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VIANI

LORENZO VIANI, NERO D’AVORIO – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2014

“Dipingi con pochi colori; tieni in grande onore il nero d’avorio, la terra rossa e gialla e verde, avrai così intonazioni sostenute e concrete”. In questa pubblicazione (a cura di Fabrizio Zollo) che raccoglie i pensieri sull’arte del pittore-incisore-scrittore viareggino (1882-1936), ed è arricchita da una documentata biografia, da immagini fotografiche e riproduzioni delle opere, numerose sono le indicazioni che Lorenzo Viani dava ai lettori riguardo alla genesi delle sue creazioni e al suo credo artistico. Una fede irriducibile e polemica nell’arte come visione spirituale, che diviene anche riflessione filosofica, impegno politico, inconciliabilità esistenziale con le mode culturali e ideologiche. Contestando esplicitamente il realismo, l’impressionismo e l’arte contemporanea (“L’impressionismo è contro lo stile. E’ la cronaca rispetto all’arte pura… resta alla superficie… la vericità è banale…), ma anche l’opulenza fastosa del Rinascimento e di ogni barocchismo, Lorenzo Viani esaltava “la luce dei primitivi, l’oro dei bizantini”, invitando i pittori a riscoprire Giotto e i medievali, e proclamando entusiasticamente che “Il bello è la rivelazione di una forma sepolta al di là del vero”. Quale fosse il destino e il compito del vero artista gli era chiarissimo: “Dipingere poco e riflettere molto”, “Il vero è relativo, la visione dell’artista è assoluta”, “Il dipinto deve essere una cosa evidente, tangibile, architettonica, logica, statica, maestosa, potente”. Diventare “costruttori” della propria arte, ignorando critici alla moda e salotti, cercando negli umili, sulla strada e tra i vagabondi la verità più solida dell’esistenza, era lo scopo della sua vita di uomo e di artista anarchico: “Col popolo e in mezzo al popolo io vivo e vivendo creo con amore i miei eroi… nella notte alta il mio lavoro andò di passo ai colpi del martello di mio fratello calzolaio… Se un’opera manca di passione manca di umanità, quindi è antinaturale, disumana, cinica, accademica…”.

IBS, 18 giugno 2014

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VICHI

MARCO VICHI, LA SFIDA – GUANDA, MILANO 2014

Forse alquanto politically incorrect questo breve romanzo di Marco Vichi, per l’immagine che offre al lettore di Davide Yalta, handicappato dalla nascita, costretto su una sedia a rotelle, ebreo, ricco, colto: ma soprattutto caustico, irriverente, polemico, strafottente, rabbioso nei riguardi del mondo e di se stesso. Lo scrittore Trotti che lo incontra casualmente in un bar e che comincia a frequentarlo dapprima per curiosità, poi per noia, e poi per una sorta di inconscia rivalsa maschilista, non è molto più simpatico di lui. Vivono nella stessa “città di merda”, dove i “nativi…avevano sguardi obliqui, brutti, diffidenti, le facce offese”. Davide, essendo ebreo, ha ovviamente un sorriso diabolico, un naso impegnativo e un’intelligenza di molto superiore alla media: si diverte a mettere in imbarazzo i passanti e chiunque lo avvicini esibendo le sue gambette atrofizzate, provocando e respingendo la pietà del prossimo, inserendosi sadicamente in ambienti o situazioni difficili da gestire (davanti a scuole femminili, in ristoranti esclusivi e inamidati, nell’ufficio di un improbabile impresario teatrale), con l’unico evidente scopo di irritare il prossimo, e di svelarne il comportamento ipocrita verso la disabilità: “Mi sono rotto i coglioni della compassione, non ne posso più di essere rispettato solo perché mi manca qualcosa…”. Si innamora di una bellissima vicina, Elena, ben sapendo che il suo corteggiamento verrà rifiutato: e a questo punto si inserisce nella loro schermaglia flirtante lo scrittore Trotti, non solo per indubbia attrattiva fisica nei riguardi della donna, ma probabilmente per fare un dispetto all’amico-nemico paralitico, di cui si sente insieme superiore e inferiore. Tra i due contendenti vince però la bella Elena, che li infinocchia entrambi. Trama non appassionante, indagine psicologica piuttosto scontata, stile accattivante e curato, con qualche cedevolezza soprattutto nei dialoghi, talvolta artefatti.

IBS, 18 gennaio 2015

RECENSIONI

VIGANO’

DARIO EDOARDO VIGANÒ, IL BRUSIO DEL PETTEGOLO – EDB, BOLOGNA 2016

 

Il volumetto che Monsignor Dario Viganò ha pubblicato nel 2016 con le Edizioni Dehoniane, Il brusio del pettegolo, ha un sottotitolo esplicativo: Forme del discredito nella società e nella Chiesa. Monsignor Viganò può vantare titoli legittimi per occuparsi di questa spinosa questione in ambito sia civile sia ecclesiale, essendo intellettuale stimato a livello internazionale, autore di rilevanti pubblicazioni sul cinema e sul mondo dei media, e avendo occupato incarichi prestigiosi all’interno del Vaticano e della Pontificia Università Lateranense. Da pochi mesi è stato nominato Vice Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ma in passato è stato oggetto di polemiche e contestazioni che lo avevano costretto a dimettersi dal ruolo di Prefetto del Dicastero per la Comunicazione.

Già il titolo dell’introduzione al saggio (“La pietra più dura che esiste al mondo: la lingua”) mette in luce quanto sia pesante, dannosa e deprecabile l’abitudine alla mormorazione, al pettegolezzo (“figlio primogenito dell’invidia”), che finisce spesso per sfociare nella diffamazione e nella calunnia. Papa Francesco lo definisce un peccato diffuso e difficile da combattere: “Su questo punto, non c’è posto per le sfumature: se parli male del fratello uccidi il fratello. E, ogni volta che facciamo questo, imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida”.

