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RECENSIONI

ZIPPILLI

ERIKA ZIPPILLI, COME CHIAMANDO – FUORIDALCORO, MENDRISIO 2011

La scrittrice e traduttrice ticinese Erika Zippilli-Ceppi ha vinto nel 2007 il Premio Schiller con un volume di racconti (“Regine di confine”) ambientati nelle comunità paesane della Svizzera Italiana, prestando voce e parola nuova (antica di antichi dialetti), attraverso coniazioni linguistiche sperimentali, a dieci donne portatrici di una cultura e di una storia che sa farsi, da privata e familiare, patrimonio collettivo da preservare con amorevole cura.
Nel 2011 ha pubblicato con le eleganti edizioni Fuoridalcoro “Come chiamando”, una silloge di poesie in sessanta copie numerate, impreziosite ciascuna da originali acquerelli di Michela Pozzi. Non è un libro da sfogliare tradizionalmente: si apre a fisarmonica, con i testi stampati sulle due facciate, chiuso tra due copertine nere di cartone pressato.

Otto poesie in cui “compaiono voci e destini di alberi, case e abitanti del suo territorio reale e emozionale”. Versi che raccontano un passato ripescato da trascurate pieghe della memoria “Il ricordo sceglie da sé / il come e l’ora / in cui venire al mondo” per narrare esistenze minime di donne comuni, di abitazioni cariche di vita e affetti, di vegetazione silenziosa ma partecipe all’esistenza degli esseri umani.
Gli alberi (gelsi, castagni, ulivi) sono descritti nel loro pervicace aggrapparsi alle radici, “gravati da silenzi offesi /… ieratico rifugio di notturni voli” nel loro solido resistere alla forza dei venti, svettare verso il cielo con l’intrico dei rami, offrire riparo (“muschiati anfratti”) alle bestiole del bosco.
Ma sono soprattutto le case che abitano questi versi, case vecchie di un Ticino dimenticato, frequentate da donne che si facevano visita a vicenda (chiacchierando, consolandosi dei reciproci magoni), e appartamenti nuovi, impersonali, freddi (“in fondo alla fila di porte pittate tutte uguali”). Ci sono, nelle case descritte, corpi di malati “come chi aspetta la scure, / testa insaccata di fianco al letto, / senza domande”, laboriose sartine “in attesa di non si sa quale attesa”, in ansia “al su nanca mì parché…”, vedove che fanno visita al cimitero “tré volte al dì, sum pròpi chì da còmud!”, mogli abbandonate dai mariti emigrati “in Merica”, bambine spaurite nella “vestina scarlatta”. Personaggi lontani da una contemporaneità frenetica e disillusa, che sembrano quasi straniati nei loro “gesti impalliditi”. A loro l’autrice vorrebbe regalare, “un cielo azzurrorosa”, “glicine spavaldo”, “veloci stelle”, “bozzoli dorati”: poesia, dunque, che funga da lasciapassare verso un oltre più clemente, Come chiamando – in una lingua densa di meditato spessore – l’orizzonte di un desiderio futuro.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Come-chiamando-Zippilli-Ceppi.html     19 ottobre 2016

RECENSIONI

ZUCCO

RODOLFO ZUCCO, GLI OSPITI DISCRETI – ARAGNO, TORINO 2013

Rodolfo Zucco (Feltre, 1966), Professore di Linguistica all’Università di Udine, studioso della nostra letteratura settecentesca e novecentesca, e curatore dei due fondamentali Meridiani  Mondadori dedicati a Giovanni Giudici e Giovanni Raboni, ha pubblicato con l’editore Aragno nove saggi scritti tra il 1991 e il 2007, riguardanti la produzione in versi di altrettanti importanti poeti italiani del secondo 900. Nella nota di apertura, Andrea Cortellessa attribuisce la discrezione cui fa cenno il titolo del volume non solo «al carattere di chi firma i nove saggi qui raccolti», ma alla stessa «acribia» critica evidenziata dalla loro struttura, che partendo dall’esame di aspetti talvolta marginali, discreti, del testo poetico, «rinvia a un’ interpretazione complessiva» dell’opera e dell’autore preso in esame. E Zucco precisa ulteriormente, nella sua premessa, il senso da attribuire al titolo scelto (dopo sofferta gestazione!): «Si può ben parlare di ‘ospiti’ in ragione della mia lunga ‘convivenza’ con loro in un ventennio di studi e di scrittura. Ma è altrettanto importante per me l’accezione di ‘ospite’. Sono ospiti, i miei autori, nel senso che mi ospitano o mi hanno ospitato: giacché la loro opera veicola infine gusti miei, determinate zone della mia sensibilità».

