rapimento organizzato dai briganti, e la scomunica pontificia obbliga Giulio a partire per la Spagna.
Con ironico disprezzo, l’anticlericale Stendhal fa della curia romana un coacervo di intrighi, interessi, simonie; mentre nei conventi le monache gioiscono di reciproche cattiverie e ripicche, danno appuntamenti agli amanti, si circondano di oro e di guardie. Come la Monaca di Monza del Manzoni, Elena, cui la madre ha fatto credere che Giulio sia morto, diventa badessa del convento e intreccia una breve relazione con un vescovo, per noia e per “libertinaggio”, come lei stessa confessa in una umanissima lettera. Quando lo scandalo viene scoperto, i due colpevoli sono condannati all’ergastolo. Alla vigilia della fuga organizzata dalla madre della badessa, e prima del ricongiungimento con Giulio riapparso dalla Spagna, Elena si nega alla felicità e al perdono dell’antico amante, uccidendosi.
E’ un altro grande ritratto femminile, quello che ci offre Stendhal in queste scarne pagine: di una donna che rifiuta le convenzioni in un secolo che si nutre di esse, e non si umilia, assumendo invece fino in fondo le proprie responsabilità.

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/badessa-di-castro-stendhal.html     22 ottobre 2015

RECENSIONI

STORNI

ALFONSINA STORNI, POEMAS DE AMOR – CASAGRANDE, BELLINZONA 1988

Il Ticino è terra di frontiera e, come tale, ha ovviamente elaborato una cultura di frontiera, in bilico sempre tra l’attrazione – e il senso di inferiorità – per ciò che è diverso, pur essendo vicino, e il rifiuto del confronto, con la conseguente chiusura e provincializzazione. Va dato atto a questo Cantone, tuttavia, di avere negli ultimi decenni cercato ostinatamente una terza via alla riscoperta della propria identità, alla modulazione di accenti culturalmente nuovi. Ne sono una riprova i vivaci fermenti che animano le città ticinesi in campo editoriale, giornalistico, cinematografico e televisivo, ma anche sociale e di costume. A questi sforzi noi italiani in Svizzera dovremmo guardare con maggiore interesse e simpatia, cominciando magari a studiare gli autori ticinesi più noti e le nuove promesse con l’attenzione che meritano. Nell’ottica di un recupero di autori sottovalutati o misconosciuti va letta ad esempio la proposta delle Edizioni Casagrande di Bellinzona, che offrono al pubblico italofono l’elegante volume Poemas de amor di Alfonsina Storni. La Storni nacque a Sala Capriasca nel 1892, e a soli quattro anni seguì i genitori emigranti in Argentina. Fornita di un carattere indomito, e di una coscienza femminile insolita in quegli anni, Alfonsina conobbe le difficoltà e i patimenti di una vita controcorrente. Inquieta, visse tra San Juan, Rosario e Buenos Aires, adattandosi a svolgere un po’ tutti i lavori: da operaia in un berrettificio a sorvegliante scolastica, da corista a cassiera, da impiegata a direttrice di collegio, finché non le riuscì di vivere della sua arte, corrispondente dei principali quotidiani argentini e collaboratrice di importanti riviste letterarie. Insieme con le contemporanee Gabriela Mistral, cilena, e Juana de Ibarbourou, uruguayana, formò la triade più nota della poesia femminile sudamericana del primo 900, riscuotendo ampio successo di critica e di pubblico. Il suo anticonformismo, la sua fervida vitalità e l’intraprendenza intellettuale che la caratterizzarono non bastarono tuttavia a metterla al riparo da crisi depressive e dal suicidio, avvenuto nel 1938: Alfonsina, quarantaseienne, si gettò nell’Atlantico a Mar de Plata. Questa sua scelta, tuttavia, non si può comodamente liquidare come desiderio di annullamento, o volontà di porre termine alla sofferenza, ma va letta come intenzione di fondersi, nel mare, con il tutto (si vedano le poesie Partenza, Dolore, Un cimitero che guarda il mare, Io in fondo al mare, e l’ultimissima Vado a dormire), e necessità di sopravvivere oltre la morte. Già nel 1973 la Fondazione Ticino Nostro aveva dedicato alla poetessa una poderosa antologia, in cui la produzione in versi della Storni veniva classificata tematicamente, secondo un criterio piuttosto discutibile. Sarebbe stato assurdo fare di un’autrice così poco ticinese (come cultura e carattere) e impregnata, invece, di vita argentina, un vessillo di elveticità, e giustamente il prefatore di allora scriveva: «Non si tratta da parte nostra di un omaggio senza provate giustificazioni, si tratta piuttosto di un debito che il paese d’origine intende riconoscere, della sconfessione di una possibile dimenticanza e indifferenza».