Forza motrice, subdola e distruttiva, del pettegolezzo è appunto l’invidia, “che non desidera avere ciò che l’altro possiede; piuttosto, desidera radicalmente che l’altro non disponga di ciò che io non possiedo oppure ho perduto”. Il calunniatore, il cui perfido simbolo è il serpente, usa le armi della parola superficiale, ambigua e seduttiva per seminare sospetto e biasimo. Da studioso della comunicazione, Dario Viganò si propone di indagare in che modo la chiacchiera, la calunnia e la delazione riescano a innescare nella società, attraverso le pratiche dei rumors, strategie finalizzate a ottenere ascolto e consenso, per provocare l’esclusione e spesso l’eliminazione di un rivale o antagonista scomodo. I rumors sono sempre esistiti: ne è testimonianza il consiglio che la dea Atena diede a Ulisse, invitandolo a camuffarsi perché non si spargesse anzitempo la notizia del suo ritorno a Itaca.

“I rumors sono forme di comunicazione soggette a una continua rinegoziazione, testi aperti che possono conoscere infinite aggiunte ed elaborazioni, fin quando non vengono assorbiti dall’oblio collettivo. Vivono nello sfondo antico e diffuso dell’attività comunicativa reticolare”. All’epoca dell’oralità primaria, il passaparola utilizzava i modi della simultaneità e della compresenza: e ancora nei Vangeli la relazione tra Gesù, i discepoli, la folla dei seguaci e gli oppositori, era intessuta in questo modo, creando legami sociali di unione, riconoscibilità o di opposizione. Più tardi, con l’avvento della scrittura, la chiacchiera veniva sviluppata dai pamphlet e dai testi di parodia.

La forza strategica dei rumors si è amplificata con l’avvento dei media digitali, e soprattutto con lo sviluppo dei social, che grazie alla loro natura conversazionale alimentano in maniera esplosiva la circolazione di pratiche narrative capaci di coinvolgere progressivamente e rapidamente un numero enorme di attori sociali. La propagazione di virus comunicativi viene utilizzata economicamente nel commercio online, nelle strategie pubblicitarie, in operazioni di propaganda politica, in cui il recettore del messaggio finisce per assumere funzioni di autorialità o co-autorialità. Le fake news presenti sul web si diffondono volontariamente, con un atto autonomo e intenzionale di comunicazione che produce riverberi volutamente programmati per generare coesione e/o isolamento sociale. Quali sono le caratteristiche dei rumors? Per ciò che riguarda il contenuto “sono un genere di discorso onnivoro”, che può avere come oggetto qualsiasi argomento; dalla vita dei vip alle leggende metropolitane, dagli allarmismi delle pseudoscienze al successo di libri e film, dalla politica alla religione o allo sport. Si attivano a partire da un evento non verificato ma credibile, portatore di grande impatto emotivo, trasmesso da persone ritenute attendibili e spesso introdotto ad arte nel circuito informativo con evidenti scopi strategici.

È un processo collettivo, non lineare, che coinvolge diversi attori con differenti ruoli e responsabilità, realizzando effetti di distorsione che si autoalimentano secondo il numero dei soggetti e dei media coinvolti nella trasmissione e diffusione della notizia. Un racconto originato da un fatto presunto, si trasforma in una narrazione complessa che nel tempo si arricchisce di sempre nuovi dettagli e sottintesi, in una catena di rimandi divulgativi realizzanti coesione e consenso, psicologicamente finalizzati a produrre aggressività verso un oggetto, o difese da paure comuni. L’obiettivo ultimo di queste comunicazioni virali è comunque politico, teso a creare conformismo sociale, obbedienza acritica, ottundimento del giudizio individuale.

Il pettegolezzo, diffuso in ogni ambiente (Monsignor Viganò si sofferma particolarmente su quello ecclesiastico) ha in genere motivazioni affettive di amore/odio, o di interesse professionale, e tende a generare discredito o approvazione su un fatto o personaggio di rilievo: non avrebbe alcun successo se l’ambiente circostante non fosse recettivo, riproduttivo e malignamente interessato alla diffusione. Veicola ostilità e disprezzo, aspira a umiliare e svilire il prossimo: più subdolo, anonimo e sotterraneo dell’atto di aperto bullismo, è in grado di ottenere conseguenze socialmente devastanti, e in genere procura un sottile, indubbio piacere e un sentimento di rivalsa in chi lo pratica.

 

© Riproduzione riservata       17 gennaio 2020

https://www.sololibri.net/Il-brusio-del-pettegolo-Vigano.html

 

RECENSIONI

VILLATICO

DINO VILLATICO, PAESAGGIO – EDIZIONI DEL MEDITERRANEO, ROMA 2020

Con la silloge Paesaggio Dino Villatico ha vinto lo scorso anno il primo premio del Concorso di Poesia È un brusio la vita. Omaggio a Pier Paolo Pasolini, organizzato da EuroMed University. Le Edizioni del Mediterraneo hanno quindi pubblicato questa pregiata raccolta di dieci poesie, con la prefazione e l’icastica immagine di copertina di Paloma Criado,

Dino Villatico (Roma, 1941) è critico musicale e classicista, ed entrambe queste sue qualifiche rispecchiano la loro natura costitutiva nell’equilibrio armonioso ed elegante dei versi. Il paesaggio del titolo fa da sfondo a una pacata e malinconica meditazione sul trascorrere inclemente del tempo e sull’avvicinarsi del congedo dal mondo: dalle persone amate (“le mani, le carezze, i baci”), dagli oggetti cui si affidano le rassicuranti abitudini quotidiane, dallo spazio materiale che accoglie pensieri e gesti.