Il libro si apre infatti con uno studio su Vittorio Sereni, che si rivela un affettuosissimo omaggio, più che al poeta, alla persona: nella rievocazione di particolari biografici (talvolta commoventi, talaltra spiritosi) che offrivano spunti alle dediche delle sue poesie, spesso poi cassate nella pubblicazione a stampa, a causa «della riservatezza dei sentimenti che doveva essere un tratto dell’uomo».
Altri saggi «procedono essenzialmente come accertamenti di fatti linguistici e metrici (il verso, la rima e la strofa)». Ad esempio l’indagine su rima, rima interna, enjambement intesi come segnali specifici dell’oralità nella produzione di Giudici. O il rilievo dato all’uso della citazione e dell’allusione in Raboni. O ancora, nel confronto tra due libri di Valerio Magrelli (Ora serrata retinae  e  Nature e venature), la sottolineatura del mutamento dell’ autocoscienza critica – attraverso lo studio di analogie, metafore, deissi, metrica- nella severa tensione autoriflessiva che da sempre caratterizza la produzione del poeta romano. Di particolare interesse, pur presentando qualche difficoltà per il lettore non specialistico, è il saggio sui «versi a gradino» di Giorgio Caproni, ereditati dalla divisione in battute della lirica teatrale, attraverso differenti epoche e generi poetici, da Leopardi a Gozzano.
A Fernando Bandini, suo maestro negli anni universitari a Padova, Rodolfo Zucco dedica un lungo studio che del poeta vicentino esplora la cospicua attività di traduttore, in particolare da Baudelaire. La produzione in versi di Iolanda Insana e di Eugenio De Signoribus viene minuziosamente analizzata negli esiti formali sintatticamente contorti e febbrili dell’una, attenti con virtuosistica perizia all’uso delle rime nell’altro.
Infine, l’ultimo saggio del volume è dedicato a un poeta sottovalutato e quasi dimenticato, Ferruccio Benzoni, di cui si considera il libro del 1998  Sguardo dalla finestra d’inverno, con le sue derivazioni da Fortini e Sereni, e la particolare «strategia della negazione», sempre comunque all’insegna di un dettato elegante e discreto. E se Zucco conclude le sue letture, di autorevolissima competenza critica, ricordando che nella poesia è quanto mai implicita una «vocazione alla felicità», sono le parole di Raboni che meglio offrono la chiave di interpretazione di questi studi, approfonditi e comparativi: «nella vita di una poesia…ci sono tante altre vite, le vite di tante altre poesie».

«L’Immaginazione»  n. 279, febbraio 2014

RECENSIONI

ZUCCO

GIUSEPPE ZUCCO, IL CUORE È UN CANE SENZA NOME – MINIMUM FAX, ROMA 2017

Capovolgendo la trasformazione del cane di Bulgakov, e senza sfiorare nemmeno lontanamente la satira politica dello scrittore russo, Giuseppe Zucco (1981) ci racconta una storia delicata e fantastica, scritta con proprietà ed eleganza, narrando di un giovane uomo che di guaito in guaito, in uno straziante percorso di fedeltà e di amore non più corrisposto, si trasforma in cane. «Lei lo aveva lasciato, e lui aveva continuato come nulla fosse. La mattina andava a lavorare, la sera tornando a casa comprava il pane, la notte dava due giri di chiave alla porta prima di spegnere le luci. Era tutto sotto controllo, diceva… Ma una mattina, mentre lavava i denti, tirando su la testa davanti allo specchio, scoprì che guaiva».