La stessa giustificazione vale, a 50 anni di distanza dalla morte della poetessa, per la traduzione e la pubblicazione di questi Poemas de amor, usciti per la prima volta a Buenos Aires nel ’26. Il volume, a cura di Franca Cleis, Marinella Luraschi, Pepita Vera, si apre con un saggio in spagnolo e in italiano della studiosa argentina Beatriz Sarlo che, in maniera ideologizzante e pregnante, ripercorre tutto l’iter poetico della scrittrice, dall’iniziale retorica tardo romantica della prima raccolta, alla gradevole cantabilità delle poesie erotiche e femministe («Io sono come la lupa. Me ne vado sola e rido del branco…»), fino all’abbandono della soggettività per un più accentuato cerebralismo delle ultime prove. Esemplari di questo processo evolutivo sono appunto i Poemas, brevi prose liriche che, se non conoscono la scansione in versi, hanno tuttavia lo stesso incanto e leggerezza delle poesie. La suddivisione dell’opera in quattro momenti (sogno, pienezza, agonia, notte), che acutamente le curatrici attribuiscono alla reminiscenza di un sonetto di Emily Dickinson, ripercorre l’emozione femminile dell’innamoramento, a partire dall’esaltazione vissuta quasi con furore mistico, attraverso la follia consapevole dell’impeto del proprio eros, per arrivare all’umiliazione della preghiera, della questua, e alla notte dell’abbandono, raccontata in un’unica, memorabile, composizione: «Dal tuo essere mortale estraggo ora – ormai distante – l’aeriforme fantasma che coi tuoi occhi guarda e con le tue mani accarezza, ma che non ti appartiene. E’ mio, totalmente mio. Mi rinchiudo con lui nella mia stanza e quando nessuno, nemmeno io, sente e quando nessuno, nemmeno io, vede e quando nessuno, nemmeno io, sa, prendo il fantasma tra le mie braccia e all’antico ritmo del pendolo, lungo, grave, solenne, cullo il vuoto».

 

«Agorà» (Svizzera), 4 gennaio 1989

RECENSIONI

STRAZZABOSCO

STEFANO STRAZZABOSCO, L’ESERCIZIO IPSILON – RONZANI EDITORE, VICENZA 2018

L’esercizio ipsilon è una tecnica di allenamento messa in atto nel gioco del rugby per dribblare con finte gli avversari. È anche il titolo scelto da Stefano Strazzabosco per la plaquette recentemente pubblicata dall’editore vicentino Ronzani.

Avversari interni ed esterni, subdoli e minacciosi, sono quelli continuamente evocati da queste venti poesie: si aggirano tra un dentro che non offre riparo né consolazione, e un fuori pronto all’agguato. Versi tesi in una dimensione di denuncia e di allarme civile e politico, sebbene mai retoricamente altisonanti o proclamatori, e invece allusivi a un pericolo oscuro, accanito (“Sanno tutto / di te che non li vedi”, “Osservano / dalle vetrine trasparenti”). Talvolta la persecuzione è però plateale, esibita, fiera di sé; una vera “Santa Inquisizione dei Carnefici”: “Sia aperta la caccia alle streghe. / Si versi un po’ d’olio bollente / sugli eretici e i tristi”, “Qualche volta si toglie / la pelle all’indiziato, / gli si cavano gli occhi”.