Nei dieci componimenti, l’atmosfera serena e rasserenante di ciò che attornia il poeta sembra avere vita autonoma, indipendentemente dal suo sguardo: “Eppure il sole brilla sul giardino, / scalda le foglie, e accarezza il dorso / del gatto che accucciato sul tappeto   /        del dondolo si gode il sonno lieve / degl’innocenti”. Una mosca che ronza sui vetri, il gatto “rosso, furbo e ladro”, gli uccelli che salutano nell’aria trasparente, sono creature innocue e ignare della precarietà dell’esistenza, cui aderiscono con spontanea e candida immediatezza. Esse godono del loro semplice esserci, diversamente da chi le osserva con incantato stupore, tristemente conscio di quello che perderà lasciando la propria forma mortale: “La vita che ci assedia si conclude / nel buio di un terrifico silenzio”.

Tutt’intorno, “quanta bellezza” (nelle colline verdi fuori, nei “troppi libri” dentro casa), gratuita e insieme crudele, perché rende più dolorosa l’idea del distacco. Alla visione ammirata del fulgore della natura, fa da contrappunto la meditazione sulla fine, non solo su quella personale – per quanto temuta e addolorante perché silenziosa, fredda e solitaria –, ma sulla morte cosmica di stelle e pianeti, che trascinerà nel nulla ogni respiro, sentimento ed espressione artistica a cui l’umanità intera aveva affidato il compito di preservare la sua grandezza. Musica, pittura, poesia e straordinarie opere architettoniche saranno assorbite nel buco nero del niente. La paura individuale si fonde con l’angoscia provocata dalla visione dell’inabissarsi dell’universo nel vuoto: “ma là fuori, e qua dentro, dappertutto,     /        mi terrorizza, imperturbata, sorda, / l’indifferenza stabile del tutto”. Buio e gelo, “inaffollato inferno” attendono anche chi ha sperato di lasciare traccia di sé nelle proprie opere: “Un tratto di cammino, qualche impronta / ricorderà per qualche tempo il tuo / passaggio, se la strada è di terriccio. / Ma un alito di vento, qualche goccia / di pioggia cancelleranno le impronte”.

La stessa attonita disperazione che anima la grande poesia mondiale, dai greci ai nostri Leopardi e Montale, vibra nella “calma densa / d’impreviste domande, e di risposte / impronunciate” di Dino Villatico, che in queste dieci composizioni offre, attraverso la composta dolcezza dei versi, un piccolo trattato filosofico sulla vanitas vanitatum dell’esistenza.

 

© Riproduzione riservata          «SoloLibri», 20 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VILLATICO

DINO VILLATICO, ECOGRAFIA DI UN CONGEDO – LADOLFI, NOVARA 2021

Ci si sottopone a un’ecografia per scoprire qualcosa di non rilevabile in superficie, che magari duole, ma di cui si teme l’evidenza, la manifestazione. Lo svelamento di una sofferenza taciuta, forse inconsciamente negata, ha la stessa dolorosa e cruda intensità di una diagnosi medica avversa.

Dino Villatico, con Ecografia di un congedo, si fa esploratore e analista di se stesso, raccontando di un amore giovanile, recuperato nella memoria con tutta la malinconia, i rimpianti, i sensi di colpa, ma anche l’intensa felicità vissuta e in seguito angosciosamente persa. In sedici “referti” (ancora un termine scientifico, a indicare una precisa volontà razionalizzante), un epilogo e un post-scriptum, l’autore rivive il suo rapporto con Martin, insegnante americano ventottenne conosciuto a Roma all’epoca degli studi universitari, con cui aveva stabilito una profonda amicizia e un’intesa sentimentale durata alcuni anni, cementata da arricchenti scambi culturali, distese conversazioni tra amici, sfide al pianoforte, e una casta, tormentata sensualità.

L’aver improvvisamente scoperto, attraverso una casuale ricerca su internet (“l’impotente / oracolo che ci avvelena il giorno”), la morte dell’amico avvenuta a New York nel 1997, lo induce a ripercorrere momenti di vita in comune, recuperando emozioni mai del tutto sopite. Così ammette di scriverne, non tanto per cercare consolazione, “ma per ritrovare, né so quando, / né so perché né come, conoscenza / di me stesso, quel punto in cui vacilla / la resistenza a confrontarmi nudo / con la mia nudità”, ritrovando “L’incompiuto, l’indeciso, / l’inaspettato che rimosso prende / forma”.

Una lunga confessione in endecasillabi, che hanno la cadenza pacata e colloquiale di una narrazione in prosa, quella che Dino Villatico intesse nel monologo rivolto all’assente amato (“l’assente che confonde le mie notti, / che mi devasta il giorno”), al lettore, e infine alla propria sfibrata coscienza, con lo sprone a una riflessione più vasta su cosa significhi esistere individualmente e nel rapporto con gli altri. Scampoli di episodi si rincorrono e si intrecciano nella rievocazione del legame con Martin: dalla frequentazione quotidiana a Roma (il primo incontro al Pincio, “non ancora al buio e intorno /  tra le statue altra gente che si cerca”) alla presentazione delle reciproche madri (l’una affettuosamente comprensiva, l’altra severamente censoria), dal soggiorno in America (prima in California, poi a Boston) ai libri letti e alle musiche ascoltate insieme, fino all’inevitabile addio, deciso per far sopravvivere l’amicizia rinunciando a una più coinvolgente relazione sessuale. I vent’anni di silenzio seguiti alla separazione si rivelano lacerati dal rimorso, quando l’io narrante scopre che l’amico ha posto fine volontariamente alla sua vita: ne è testimonianza il Referto 11, in cui la percussiva anafora “se avessi” esplora tutte le possibili azioni mancate (per pudore, paura, rancore) che avrebbero potuto evitargli il suicidio.