Il protagonista (senza nome, designato da un generico “lui”, così come gli altri personaggi rimangono nel limbo di classificazioni universali: la bambina, il padre, il ragazzo, e soprattutto “lei”) guaisce perché non riesce a trattenere il dolore della perdita e dell’abbandono: dapprima di nascosto e camuffando il suono disdicevole con altri rumori, poi manifestatamente, con latrati e ululati strazianti. Fino alla sua completa trasmutazione, con una metamorfosi kafkiana, in un quadrupede non di razza, piuttosto ordinario, «muso pronunciato, le orecchie flosce e appuntite, il manto bianco ma pezzato da alcune macchie di un nocciola chiaro, la coda come una virgola per aria». Un cane che si comporta come tutti i canidi del mondo: si azzuffa col branco, ruba il cibo, si accoppia con le randagie che trova per strada, ringhia e morde, si sporca e puzza. Viene adottato e abbandonato, accudito e torturato più volte, prima da una bambina viziatissima, poi da una volubile studentessa, infine da una macabra vegliarda. Nelle presenze femminili che incontra, nelle tre età di uno stesso mito muliebre, il cane (ex-giovane uomo innamorato) riscopre le sembianze allucinanti della donna che lo ha lasciato: le sue labbra stupende, l’incisivo scheggiato, le gambe affusolate, il seno, i fianchi, la voce. Gli episodi del loro incontro e della loro convivenza, la fisicità degli amplessi, i litigi e le incomprensioni si sovrappongono ai tormentosi avvenimenti della sua vita di animale, alle sue umiliazioni e alle sue rabbie: «… il cane pensò a lei. Lei era la sua patria ubiqua. In lei affondavano le sue radici. Non c’era altra ragione oltre lei». Il cuore è un cane senza nome, quindi, in un’allegoria della sofferenza amorosa che può arrivare al delirio e alla scomposizione di sé, al travestimento e alle mortificazioni più scottanti. Cosa rende simili esseri umani e non-umani nel dolore? «Una stessa storia? Una storia finita male? Questo eccesso di amore non più riposto nelle mani della persona amata? Questa incessante proliferazione di cellule ed energie?».

Accomunati non solo dal bene e da sentimenti positivi, ma anche dall’odio, dalla gelosia, dal terrore, dal desiderio di vendetta, persone e animali sono simili, vittime delle stesse passioni. Il cane di Giuseppe Zucco non ha nome, perché forse ha i nomi di tutti, patisce gli spasimi e le gioie di tutti. Nella sua storia, sospesa tra verità e fantasia, tra fiaba e realtà, si cela come unica morale la volontà di riconoscersi vivi, in un passato da recuperare e in un futuro da reinventare.

© Riproduzione riservata           www.sololibri.net/cuore-cane-senza-nome-Zucco.html

12 ottobre 2017

 

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ZULIANI

LUCA ZULIANI, L’ITALIANO DELLA CANZONE – CAROCCI, ROMA 2018

Molto interessante questo libro di Luca Zuliani, professore di Linguistica all’Università di Padova, studioso di metrica e poesia contemporanea. L’italiano della canzone esplora la relazione esistente tra la musica leggera e la lingua letteraria, esaminando il repertorio canoro nostrano degli ultimi cinquant’anni, con numerosissimi e calzanti esempi, tesi ad illustrare i rapporti di filiazione, opposizione o estraneità esistenti tra i versi delle canzoni e quelli poetici.

Lingua armoniosa per eccellenza (dolce, sonora, priva di asperità, ricca di vocali), la nostra è tuttavia poco adatta ad essere musicata, a causa della scarsa presenza di parole tronche (cioè accentate sull’ultima sillaba), frequentissime invece in molte altre lingue, e soprattutto in inglese. Da noi esse si limitano ai monosillabi, a qualche forma verbale, a pochi vocaboli astratti e ad alcuni avverbi. Come hanno ovviato a questo pesante handicap i parolieri di musica leggera? In passato, e fino al secondo dopoguerra, troncando parole piane (fior, amor, ben, muor) o utilizzando termini desueti (dì, mercé, beltà); oggi usando l’escamotage di accentare sull’ultima vocale anche le parole sdrucciole (gli 883: “sei una libìdiné”; Arisa: “storia màgicà”; Battiato: “la vecchia brétoné”), o invertendo il loro ordine usuale (Vecchioni: “la guerra paura non fa”), oppure concludendo con congiunzioni, pronomi, avverbi, verbi o esclamazioni accentate (Vasco Rossi: “che se ne frega di tutto, sì!”; “sei in forma, ué!”), o ancora ricorrendo direttamente al dialetto e a lingue straniere (Adriano Celentano: “che ti fulmina sul ring”; Domenico Modugno: “un uomo in frak”).