Giustamente scrive Paolo Lanaro nell’introduzione che in Strazzabosco viene ribadita la contrapposizione tra un “loro” fatto di sopraffattori e un “noi” costituito da vittime, separati più che da una differenza di classe da una differenza antropologica. La realtà a cui conduce questa distinzione non è però immediatamente decifrabile, dato che la terminologia ricorre frequentemente a sostantivi e attributi che indicano vaghezza, intangibilità, inconsistenza (sabbia, cenere, pulviscolo, remote nuvole), oppure prigionia, chiusura, buio (cantina, tana, sonno, notte, macerie, ghiaccio, ingranaggio, soppressione, detenzione). La successione temporale non è definita con nitidezza (“L’altra volta / è questa stessa volta”, “questa notte o l’altra”), causa ed effetto si invertono nelle azioni e nei pensieri (“poi una / rosa rossa trapassa una spina”, “l’aratro è lì, davanti ai buoi”), ad aumentare sconcerto e timore.

Necessario nella sua evidenza è pertanto l’esergo alla silloge tratto dai Four Quartets eliotiani: “We had the experience but missed the meaning”, a confermare l’insignificanza e l’incomprensibilità delle storie quotidiane e personali, come di quelle collettive. L’influenza di Eliot, e l’omaggio alla sua poesia, non si limita all’epigrafe iniziale, o alla citazione del “giardino delle rose”: percorre forma e contenuti di tutti i componimenti qui presentati. Nel ricorrente passaggio tra io-tu-noi-essi, in una certa sentenziosità eticamente rigorosa, nell’utilizzo di neologismi e vocaboli stranieri (fotoshoppato, raion, spritz, sim, monitor, bancomat, sneaker), nell’ironia verso l’ambiente circostante (“Si dorme / col pigiama di orsetti in questa bella / città”, “la testa / mozzata continua a guardare le / vetrine rotolando”), e soprattutto nell’uso della sintassi, frammentata e spesso involuta, e nello sguardo di chi scrive, osservando e valutando da una posizione distaccata, con uno sconforto che non si riduce alla condanna (“vanno / capiti anche loro”), ma rivela apprensione, turbamento. Insieme alla consapevolezza che se la voce del poeta non serve, non basta a cambiare lo stato delle cose (“Tu, / cosa vuoi”), rimane comunque indizio di resistenza.

 

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https://www.sololibri.net/L-esercizio-ipsilon-Strazzabosco.html       12 giugno 2019

 

 

 

RECENSIONI

STRINDBERG

AUGUST STRINDBERG, SOLO – SALERNO, ROMA 1992

Verso la fine del lungo racconto Solo, August Strindberg (Stoccolma 1849-1912) pone in bocca al suo protagonista alter-ego questa confessione: “La solitudine mi ha reso ipersensibile, come se la mia anima fosse priva delle protezioni della pelle, e sono ormai così viziato dalla libertà di governare i miei pensieri e i miei sentimenti che non riesco quasi a sopportare il contatto fisico con un’altra persona. Di più: qualsiasi persona mi si avvicini mi fa un effetto soffocante per il fatto stesso di invadere con la sua la mia sfera spirituale”.

La novella era stata commissionata allo scrittore svedese dal suo editore Bonnier nel maggio del 1903, e composta nell’arco di un mese. Inizialmente doveva ribadire il tema della solitudine, già indagato da Strindberg in molte opere narrative e teatrali, come fonte di sofferenza patologica, generatrice di angoscia, sensi di colpa e manie di persecuzione. In realtà l’analisi approfondita dell’argomento sfociò in una valutazione positiva dell’isolamento dalla vita sociale, come possibilità di scavo interiore e metamorfosi morale, approdo a una maggiore libertà personale, indipendenza dalle convenzioni e padronanza dei propri istinti.

L’io narrante è uno scrittore che, tornato nella sua città natale dopo un periodo di lontananza, non riesce più ad adattarsi alle abitudini e all’ideologia della ingessata classe sociale cui appartiene. Quindi affitta una camera ammobiliata da cui esce solo per brevi passeggiate, evitando ogni rapporto con il prossimo che non sia quello puramente formale della sopravvivenza quotidiana.  Le sue peregrinazioni attraverso Stoccolma, nello scandire meteorologico delle varie stagioni, non è solo un’osservazione visiva e uditiva di ciò che lo circonda, spietatamente analizzato nei comportamenti degli esseri umani e animali incontrati, ma soprattutto una continua rielaborazione mentale di ricordi, progetti, letture, esperienze vissute e ricostruite immaginosamente. “Così sono rimasto a poco a poco solo, limitandomi ai rapporti superficiali a cui mi obbligava il mio lavoro e che di solito sbrigavo per telefono. Non voglio negare che all’inizio fosse difficile e che il vuoto che circondava la mia persona esigesse di essere riempito. Nel rompere i contatti con gli altri ebbi dapprima l’impressione di perdere energia, ma intanto il mio io cominciava come a coagularsi, ad addensarsi intorno a un nucleo in cui si riunivano, si fondevano le mie sensazioni, e la mia anima le assorbiva come nutrimento. Inoltre mi abituai a dare corpo a qualsiasi cosa vedessi o udissi in casa, per la strada o nella natura, e nel trasferire ogni mia percezione al lavoro in corso sentivo crescere il mio capitale; così, gli studi che facevo in solitudine risultavano più significativi degli studi sulla gente nella mia vita di società.”