La tragica vicenda personale si iscrive allora nel quadro universale in cui i singoli destini sono determinati dal caso (la Thyche dei greci) o dalla necessità che rende gli uomini comparse inessenziali nell’indifferente ciclo cosmico, privo di qualsiasi finalità o scopo: “noi, fatui   /         pupazzi del destino, noi che stolti / ci crediamo padroni di noi stessi,   / e padroni del mondo, mentecatti!”, “tra i minerali, / tra le pietre, tra gli astri, tutto il cosmo,  / è un solo inascoltato urlo di morte”. Lo “strano animale” chiamato “sapiens sapiens” è in realtà un’ombra, “un verme, / un insetto, un batterio”: alle sue domande sul senso del vivere, del morire, del soffrire, né scienza né filosofia sanno fornire risposte. Il poeta cerca conforto nelle parole dei grandi: Omero, Saffo, Orazio, Dante, Petrarca, Shakespeare, Calderón de la Barca, Leopardi sono suoi interlocutori privilegiati, ma ormai neppure loro riescono a redimere l’insignificanza dei giorni, il tormento di notti insonni.

La “disaffezione del presente” persuade a un ritorno, non solo tematico, ma anche stilistico, al passato. Ne sono un esempio l’uso di termini inusuali e classicheggianti (indarno, sempiterni, speco…), e la frequenza di costrutti sintattici ereditati dalla lingua latina, come l’aggettivazione che precede il sostantivo (crudele Parca, invidioso dio, orbata madre, lacrimato amico, fertile valle, immoto sasso, verecondo raggio…), o la domanda di matrice leopardiana rivolta alla natura (Ode al monte Soratte) affinché indichi agli esseri umani,  con la sua offerta di gratuita bellezza, una giustificazione al vano “dolore di sopravvivenza”. Forse solo l’amore potrebbe dare significato alle ore cupe e intimorite nel silenzio: ma se anch’esso si dissolve nel niente, nel vuoto, nella morte, allora meglio sarebbe essere altrove, essere altro: “Dicono che le piante, quando sono   /       potate, non dovrebbero soffrire. / Ecco, ora vorrei essere una pianta”.

© Riproduzione riservata            «L’Indice dei Libri del Mese» n.11, novembre 2021

 

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VIOLANTE

LUCIANO VIOLANTE, LA DEMOCRAZIA NON È GRATIS – MARSILIO, VENEZIA 2023

Nel 1992 i paesi democratici nel mondo erano 76, oggi solo il 20% della popolazione mondiale vive in una democrazia, mentre il 38% patisce condizioni di totale assenza di libertà e il 42% è sottoposto a regimi parzialmente autoritari. Partendo da queste scandalose e preoccupanti statistiche, Luciano Violante nel suo pamphlet La democrazia non è gratis firma una difesa vibrante dell’unica forma di governo che garantisce ai cittadini libertà e diritti, ed è in grado di correggere i propri difetti senza mutare i suoi caratteri fondamentali, assicurando la possibilità di critica e il ricambio pacifico delle classi dirigenti.

Gli stati democratici ancora esistenti, sebbene in numero sempre più minoritario, attualmente sono minacciati e vilipesi all’esterno e all’interno dei loro confini, quasi esistesse un disegno strategico volto a mettere in crisi le loro basi ideologiche. Ad attuare tale offensiva sono in primo luogo le “tirannie elettive” esercitate da uomini arrivati ai vertici del potere assoluto non attraverso un colpo di Stato ma con un’elezione. È il caso, per esempio, di Vladimir Putin, Viktor Orbán, Recep Tayyip Erdoğan, del leader indiano Narendra Modi o di Xi Jinping, che governano più della metà del mondo, aspirando a una leadership politica totalizzante. “Sono embrioni di una nuova Internazionale, integralista e reazionaria”, che ispirano formazioni politico-religiose ostili al pensiero e al modello di vita occidentale: hanno il dispotismo come regola fondamentale d’azione, respingono la laicità dello Stato, disconoscono i diritti di libertà individuale, e pongono il tradizionalismo alla base delle relazioni familiari, sociali e sessuali. Secondo Violante esiste un’effettiva aggressione culturale contro l’Occidente, anche nei metodi attuati dalla cancel culture, che tende a interpretare la nostra storia come sopraffazione e corruzione morale e intellettuale. L’autore si sofferma a esaminare soprattutto le politiche attuali di Russia e Cina che, diventate negli ultimi decenni potenze tecnologiche, militari e finanziarie, non hanno però mai adottato le regole delle liberaldemocrazie, fondate sul pluralismo, sull’equilibrio dei poteri, sulla libertà di opinione e di espressione, sulla condanna di ogni differenza etnica, religiosa e di genere tra la popolaziome-.

Eppure, anche nei paesi democratici persistono evidenti limitazioni dei diritti umani fondamentali, e inaccettabili discriminazioni tra diverse categorie di individui: la democrazia è in crisi anche là dove sembra prosperare. L’occidente capitalista paga gravi errori nella difesa del suo presunto primato etico e ideologico: si è infatti macchiato di narcisismo politico, arroganza militarista, promozione di un mercantilismo incontrollato. Si è illuso di esportare il proprio modello di sviluppo alla stregua di un qualsiasi bene di consumo, anche attraverso l’occupazione militare, fallendo clamorosamente nei suoi obiettivi di conquista.