Zuliani si sofferma con puntualità sugli aspetti tecnici della composizione dei testi, chiarendo in che modo funzionino versi, rime e strofe nelle canzoni e nella poesia, sottolineando giustamente come quest’ultima sia divenuta oggi del tutto marginale nella cultura di massa, ridotta a un’arte di nicchia poco praticata e poco letta dal pubblico, a tutto vantaggio delle canzoni, i cui testi si sono evoluti formalmente e contenutisticamente rispetto al passato, al punto che un recente premio Nobel è stato attribuito a Bob Dylan. Oltre a queste ed altre spiegazioni specialistiche (sapevate cos’è la “mascherina”? è una sorta di tavola numerica che i musicisti apprestano per i parolieri che non conoscono le note…), l’autore analizza altri elementi comuni ai testi delle canzoni e a quelli poetici: la strofa, il ritornello, la quartina, sempre sottolineando che metrica e ritmo (lingua e musica) convivono su basi differenti: la prima contando il tempo con le sillabe, la seconda con le battute. Si addentra poi in commenti più ampi riguardanti la scrittura dei testi considerati artisticamente più ambiziosi, quelli che tendono a far prevalere l’importanza della scrittura sulla musica. Per intenderci, quelli di De André, De Gregori, Luigi Tenco, Carmen Consoli, Bluevertigo, Marlene Kuntz, che riprendono forme letterarie utilizzando addirittura versi canonici come l’endecasillabo, o frasi lunghe e complesse, con frequenti subordinazioni e asimmetrie.

Tuttavia, se oggi nella produzione di musica leggera, prima si compone la melodia e ad essa si adattano le parole, è evidente che la lingua italiana risulta spesso mortificata dalle esigenze della musica, degli arrangiamenti e delle interpretazioni. In fondo, “sono solo canzonette”, come suggeriva Bennato: pretendere da esse che si innalzino ad arte è forse eccessivo. Stimolante e curioso rimane, comunque, poter indagare su regole e tecnicismi che riescono a farle funzionare, regalandoci momenti belli: in questo ci aiuta il libro di Luca Zuliani.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 7 novembre 2018

 

 

 

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ZWEIG

STEFAN ZWEIG
VENTIQUATTR’ORE NELLA VITA DI UNA DONNA – SUGARCO, MILANO 1991
NOVELLA DEGLI SCACCHI – GARZANTI, MILANO 1991

Due romanzi brevi, o racconti lunghi che dir si voglia, di Stefan Zweig, sono stati recentemente pubblicati da SugarCo e Garzanti: 24 ore nella vita di una donna  e  Novella degli scacchi. Argomento centrale di entrambi è la passione divorante per il gioco che può attanagliare la mente umana: gioco come azzardo, cioè sfida al destino e a se stessi, e gioco come affinamento della spiritualità. La prima novella è la storia, narrata dalla protagonista a un occasionale confidente trent’anni dopo la sua conclusione, di un incontro tra una intelligente e ricca vedova, che cerca di distrarre viaggiando la sua «irreversibile tristezza», e un uomo divorato dal tarlo febbrile del gioco al casinò. A Montecarlo la signora viene attratta dalla vita di un giovane che sembra giocarsi alla roulette non solo gli ultimi risparmi, ma la sua stessa esistenza. Ipnotizzata dall’eccitazione di lui, ma soprattutto dall’irrequietezza e dal tremito disperato delle sue mani, lo segue fuori dal casinò e in albergo, nell’ansia di salvarlo dal suicidio e di redimerlo dalla follia del gioco; superando ogni pudore e remora dovuta alla sua educazione gli si concede, vivendo con lui l’esaltazione furiosa di una notte d’amore. «Non avrei mai immaginato, senza quell’incontro terribile, con quale ardore, con quale accanimento e irrefrenabile avidità un uomo spacciato, perduto, beva ogni goccia rossa di vita».