Strindberg stesso aveva vissuto un auto-esilio forzato tra il 1883 e il 1889, poiché il suo inquieto anticonformismo e la sua scrittura di denuncia radicale l’avevano messo al bando del mondo letterario, così come la sua tribolata e contraddittoria esistenza professionale e sentimentale aveva avvolto la sua persona in un’aureola leggendaria di misantropia e ribellione politica.

Solamente nell’attività materiale dello scrivere il protagonista del racconto recupera la propria naturale disposizione creativa: “La solitudine, la solitudine è produttiva”, mentre il relazionarsi con l’altro da sé gli crea una sorta di ripugnanza fisica, che modifica addirittura la percezione dei cinque sensi, in un progressivo estraniamento dalla realtà. I visi di vecchi e bambini gli appaiono deformati e imbruttiti, le voci e i suoni esasperati e stridenti, odori e sapori esaltati e disgustosi, in una continua sovrapposizione di quadri sensoriali deliranti. Nella riflessione sul suo stato mentale, e nella ricomposizione di esso sulla pagina trova comunque un potenziamento della propria interiorità, capace di rispecchiare le varie anime dell’esistente.

“Quando però torno a casa e mi siedo alla scrivania mi sento veramente vivo…sguscio fuori dalla mia persona e parlo come fossi un bambino, una donna o un vecchio: sono re e mendicante, sono il signore potente, il tiranno e il più disprezzato, il ribelle sconfitto; qualsiasi opinione mi appartiene e qualsiasi religione è la mia; vivo in qualsiasi epoca, e io stesso non esisto più”.

Solitudine, quindi, non come impoverimento ma come possibilità di crescita e di ricchezza individuale e collettiva, scandaglio interiore e giudizio sociale: “In conclusione la solitudine è questo: avvolgersi dentro al filo di seta che fila la nostra anima, diventare crisalide e aspettare la metamorfosi. Viviamo, intanto, delle nostre esperienze, e telepaticamente viviamo la vita degli altri. Morte e resurrezione, una nuova educazione a qualcosa di inusitato e sconosciuto”.

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https://www.sololibri.net/Solo-Strindberg.html         9 gennaio 2020

RECENSIONI

STRUMIA

FIIPPO STRUMIA, POZZANGHERE – EINAUDI, TORINO 2011

Viviamo in tempi e latitudini che proclamano a gran voce la frattura esistente tra mondo e soggettività, interno ed esterno, cultura (in tutte le sue accezioni) e natura. Una disarmonia che ferisce l’individuo e la collettività, rendendo entrambi prigionieri di una condizione esistenziale di sofferenza e di impotente sterilità. In tale terreno, scabro e irredimibile, si muovono i versi di Filippo Strumia, psicanalista romano cinquantenne, alla sua prima pubblicazione di poesia. Un poeta che si scopre soprattutto nella sua fragilità di uomo scalfibile e votato alla sconfitta («Sono nato scoperchiato // mi scopro nuovamente / qualcosa senza guscio. / E non so che fare», «sono un verme nel becco del mondo», «un esiliato ultraterrestre / come me», «io mi so mezza cartuccia», «io che sono esperto di fughe e sottrazioni»), se il vocabolo a più riprese ripetuto nei suoi versi è proprio «paura»: «anche il suono / delle foglie fa paura», «Ho diritto alla paura», «la paura morde la pelle», «in un bagno di paura e dolcezza», «Non so che paure mi versi nelle ossa».