In Italia modelli politici demagogici e populisti hanno accentuato una serie di problematiche radicate da secoli; la lunga assenza di uno Stato capace di unificare il paese ha provocato una “perenne contrapposizione non solo tra classi sociali, ma anche tra appartenenze politiche, territoriali, professionali, corporative”. La nostra nazione è oggi indebolita da tre fragilità: l’instabilità politica, la disattenzione nei confronti delle giovani generazioni, la mancanza di un adeguato senso civico, espressa sia nell’inadempienza dei doveri fiscali sia nella mancanza di solidarietà verso gli strati popolari svantaggiati. Da alcuni decenni si è inoltre interrotta la tradizionale relazione tra politica e cultura, tra chi esercita il potere e chi lavora nelle università e nella scuola, dove il ruolo degli insegnanti è stato umiliato e privato dell’autorevolezza dovuta. Il tono di Violante si fa particolarmente esacerbato quando accusa la politica italiana degli ultimi trent’anni di avere assunto “i caratteri di una spregiudicata televendita”, e mette sul banco degli imputati Berlusconi, Renzi e il Movimento 5 Stelle, trascurando però le colpe di inefficienza, immobilismo e scarsa rappresentatività del proprio partito, il PD.

Come recuperare prestigio, fiducia e orgoglio nella democrazia? Essa “è un bene costoso, perché chiede la rinuncia attuale ad alcuni egoismi individuali in vista di un futuro benessere collettivo. Le democrazie funzionano quando i cittadini si assumono sino in fondo le proprie responsabilità, superando la malattia dell’indifferenza, frutto dell’apatia di alcuni e della disillusione di altri”.

Il primo pilastro su cui si basa ogni stato democratico è il rispetto delle persone, delle istituzioni e delle cose, che non va imposto solo legalmente, ma soprattutto attraverso un incessante impegno educativo, e lo sforzo di tutti nel superare peronalismi, egoismi e indifferenza, nell’evitare una conflittualità polemica e dannosa, nel privilegiare la collaborazione rispetto all’aggressività, anche verbale, verso l’oppositore. A conclusione del volume è riportata una lettera del partigiano Giacomo Ulivi, che fucilato a diciannove anni dalla Guardia nazionale repubblicana nel novembre del 1944, aveva scritto parole toccanti, richiamando i connazionali al proprio dovere non solo di cittadini, ma di esseri umani: “Dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali… Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra… il nostro interesse e quello della «cosa pubblica» finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 aprile 2023

RECENSIONI

VITALE

IDA VITALE, TEMPO INSOLUTO – ENSEMBLE, ROMA 2023

IdaVitale (Montevideo,1923)  poetessatraduttricesaggistadocente e critica letteraria uruguaiana, è la più longeva esponente del movimento Generación del 45 e dell’ essenzialismo sudamericano. La sua poesia rappresenta un punto di incontro fra l’attenzione sensoriale di radice simbolista ai fenomeni naturali e la profondità concettuale, caratterizzata da un’estrema concisione e da un linguaggio ricercato, ricco di metafore e acutamente ironico. La produzione poetica di Ida Vitale, da Luz de esta memoria (1949) a Tiempo sin claves (2021), ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi, come il Premio Octavio Paz (2009), il Premio Internacional García Lorca (2016) e nel 2019 il Premio Cervantes, massimo tributo letterario in lingua spagnola. Cresciuta in una famiglia colta e cosmopolita di lontane origini italiane, ha dovuto lasciare a più riprese l’Uruguay per ragioni politiche, trasferendosi dapprima in Messico e successivamente in Texas, dove è rimasta per trent’anni, sempre impegnandosi attivamente sia nell’insegnamento universitario, sia in ruoli editoriali e culturali di rilievo. Dal 2016 è tornata a vivere a Montevideo.

Nel 2020 Bompiani le ha dedicato la prima antologia uscita in Italia, Pellegrino in ascolto, e oggi la casa editrice romana Ensemble festeggia i cento anni della poetessa pubblicando la sua ultima raccolta, Tempo insoluto, a cura di Pietro Taravacci, che firma anche l’approfondita ed entusiastica introduzione. Il volume raccoglie una cinquantina di composizioni con testo originale a fronte, e spazia fra temi diversi: la natura, i ricordi, la creazione artistica, racchiusi tutti nella cornice della riflessione sul tempo. Il tempo lungo e lento del passato, quello veloce verso un futuro a scadenza ravvicinata.  “Raccolta liminare”, viene giustamente definita dal prefatore, questa che Vitale ha firmato con un titolo che nell’originale suona come “Tempo senza chiavi”, volendo indicare forse un’impenetrabilità all’interno, o un’impossibilità di varcare il limite esterno determinato dall’età: come se ogni pagina dovesse essere letta semplicemente per quello che esprime. Nessun pietismo o autocommiserazione, l’esistenza va accettata per quello che ha dato e continua a dare, regalo gratuito di bellezza da godere fino all’ultimo istante: “Giacché da niente puoi salvarti, prova tu a essere / salvezza di qualcosa. // Cammina piano, e vedi se, per tentazione, il tempo fa lo stesso”. Il paradiso è qui, insomma, basta averne e averne avuto coscienza: “un tempo qui ci era piaciuto molto”, “Paradiso: pace ma senza tedio, / la quiete anelata, ma anelante, / lievi incombenze, niente ozio/noia”.