La notte passata insieme trasforma profondamente la donna, inducendola a rischiare tutto per seguire la sorte del suo nuovo amico: gli consegna dei soldi perché paghi i suoi debiti, lo costringe quasi a partire per porre fine alla sua inclinazione malata, decide essa stessa di seguirlo, giocandosi la sua reputazione e un tranquillo e grigio destino di vedova benestante. Ma il ragazzo la inganna, e col denaro avuto in dono torna al casinò e riprende a giocare: all’intervento stupito ma deciso di lei, la caccia umiliandola e sbeffeggiandola davanti a tutti. Tuttavia, «si sopravvive anche a ore così dolorose: il sangue continua a pulsare, non si muore, non si cade come un albero colpito da un fulmine»: la donna recupera la sua dignità schernita, ritorna nei binari consolidati di una routine disprezzata ma comoda, perché  «alla fine, chi vince è il tempo, e la vecchiaia esercita sui sentimenti il singolare potere di invalidarli». Rinnegate le 24 ore che stavano per cambiare (in meglio? in peggio?) il corso della sua vita, lei che per amore avrebbe avuto il coraggio di rovinarsi, accetta l’umiliazione di una sconfitta, continuando a coltivare il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere.
Il secondo racconto  Novella degli scacchi può essere considerato un po’ il testamento spirituale di Zweig: fu infatti steso nel ’41, pochi mesi prima che lo scrittore austriaco si suicidasse in Brasile insieme alla moglie. E’ la storia di una serie di partite a scacchi giocate durante una traversata marittima nell’Oceano tra Mirko Czentovic, scacchista di fama mondiale, e il dottor B., avvocato austriaco perseguitato dalla Gestapo. E’ chiaro fin da principio da che parte stia lo scrittore Zweig (esteta, pacifista, innamorato della cultura e della spiritualità europea al punto di autoesiliarsi per protesta in Sudamerica allo scoppio della seconda guerra mondiale). Bersaglio della sua polemica è il campione russo Czentovic, ma si tratta di un bersaglio alquanto sproporzionato, di un mulino a vento contro cui non varrebbe nemmeno la pena di combattere: Czentovic è infatti «un contadinotto ventunenne del Banato… un taciturno, ottuso ragazzo dalla fronte quadra… incapace di scrivere una frase in nessuna lingua senza errori di ortografia… di una ignoranza parimenti universale in tutti i campi».

A questo avversario, presuntuoso perché indifeso, goffo perché poco intelligente, fornito di un’unica mostruosa abilità – quella di giocare, vincendo, a scacchi – Zweig oppone la cultura e la sensibilità del dottor B., già amministratore dei fondi della famiglia imperiale austriaca.
Arrestato dai nazionalisti, torturato in un isolamento feroce e totale, era riuscito a salvarsi dalla pazzia grazie alla lettura di un manuale sugli scacchi, e alla simulazione mentale di centinaia di partite: «Appena il mio Io bianco aveva fatto una mossa, il mio Io nero si gettava febbrilmente all’attacco; appena una partita era terminata, subito sfidavo me stesso alla prossima, perché ogni volta uno dei due Io-giocatori era vinto dall’altro e chiedeva la rivincita…Era un’ossessione da cui non potevo difendermi; da mattina a sera non pensavo ad altro che ad alfieri e pedoni e torre e re…Il piacere del gioco era diventato vizio, il vizio necessità, una mania, una rabbia frenetica…appena il gioco incominciava, una forza selvaggia m’invadeva: correvo su e giù coi pugni stretti, e come attraverso una rossa nebbia sentivo ogni tanto la mia voce, che gridava a se stessa, rauca e cattiva, “scacco” o “matto!”».

La partita che Czentovic conduce contro il dottor B. è in realtà una partita tra due culture, tra due modi di concepire la vita e di affrontare il mondo: quella, rozza ma vincente, ottusa ma di successo, del campione Czentovic, e quella raffinata ma sconfitta del dottor B.. La prima simboleggia la cultura nazista, violenta e arrogante, la seconda quella austriaca, o più in generale Mitteleuropea. Questa  Novella degli scacchi è, quindi una «fiaba fortemente metaforica», come ben arguisce nella sua originale prefazione Daniele Del Giudice, in cui gli scacchi sono puro pretesto, e il delirio finale del dottor B., in grado di condurre simultaneamente nel pensiero diverse partite, ma incapace di portarne a termine una, quella decisiva, è il simbolo della resa di un continente alla brutalità pianificata di Hitler, della resa di Zweig di fronte al crollo dei suoi ideali.

«L’Arena», 1 agosto 1991

RECENSIONI

ZWEIG

STEFAN ZWEIG, GLI OCCHI DELL’ETERNO FRATELLO – ADELPHI, MILANO 2014

Stefan Zweig pubblicò questa leggenda indiana – una sorta di apologo sulla giustizia e sulla nonviolenza – nel 1922. Protagonista di Gli occhi dell’eterno fratello è un nobile e antico guerriero di nome Virata, che nel corso di una cruenta battaglia in difesa del re, uccide involontariamente suo fratello, il cui sguardo accusatore tornerà a tormentarlo negli occhi di qualsiasi vittima dell’ingiustizia del mondo.
Proprio decidendo di rinunciare a qualsiasi sopraffazione e violenza, nel corso del racconto Virata va astenendosi da tutti gli incarichi e le responsabilità che gli vengono affidate ufficialmente. In primo luogo, quindi, comprende che per mantenersi in accordo con «la potenza del dio dalle mille forme» deve rifiutare ogni guerra e spargimento di sangue, perché «chi partecipa al peccato di dare morte è lui stesso morto».