Per cui l’unica àncora che lega all’esistente è l’osservazione disincantata e asettica di ciò che ci circonda, dall’immensamente grande (universo, stelle, nebulose, eoni, galassie) all’infinitamente piccolo (batteri, insetti, microrganismi), con una sensibilità particolare sia per la bellezza folgorante, sia per ciò che appare inquinato, corrotto, fangoso (le pozzanghere, appunto). E soprattutto è il mondo animale quello a cui il poeta presta più partecipe attenzione: il lupo con le zanne grondanti sangue, le «arcaiche scimmie», ma soprattutto i pesci, nostri ancestrali progenitori: sempre inseguiti e «infilzati dall’arpione», sempre prede di una natura feroce. E non c’è nessuna visione laica o paganeggiante, bensì un continuo rimando a un’emotività cattolicamente intrisa di senso del peccato e della colpa. Anche la professione intellettuale è vissuta come un allontanamento dalla sana vitalità del «mondo scanzonato» del lavoro manuale: «Come vorrei parlare da uomini / e andare con loro all’osteria / un po’ di vino, calcio e allegria, / vorrei mostrare che sono simile a loro / non sono migliore non sono un padrone». La psicanalisi di cui vive Strumia è quasi un raggiro: «Un altro giorno da brigante / diligente dondolando sui rami ad aspettare / i pochi viandanti smarriti per la via», e questo risentimento della coscienza finisce per esprimersi in esacerbati manifesti di intenti, in programmatiche dichiarazioni di fede o di pensiero che risultano tra le prove meno riuscite del volume. Che invece si fa più risolto quando si alleggerisce nella descrizione di una «inclita dea barista», o della riposante sala d’aspetto del dentista, con uno stile sempre oscillante tra lirismo e narrazione, prosaicità e elegia, ossequio alla tradizione e volontà di innovazione, ironia e disperazione.

 

«Orizzonti» n.43, giugno2014

RECENSIONI

SVETONIO

SVETONIO, VITA DEI CESARI – NEWTON COMPTON, ROMA 2015

A un prezzo davvero risibile possiamo da qualche mese leggere l’edizione integrale (con testo latino a fronte e accurata introduzione di Lietta De Salvo) dell’opera più famosa di Svetonio, quella De vita Caesarum che inaugurò nella letteratura classica un nuovo modo di intendere la biografia storica, meno tradizionalista e aristocratica, più attenta alla vita privata dei personaggi descritti, alle loro caratteristiche fisiche e morali, agli eccessi e alle aberrazioni del loro esercizio del potere. Dodici medaglioni degli imperatori della dinastia Giulio-Claudia e Flavia, a partire dal ritratto del divino Cesare fino a quello del crudele Domiziano, per un totale di 145 anni di storia romana. A Svetonio fu sempre rimproverato un gusto quasi plebeo per il pettegolezzo, per l’aneddoto scandalistico, e una sorta di voyeurismo per le dissolutezze e le perversioni sessuali dei suoi protagonisti: in realtà dalle sue narrazioni traiamo un quadro vivace e realistico della società da lui descritta, sia nella corruzione del mondo politico e militare, sia nelle abitudini del popolo.

Le dodici biografie si snodano secondo schemi ripetuti ma non vincolanti: di ogni imperatore si racconta la nascita, l’infanzia e la giovinezza, la formazione scolastica (quasi tutti erano abili oratori, parlavano correttamente più lingue, amavano esibirsi artisticamente, recitando o componendo poesie), l’aspetto fisico, le operazioni belliche e l’attività amministrativa. E poi naturalmente mogli e figli, amanti di ogni sesso-età-condizione, orge e incesti, tradimenti e assassini, decessi per malattia, congiure, avvelenamenti. L’autore contrappone in ogni vita narrata privato e pubblico, bene e male, virtù e vizi, senza tuttavia seguire schemi cronologici rigidi, ed evitando generalizzazioni accomunanti i vari caratteri. Se non forse quella, propria a tutti, della brama insaziabile di potere, della crudeltà verso i nemici, della sete di vendetta nei riguardi dei traditori. Che poi Domiziano depilasse personalmente le sue concubine e avesse le dita dei piedi troppo corte, che Caligola fosse epilettico, amasse i travestimenti, adorasse il suo cavallo e fosse terrorizzato dai fulmini, che Tito “delizia del genere umano” fosse un abile falsario, che tutti i Caio siano morti ammazzati, sono particolari che ci possono divertire, scandalizzare, incuriosire quanto i gossip dei nostri tabloid contemporanei. Ma, come afferma Svetonio quasi a voler giustificare il suo scandagliare morbosamente pieghe e piaghe delle vite dei suoi eroi, «chiunque può farsi un’idea della condizione di quei tempi, anche da questi eventi».