La ricerca di un equilibrio tra gioia e sofferenza, attività e riposo, viene sottolineata dal desiderio di raggiungere e mantenere una tranquilla e consapevole serenità: “Dormirsene straniata / davanti a ciò che inizia / o forse, sta finendo. / Stare, alla mattina, / come a fine giornata”, “Un volume d’aria calma, / fuori dal corpo, dentro l’anima / tutto tranquillo, la successione / di passi, parole, silenzi, / la mancanza di ansie/ … e lo strepito mai”. La parola “fine”, così spesso ripetuta, insieme alla congiunzione “senza” (che il curatore scopre reiterata ben 63 volte nel volume) indicano certamente la consapevolezza di una privazione, presente e futura, di un’assenza e impossibilità di ulteriore sviluppo, ma non arrivano mai a esprimere paura o disperazione, piuttosto una rassegnata cognizione della realtà, e insieme la volontà di trovare motivi per proseguire nel cammino dell’esistenza. Consolanti ormeggi alla vita quotidiana sono quindi le presenze degli animali (corvi, farfalle, gatti, elefanti, conigli, delfini, tartarughe, cagnolini), della vegetazione (“sambuchi, salici e cipressi”, viticci, felci, tulipani), della pittura (“un Klee nel quale cantano i colori, / la geometrica linea, lo sproposito”) e della musica (“Solo aprirti alla musica ti salva”).  Oltre all’elegia, sia che indichi speranza o rimpianto, in Ida Vitale mantiene una decisa pregnanza la riflessione etica e teorica sul contrasto eterno tra bene e male: “Quando la luce fende l’ombra, / cos’è: raggio o spada?”, e l’indignazione civile per chi dal male trae profitto, per gli “operai del male” che fanno circolare “la loro gelata monetina”: “Forgiano il male lentamente, / con inclemenza, in giorni non contati, / giorni di trasandato sole,/ quando la notte inizia con fastidio”, “Il male con il male, fianco a fianco, /  il bene, senza alcun patto, solo”.

Davanti al nero della morte, della negatività, della cattiveria, abbiamo il dovere di glorificare la materia innocente, che esibisce la sua umile concretezza, incurante di ogni trascendenza. Dobbiamo riconoscenza a “una matita, / un foglio, di carta soltanto”, e al legno con cui sono costruite “le porte e le bare, / i pianoforti, i liuti”.

Nell’inventario del dato e avuto, Ida Vitale dedica al marito e mentore artistico Enrique Fierro, scomparso nel 2016, versi struggenti di nostalgia (“Tutto sembrava molto e fu breve”), ma ammette che i cinquant’anni vissuti insieme sono stati comunque un grande privilegio, così come gli arricchenti incontri con tante “anime amiche”. Tutto il bene goduto deve bastare “a compensare i danni di ogni giorno”, e alla soglia del centesimo anno la poetessa riesce a trovare dentro e intorno a sé la voglia e il bisogno di “incidere nel domani / quest’oggi così schietto, / così azzurro e dorato”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 20 marzo 2023

 

 

RECENSIONI

VIVIANI

CESARE VIVIANI, LA POESIA È FINITA – IL MELANGOLO, GENOVA 2018

Cesare Viviani (Siena 1947) affianca all’attività letteraria quella di psicanalista. Come poeta, è partito da posizioni dadaiste (L’ostrabismo cara, 1973, e Piumana, 1977), ma in seguito il suo perc orso non ha trascurato cadenze dialogiche, narrative e talvolta epigrammatiche (Preghiera del nome, 1990, premio Viareggio; La forma della vita, 2005; Credere nell’invisibile, 2009; Osare dire, 2016). Come saggista, ha esplorato i territori della creazione poetica, dei processi mentali e della convivenza civile (La voce inimitabile. Poesia e poetica del secondo Novecento, 2004; Non date le parole ai porci, 2014).

In questo breve saggio pubblicato da Il Melangolo, Viviani ribadisce considerazioni note e condivisibili  riguardo allo stato piuttosto comatoso in cui si trova la poesia contemporanea: non viene letta (se non dai poeti stessi, e da una cerchia ristretta di loro amici, conoscenti, familiari e rari estimatori); non si vende (le case editrici sono giustamente recalcitranti a pubblicarla, in quanto operazione economicamente in perdita); non assicura più a chi la scrive né fama, né prestigio, né soldi o vantaggi professionali; si è paurosamente omogeneizzata nello stile e banalizzata nei contenuti; non riscuote interesse nemmeno da parte dei critici letterari più influenti. Sulla scia della Nobel lecture montaliana del 1975 intitolata È ancora possibile la poesia?, Viviani più provocatoriamente e perentoriamente afferma che La poesia è finita.

«… la poesia non trova più ascolto. Non c’è più spazio per la poesia. Il troppo pieno, la parola piena, la comunicazione continua hanno sepolto i migliori poeti del secondo Novecento: non si leggono più, non hanno più la considerazione che prima, trenta anni fa, si dava loro. Tra vent’anni nessuno saprà più chi erano Saba, Erba, Giudici, Luzi, Zanzotto, Sereni, Raboni, Porta… Solo qualche solitario ricercatore universitario…».

Cos’è che condanna la scrittura in versi all’irrilevanza, secondo Cesare Viviani? In primo luogo, l’ignoranza della tradizione letteraria da parte di molti giovani e supponenti poeti, che si improvvisano tali senza la necessaria e doverosa preparazione, senza avere letto e meditato i classici e gli autori più importanti dell’ultimo secolo, limitandosi ad affollare i festival, a riunirsi in conventicole di illuminati (spesso al seguito di sedicenti Maestri più anziani, interessati narcisisticamente a crearsi un manipolo di fedelissimi). Altro importante motivo del declino della poesia contemporanea risiede nella sua corruzione, derivata dai linguaggi mediatici e pubblicitari contaminati da internet o dalle canzonette, infiacchiti da una prolissità artefatta e vacua che impoverisce non solo il vocabolario, ma anche le idee. Infine, secondo Viviani (ma perché, se è nato nel ’47, a p. 28 si dichiara sessantenne?) non aiuta a risollevare il livello e la considerazione del testo poetico il commento distratto e talvolta privo di reale competenza di molti critici, poco interessati a vagliare e a selezionare il prodotto di qualità dalla pletora di composizioni carenti di ispirazione e originalità, spudoratamente imitative, stilisticamente disinvolte, incentrate in prevalenza sulla biografia dell’autore.