Ma la sua sensibilità rifugge anche dall’esprimere giudizi e dal condannare, in quanto «solo chi la riceve sa che cos’è la percossa, non chi la infligge; solo chi ha sofferto può misurare la sofferenza» e «chiunque amministri la giustizia agisce ingiustamente e incorre nella colpa». Sceglie quindi una passività che possa garantirgli l’innocenza, assumendo su di sé la natura di «morto nella vita e vivo nella morte», consapevole che ogni potere incita all’azione, e ogni azione interferisce nel destino degli altri uomini.
L’unica possibilità di conquistare la purezza assoluta sembra risiedere per Virata nella scelta di una vita contemplativa e solitaria, lontana da ogni possesso materiale e dalle passioni, immerso nella natura. Nemmeno in questo modo ci si può però sottrarre al male involontario recato al prossimo: isolamento e sapienza imperturbabile sono infatti strumenti della superbia, e non è possibile evitare la violenza, sia che si scelga di agire o di non agire. L’estrema liberazione dall’imposizione di sé si può scoprire soltanto nell’umiltà delle mansioni più modeste e disprezzate, perché «solo chi serve è libero».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Gli-occhi-dell-eterno-fratello.html

25 febbraio 2016

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ZWEIG

STEFAN ZWEIG, RACHELE LITIGA CON DIO – ELLIOT, ROMA 2015

I due racconti di argomento biblico presenti in questo volumetto di Stefan Zweig (1881-1942), Rachele litiga con Dio e Il pellegrinaggio, riassumono un po’ tutti i temi presenti nella narrativa dell’autore austriaco: la morte sempre incombente, come minaccia o liberazione; il conflitto con l’altro, nemico o amico che sia; la lotta contro il potere espresso in termini violenti e sopraffattori; la caduta delle illusioni; il sacrificio inutile o comunque destinato al fallimento. Sono poi tutti temi che appartengono alla biografia stessa di Zweig, alla sua personale e coraggiosa sfida contro il nazismo, conclusasi con il suicidio suo e di sua moglie in Brasile.

Il secondo dei due racconti è brevissimo e fulminante, perfetto nel suo precipitarsi ansioso verso un finale non esplicitato, ma intuibile in tutta la sua drammatica inevitabilità. Narra di un giovane della Giudea, molto pio e ingenuo, affascinato dall’idea di poter incontrare il Messia che sta compiendo miracoli in tutta la Palestina: così preso da questo miraggio da sognare ogni notte il viso angelico del figlio di Dio. Si mette quindi in cammino verso Gerusalemme, ma a metà percorso (assetato, stanco, indebolito) sviene, ed è soccorso da una giovane e conturbante donna siriana. Cedendo al fascino di lei, soccombendo alla tentazione, finirà per perdere colpevolmente l’appuntamento con il destino e con la salvezza.

Nella prima e più famosa novella che dà il titolo al libro, l’Onnipotente si adira con il suo popolo, tornato ad adorare gli idoli con offerte sacrileghe. La collera divina si manifesta violentemente, squarciando i cieli e sconvolgendo le acque, squassando la terra e distruggendo gli animali. Le suppliche dei patriarchi e dei profeti non valgono ad ammansirlo. Si alza allora la voce tremante di una donna minuta, Rachele, uscita dalla sua tomba a Ramah. Rachele inizia a parlare con Dio, che l’ascolta in silenzio, ricordandogli tutta la sua vita tormentata: l’amore contrastato per Giacobbe, gli odiosi tranelli del padre Labano, la gelosia della sorella Lia. E come lei fosse riuscita a perdonare, a non recriminare. Se il suo Signore, invece, rimarrà schiavo del proprio furore, vorrà dire che non merita la fedeltà degli uomini: «Sei un dio estraneo, un Dio della vendetta, un Dio della collera, un Dio del castigo, e io, Rachele, che amo solo il Dio dell’amore e ho servito solo il Misericordioso, io, Rachele, ti rinnego qui, davanti ai tuoi angeli!… E pertanto ti accuso: la tua parola, Signore, contraddice il tuo Essere, e la tua parola adirata smentisce il tuo vero cuore».

Il discorso fremente della temeraria intimorisce ogni creatura, umana e celeste: ma l’Onnipotente si illumina, grato del coraggio della donna che aveva voluto essere figlia, moglie e madre a dispetto di ogni difficoltà, e non aveva avuto paura di alzarsi in piedi, di guardarlo e di litigare con lui.