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www.sololibri.net/Vita-dei-Cesari-Svetonio.html       13 aprile 2016

RECENSIONI

SZOCS

GÉZA SZÖCS, NÉ L’ESISTENZA NÉ LA SCALA – JACA BOOK, MILANO 2017

Nella nuova collana di poesia delle edizioni Jaca Book, curata da Vera Minazzi e da Tomaso Kemeny, è uscito – prefato e tradotto da quest’ultimo – un volume di Géza Szöcs, nato in Transilvania nel 1953. Questo autore, conosciuto e premiato anche in Italia, oltre che internazionalmente, è stato un oppositore del regime di Ceausescu, costretto all’esilio nell’88, in seguito impegnato politicamente sia in Romania sia in Ungheria, dove ha rivestito importanti cariche pubbliche, fino all’attuale presidenza del Pen Club. La poesia in apertura, a cui allude il titolo del libro (Né l’esistenza né la scala), contiene in nuce alcuni dei suoi temi fondamentali. In primo luogo la constatazione dell’inspiegabile gratuità della vita, l’interrogativo riguardo al suo nascere e finire, che pare avere come unica giustificazione la pura riproduzione della materia e dell’energia («Bach non ha bisogno di un ascoltatore. / Al tempo non serve una pendola. / … A che serve una scala all’uccello. / … Cos’è la dolcezza / non lo sa il miele. / Forse la bellezza è / quando Dio / contempla in se stesso?»).

Domande che riecheggiano filosoficamente la Grundfrage di Leibniz, e che vengono riprese nella terza e ultima sezione del volume, con un’esplicita sterzata in direzione del sarcasmo e dell’amarezza, quasi a voler dire che certo non sarà la poesia a poter suggerire risposte, e tantomeno a fornire consolazione. Infatti i temi, spesso irridenti e polemici, sfruttano gli stratagemmi linguistici dei calembour, della boutade, dell’invenzione grafica, di stili e forme diverse  –  dalla prosa al dialogo, dall’epigramma alla cantilena –, sbeffeggiando la seriosità delle varie ipotesi scientifiche e teologiche che pretendono di dare un significato al nostro esserci, qui e ora, nel passato testimoniato dall’archeologia e nel futuro proiettato in un’opinabile e pretestuosa fantascienza.

Così commenta Kemeny nell’introduzione: «Alla profondità di pensiero Szöcs unisce una tensione ludica particolare, alla gravità esistenziale la libertà di flusso, alle altezze mitiche trovate linguistiche di difficile traduzione». Possiamo divertirci leggendo una spassosa Conferenza tra quattordici musicisti che si autodefiniscono chi con prosopopea, chi ingenuamente, chi con tremante pudore; oppure assistendo a inseguimenti polizieschi sulle tracce di ladri, spie, amanti fedifraghi; o ancora osservando lo stravolgimento di confini geografici e temporali, sempre con il trionfo finale dell’assurdo, del nonsense, che può ricordarci altri grandi e labirintici autori dell’Europa orientale, come Kafka, o i suoi compatrioti romeni Ionesco e Nina Cassian.

Il corpo centrale della raccolta è costituito da un dramma in versi composto nel 1999, Via Crucis, vera e propria sacra rappresentazione della Passione di Cristo. Qui Szöcs mette in scena sul tradizionale sfondo palestinese (Gerusalemme, il Getsemani, il Calvario), un coro angelico osannante e la folla chiassosa, varie comparse umane e animali, e tutti i protagonisti del racconto evangelico, con irruzioni improvvise di personaggi biblici (Giona, Saul) o di artisti contemporanei (Paul Klee): presenze animate da invenzioni surreali (il dialogo tra Pilato, moglie e figlio), e da conversazioni inverosimili, in un connubio ironico di storia e leggenda, di esegesi e cronaca attuale.

 

© Riproduzione riservata            «Poesia» n.338, giugno 2018