«La poesia non può essere affabile, accattivante, popolare, attraente l’immediata emotività: perché la scrittura che ha queste caratteristiche è cattivo giornalismo in versi», «…Il matrimonio dell’invadenza del linguaggio mediatico, superficiale e utilitaristico, con l’opportunismo delle relazioni personali (scambio di favori, protezione come segno di potere, bisogno di seguaci) annienta la poesia».

Le posizioni polemiche di Cesare Viviani, espresse aforisticamente, in modo quasi oracolare, senza seguire un’organicità di struttura, con sussultanti ripetizioni, riflettono una sua ideologia di altero elitarismo, nel reiterato sottolineare quale debba essere la natura della vera poesia: inesprimibile e ineffabile, assoluta e sconvolgente, definibile solamente attraverso due termini che vengono ribaditi con la cadenza di un mantra, “limite” e “vertigine”. «Quando si dice che la poesia dice l’indicibile, si intenda non che riesce a dirlo, ma che esprime, rivela l’incapacità, l’impossibilità di dirlo. Dice il limite invalicabile», «Allora l’essenza della poesia sta in quella vertigine che si prova di fronte a un abisso: di fronte all’impossibilità di definizione e di sistemazione, di fronte a un vuoto di comprensione, a un’interruzione di senso».

Convinto della missione profetica e salvifica del verbo poetico, Viviani finisce per trascurare l’attività artigianale della composizione, il lavoro prudente e consapevole sui termini, il confronto e il rispetto dovuto alla produzione altrui. Scrivere poesia non sempre si riduce a un invasamento orfico, a un’illuminazione soprannaturale che non tollera valutazioni. Ignorando l’impegno attento e qualificato di molti stimabilissimi critici (Casadei, Cortellessa, Mazzoni, Belpoliti, Ossola, Brevini, Pedullà, Bertoni, Prete, eccetera…), Viviani non rende un buon servizio a chi voglia avvicinarsi alla poesia come autore o come semplice ma appassionato fruitore di testi. In fondo, proprio nel suo non essere utile e sfruttabile economicamente, quest’arte destinata a finire mantiene ancora uno scampolo di gratuità, sebbene la sua estrema democratizzazione odierna l’abbia in qualche modo resa meno “nobile e pura”.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 11 giugno 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

VIVINETTO

GIOVANNA CRISTINA VIVINETTO, DOLORE MINIMO – INTERLINEA, NOVARA 2018

Sulla copertina, due profili si fronteggiano, uno maschile e uno femminile, a suggerire il rispecchiarsi scisso di due personalità in una, di due corpi che si appartengono nella stessa pelle, riconoscendosi, cercandosi, rifiutandosi. Corpo e pelle sono infatti i sostantivi più reiterati in questi versi, realtà materiale e concreta a cui ancorarsi, da cui è impossibile e ingiusto prescindere.

La giovane autrice di questo intenso volume di poesie, Giovanna Cristina Vivinetto (Siracusa, 1994), si racconta sdoppiandosi in voci distinte e tuttavia compenetrantesi: la sua di oggi e quella dell’infanzia, la sua di figlia/figlio e quella di una madre presente-assente, il bisbiglio intimorito dell’autocoscienza e quello imperioso, giudicante, della società. Parla di perdita e scoperta, di morte e rinascita, metaforizzate in mani che si aprono carezzevoli o si chiudono severe, in luce e oscurità, in perdoni richiesti e rifiutati. La cesura, il taglio a cui spesso questa scrittura fa riferimento è senz’altro un accadimento fisico, ma insieme supera la fisicità, nella nostalgia di un’integrità recuperata (le due metà del mito del Simposio?) all’interno di un abbraccio amorevole e comprensivo, di un ritorno al ventre materno, all’umida conca di un terreno boscoso: che difenda, protegga e ricomponga. Quello di Giovanna è un continuo interrogarsi e interrogare, sé stessa e la natura, senza recriminazioni, anzi spesso cercando una razionalizzazione che si esplicita in terminologie scientifiche e mediche, con una prosaicità tesa ad arginare l’emotività dell’espressione poetica. Che tuttavia fuoriesce, irrefrenabile, dolore minimo che non accetta silenziatori: «Sarà che la voce interna fiorisce / solo a forza di strappi e toppe / mal ricucite – da lì sguscia l’anima».

La simbiosi con la figura della madre, il sovrapporsi del punto di vista tra chi ha generato e chi è stato generato, e chiede di essere messo al mondo di nuovo, trovando una corrispondenza fiduciosa e un incoraggiamento verso l’approdo a una vita realizzata, è affettuosamente evidente negli esiti più toccanti della scrittura: «Così l’attesa era la tua. / Aspettavi da anni come si attende / la salute ai piedi di un malato, / come chi ha perso qualcuno / smaltisce il male sulle scale / di casa. Quegli occhi erano / una preghiera, un inno muto / alla rinascita».

Giovanni e Giovanna si confrontano e si comprendono, uno nei confini dell’altra, in attesa dello schiudersi del bozzolo che li serra anima e corpo, aprendosi finalmente a un volo leggero: «Ci vollero diciannove anni / per prepararsi alla rinascita, / per trasformare la distanza tra noi / in spazio vitale, il vuoto in pieno, / il dolore in malinconia ‒ che altro / non è che amore imperfetto. Aspettammo / i nostri corpi come si aspetta / la primavera: chiusi nell’ansia / della corteccia. Capimmo così / che se la prima nascita era tutta / casualità, biologia, incertezza ‒ l’altra, / questa, fu attesa, fu penitenza: / fu esporsi al mondo per abolirlo, / pazientemente riabilitarlo». Ecco quindi che la voce giovane e matura di Giovanna Cristina Vivinetto sa fare dono della sua esperienza sofferta agli altri, anche a chi non capisce, a chi teme, a chi giudica. Ripercorrendo gli anni nelle varie sezioni del libro, da Cespugli di infanzia a La traccia del passaggio, fino al superamento del Dolore minimo in una ritrovata e consapevole ricomposizione di sé, l’autrice affronta una trasformazione, una metamorfosi, una migrazione (come suggerisce Alessandro Fo nella postfazione) che avviene attraverso la conquista della parola poetica, unica parola che salva tra le tante altrui (sbagliate, superficiali, indiscrete): «Per acquietare il male che lo assale / il poeta lo canta. // … Così il mio male si estingue / su ogni mio verso. Lo canto, / lo urlo per liberarlo dal groviglio / di pelle che ha contagiato».