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/Rachele-litiga-con-Dio-Zweig.html;  30 marzo 2017

 

 

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ZWEIG

STEFAN ZWEIG, AMOK – ADELPHI, MILANO 2004

Nel marzo del 1912 una nave proveniente da Calcutta e in transito nel porto di Napoli è al centro di un misterioso accadimento notturno, che la straordinaria maestria narrativa di Stefan Zweig rivela solo nel finale di questo avvincente racconto. All’inizio e per alcune pagine il lettore segue il monologo infastidito dell’io narrante, un passeggero costretto a viaggiare in una cabina umida e rumorosa, irritato dal frastuono delle turbine e dagli schiamazzi degli altri ospiti del transatlantico. L’insonnia e il caldo tropicale lo costringono a passare la notte sul ponte, fumando in silenzio, accompagnato nelle sue meditazioni dallo sciabordio delle onde: «Non avevo mai visto il cielo come in quella notte, così accecante, duro come acciaio inazzurrato e tuttavia scintillante, grondante, fremente, zampillante di luce che si partiva, larvata, dalla luna e dalle stelle e che sembrava in qualche modo ardere da un interno misterioso».

Improvvisamente scorge accanto a sé la sagoma di un uomo, in evidente stato di agitazione e di alterazione alcolica. Tra i due si instaura subito una sorta di complicità, basata sulla solidale comprensione del primo e sull’ansiosa necessità di sfogarsi dell’altro. Che subito si qualifica come medico, e medico in fuga da una tragedia che lo aveva irresponsabilmente, ma forse innocentemente, coinvolto. Tedesco, era stato costretto a lasciare la Germania in seguito a uno scandalo, avendo sottratto all’ospedale in cui lavorava una forte somma di denaro, sotto l’influenza di una donna «fredda e altera» di cui si era perdutamente innamorato. Imbarcatosi per le Indie olandesi, con il miraggio di iniziare una nuova vita e di riparare al suo debito, si era visto assegnare una condotta in una zona putrida della foresta interna. Qui aveva trascorso sette anni, occupandosi della salute degli indigeni, ma in un perenne e umiliante stato di prostrazione professionale e culturale. Un pomeriggio si era presentata in ambulatorio una signora europea, elegante e gelida, dal «viso impenetrabile, duro, pieno di sicurezza, d’una bellezza senza età … un viso con due occhi grigi inglesi in cui tutto sembrava quieto e dietro ai quali si poteva immaginare ogni genere di passione», che sommergendolo dapprima di complimentose tergiversazioni con una «loquacità grandinante», gli aveva poi chiesto imperiosamente di intervenire, in cambio di molto denaro, a risolvere la sua drammatica e imbarazzante gravidanza illegittima e indesiderata.

Qui la finezza psicologica di Stefan Zweig si rivela impareggiabile nel seguire la tortuosità delle reazioni del medico, descritte in termini quasi deliranti eppure anche di estrema e lucida consapevolezza: sconcerto, rabbia, rifiuto, disprezzo, volontà di ricambiare l’umiliazione, ansia di vendetta, per finire in un parossistico e indomabile desiderio sessuale. La ricca signora si allontana precipitosamente, e il medico viene assalito da un attacco di pazzia. L’Amok, appunto, che con un termine malese indica «una follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana… un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun’altra intossicazione alcolica», che colpisce gli uomini rendendoli furiosamente irrefrenabili. Il medico insegue la donna, e non riuscendo a raggiungerla, decide di lasciare il suo ambulatorio trasferendosi nella città di lei, ottenebrato non solo dalla passione fisica, ma anche dalla volontà di soccorrerla, aiutandola a liberarsi del bambino. La follia, “l’Amok”, gli fa assumere atteggiamenti incresciosi, che turbano e insospettiscono la rispettabile comunità europea in cui la signora è inserita.

Gli avvenimenti precipitano irreparabilmente verso la tragedia. L’aborto clandestino a cui ricorre la donna presso una mammana cinese, la conduce a morire dissanguata: il medico per salvarne la reputazione firma, in un estremo impeto di generoso e folle sacrificio, un falso certificato di morte: quindi lascia il suo lavoro e si imbarca per l’Europa. Sulla sua stessa nave tuttavia l’ignaro marito della signora fa imbarcare la bara di lei, con il probabile intento di sottoporre il cadavere della moglie a un’autopsia in patria. E qui l’incidente notturno accennato nelle prime pagine del racconto scriverà la parola fine, inaspettata ma definitiva (che mi sembra giusto non rivelare), alla terribile vicenda.