© Riproduzione riservata         https://www.sololibri.net/Dolore-minimo-Vivinetto.html       12 maggio 2018

 

 

RECENSIONI

VOLLENWEIDER

ALICE VOLLENWEIDER, SAN MARCO NEL NEVISCHIO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1990

Il resoconto di viaggio in letteratura ha ascendenze illustri e antichissime, a partire dal mitico itinerario dantesco, attraverso i percorsi artistici del Vasari e ai viaggi più o meno sentimentali degli scrittori inglesi del ‘700, fino alle affascinati cronache di Goethe e Stendhal, per arrivare ai reportages contemporanei di Parise, Pasolini e Moravia, talvolta più convincenti della loro stessa narrativa di invenzione. Oggi il viaggio viene per lo più raccontato con mezzi diversi dalla macchina per scrivere, soppiantata ormai da telecamere e obiettivi fotografici anche nell’esperienza diretta di scrittori e giornalisti. E proprio con la fotografia la narrativa di viaggio ha molti punti di contatto. Infatti, in un racconto come in un’istantanea, almeno tre sono i punti di vista e gli elementi interessati al fenomeno descrittivo: il fotografo (o l’autore-narratore), la persona o l’oggetto prescelto per essere inquadrato (o raccontato), e il pubblico fruitore dell’immagine o delle pagine espositive. Su queste e altre considerazioni fantasticavo leggendo l’ottima raccolta di articoli di viaggio di Alice Vollenweider, San Marco nel nevischio, pubblicata recentemente a Bellinzona da Casagrande. Alice Vollenweider, critico letterario zurighese, traduttrice, giornalista ed esperta di cucina, ha scattato in questi capitoli 10 “fotografie” italiane, dedicate a città del centro-nord della penisola. Non ha usato una Polaroid per questi suoi racconti, bensì una macchina sensibilissima, dagli obiettivi potenti e dalle zoomate rapide. Ha scelto sempre inquadrature particolari, sottraendosi alla banalità del bel panorama e dello spunto folklorico. Così di Milano non viene raccontata la Scala o il Duomo o la frettolosità laboriosa dei suoi abitanti; piuttosto, la funzionale vivacità del Mercato Ortofrutticolo o la storia dei Navigli o il fascino discreto dei bar nelle vie più anonime. Di Genova, l’autrice snobba la Lanterna e il porto per accompagnarci tra i vialetti del cimitero di Staglieno, con i suoi monumenti -molto sussiegosi e talvolta involontariamente umoristici- alla borghesia imprenditoriale e mercantile della città. A Roma non sono le boutiques di Via Condotti ad attirare l’attenzione della Vollenweider, quanto le edicole e le librerie stipate di merce invenduta e sorvegliata da commessi annoiati, oppure il ghetto ebraico, descritto in pagine partecipi e ricche di connotazioni. Per continuare nella metafora fotografica iniziale, è ovviamente l’Italia l’oggetto di questi ritratti, un’Italia non solo fisica e ambientale, ma svelata nelle sue facce e nelle sue chiacchiere, fissata in atteggiamenti atemporali e immodificabili, quanto in modi d’essere ormai desueti. Il lettore cui si rivolge il libro di Alice Vollenweider era inizialmente quello svizzero; gli articoli sono infatti stati pubblicati sulla Neue Zürcher Zeitung, pensati probabilmente per quei confederati che «si recano volentieri a Milano, a un’ora di macchina o di treno da Lugano, per fare acquisti, visitare mostre e mangiare veramente bene all’italiana, cosa sempre meno possibile nel Ticino gremito di turisti». Costoro avranno letto questi brani (scritti in tedesco tra il 76 e l’81) come un osservatore ignaro si pasce gli occhi davanti a foto che ritraggono particolari a lui ignoti, con stupore, interesse, curiosità via via crescenti. E il lettore italiano che li legge ora per la prima volta, in accurata traduzione? Come si sente la persona fotografata, magari a sua insaputa, e che nel rivedersi bloccata in un atteggiamento o espressione peculiare finisce per scoprire di sé cose che magari non sapeva, che non immaginava? Difetti, forse, o forse anche virtù, bellezze ignorate… Il lettore italiano, divenuto modello e pubblico insieme, potrà provare complicità e orgoglio di fronte a pagine che ritraggono le città immeritatamente trascurate della Pianura Padana (Parma, Modena), altre della costa tirrenica, oscurate dalla fama spesso usurpata di stazioni balneari più alla moda. Ma può sentire pure una leggera mortificazione, un senso di inadeguatezza personale (come giustamente avverte Luigi Malerba nell’acuta prefazione) davanti a questa passione gratuita per il Belpaese di una scrittrice straniera, davanti alla sua capacità di esaltarsi e di indignarsi, sorvolando generosamente su alcuni difetti e amareggiandosi per i vizi più ottusi. Il volume è sempre omogeneo e di piacevole lettura, nella leggera ariosità dei suoi dieci pezzi “giornalistici”, incastonati da altrettante presentazioni più intenerite e autobiografiche, e corredato da una ventina di splendide immagini in bianco e nero. Una galleria, appunto, di originali foto in prosa, impreziosite da cornici discrete ed eleganti.

«Agorà» (Svizzera), 23 maggio 1990