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Amok-Stefan-Zweig.html         2 maggio 2018

 

RECENSIONI

ZWEIG

STEFAN ZWEIG, IL LIBRO COME ACCESSO AL MONDO – ARCHINTO, MILANO 2021

Opportunamente le edizioni Archinto pubblicano alcuni saggi di Stefan Zweig sull’importanza formatrice della lettura. Il libro come accesso al mondo raccoglie dieci testi che, oltre a testimoniare l’acume critico dello scrittore viennese, ne mettono in luce la profonda sensibilità letteraria e la radicata convinzione nel valore etico della cultura. Stefan Zweig (1881-1942) a ottant’anni dalla morte continua a mantenere intatto il suo fascino di intellettuale poliedrico, di scrittore raffinato e versatile, di uomo dall’alta e coraggiosa statura morale. Inviso ai nazisti per le origini ebraiche e per la strenua opposizione politica, fu costretto a lasciare l’Austria dopo il rogo dei suoi libri nel 1933, rifugiandosi prima a Londra, poi a New York e infine in Brasile, dove si uccise avvelenandosi insieme alla seconda moglie.

Gli interventi raccolti in questo piccolo volume sono accomunati dalla stessa tensione etica, e dalla stessa penetrante analisi testuale. Si tratta di recensioni pubblicate su diversi organi di stampa di lingua tedesca tra il 1905 e il 1931, che la curatrice e traduttrice Simonetta Carusi postilla con chiarificatrici note conclusive. Hanno la dote della vivacità comunicativa, determinata dall’essere destinate al commento puntuale di pubblicazioni correnti, commento che però travalica l’attualità spingendosi oltre alla contingenza dei libri presi in esame, perché arricchito da riflessioni filosofiche, citazioni letterarie, riferimenti storici che assumono un carattere teorico e ideologico universale.

Quindi leggiamo due saggi del 1906 e del 1908 dedicati a Rainer Maria Rilke, (“un poeta in cerca di Dio”), alla sua poesia “di temerarietà inaudita” da meditare “con amore”: “nessuno – nessuno! – oggigiorno in Germani scrive versi così belli, potenti, raffinati”. Altre due recensioni sono riservate ai romanzi di Joseph Roth, “impregnati di realismo e scritti in una prosa smagliante”, capaci di rispecchiare il disorientamento psichico e sociale di una generazione tragicamente reduce dalla prima guerra mondiale.

Del 1930 è l’omaggio che Zweig tributa a Il disagio della civiltà di Sigmund Freud, la cui grandezza intellettuale e scientifica viene individuata nella capacità di “gettare domande nel mondo”, in modo “crudo, oggettivo, non addolcito dalla fede … con severità e determinazione”.

Ma l’attenzione dello scrittore austriaco è rivolta anche a temi più generali, quali le tradizioni popolari, il recupero del genere fiabesco, le inquietudini giovanili, esaminati in tre brevi articoli: Ritorno alla fiaba, Il diario di una adolescente, Il dramma nelle Mille e una notte, in cui con rigore e onestà affronta la contrapposizione tra il passato più remoto, le civiltà più lontane e lo sconcerto di una modernità difficile da interpretare. In questo senso, il suo elogio della “cultura come antidoto alla barbarie”, il suo sospetto verso un’epoca forsennatamente dominata solo dalla tecnica, trovano gli accenti più appassionati nei due testi che aprono e chiudono il volume, che definiscono il libro come accesso e visione del mondo, di cui mi sembra importante riportare alcune frasi.

“Il libro ha il potere di dilatare l’anima e costruire mondi nella nostra vita interiore… Come si fa a sopportare di non conoscere nient’altro al di fuori di ciò che si coglie esclusivamente con gli occhi, con le orecchie, per puro caso; come si fa a respirare senza l’ossigeno che emana dai libri? … Quando leggiamo, non ci rendiamo conto di assorbire attraverso gli occhi una sostanza impalpabile che rinvigorisce il nostro organismo spirituale… Quando leggiamo, cos altro facciamo se non partecipare dall’interno alla vita di persone estranee, vedere con i loro occhi, pensare con il loro cervello? Quanto più si vive in intimità con i libri, tanto più profondamente si sperimenta la totalità della vita, perché colui che ama i libri, grazie al loro aiuto, vede e comprende il mondo in modo miracolosamente potenziato, non solo con i propri occhi, ma con lo sguardo di innumerevoli anime”.

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SoloLibri.net › Il-libro-come-accesso-al-mondo-                     2 agosto 2021