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RECENSIONI

BERNHARD

THOMAS BERNHARD, AMRAS – SE, MILANO 2018

Pubblicato in lingua tedesca nel 1964, e tradotto da noi per la prima volta nel 1989, Amras è stato definito da Thomas Bernhard «il libro prediletto», non solo perché condensa nelle sue pagine i temi e le atmosfere più tipiche della propria scrittura (la dissoluzione di un ambiente geografico e culturale, l’ambivalenza distruttiva dei rapporti familiari, la polemica contro il perbenismo claustrofobico della borghesia), ma anche perché utilizza una tecnica narrativa decisamente originale, strutturandosi polifonicamente in brani contrapposti di esposizioni diaristiche, aforismi, citazioni letterarie, epistolari, ricostruzioni biografiche, visioni allucinatorie, materiali scientifici, servendosi di una sintassi complessa e franta, ribelle a qualsiasi linearità logico-temporale. Nella recente edizione milanese di SE, con l’ottima traduzione di Magda Olivetti, il romanzo è corredato da ricche note biobibliografiche, da un’interessante appendice fotografica, e soprattutto da un’approfondita ed esaustiva postfazione del germanista Luigi Reitani, che ne ricostruisce sapientemente le fasi di composizione, le vicende editoriali, l’accoglienza critica e le motivazioni letterarie ed extra-letterarie alla base della sua elaborazione.

Due fratelli ventenni vengono segregati per alcuni mesi in una torre successivamente al loro tentato suicidio, seguito a quello perpetrato dai genitori.  Voce narrante è K., studente di biologia, che vive un rapporto simbiotico con il più giovane Walter (“il mio Walter”), musicista, e ne documenta il declino fisico e mentale, accentuato da una grave forma di epilessia ereditata dalla madre, fino alla morte volontaria di lui. Amras è il nome della torre in cui i due fratelli sono richiusi, proprietà dello zio materno che provvede a mantenerli in questo stato di prigionia onde evitare loro la reclusione in manicomio: si tratta di un edificio freddo e buio, nei dintorni di Innsbruck, in cui i due ragazzi tentano di ricostruire le loro esistenze, in una morbosa relazione di reciproca dipendenza omoerotica, rievocando con rabbia e nostalgia il loro passato familiare, l’ostilità dell’ambiente tirolese, gli amati studi scientifici e letterari. K. ricompone le tristi vicende che hanno lentamente condotto i genitori alla catastrofe economica e alla disperazione esistenziale, convincendoli all’esito drammatico del suicidio: il patrimonio finanziario sperperato dal padre, la malattia mentale della madre, l’atmosfera persecutoria e funerea in cui sono stati cresciuti, il culto elitario per la poesia e l’arte non condiviso dalla cerchia parentale e cittadina. Esclusione e auto-esclusione, senso di inferiorità commisto a un’eccessiva considerazione di sé, complessi di colpa e repressione di ogni istinto vitale, avevano minato dalla prima infanzia il loro carattere e ogni qualsiasi serena disposizione nei riguardi della vita.

«Nella torre, i nostri pensieri andavano soprattutto all’infanzia, perduta per via della  catastrofe… abbandonati a noi stessi, la nostra infanzia era stata guidata dai nostri genitori, grazie al loro sapere e al loro sentire, con invisibile rigore… più tardi dai medici e dalle loro arti nel prescrivere ricette, dalla disperazione materna e paterna… un triste declino di tutto ciò che ci permetteva di sbocciare timidamente oscurò l’ultimo decennio della nostra vita in famiglia… attorno a noi, dentro di noi e insieme a noi, tutto s’andava sgretolando, lo si vedeva, come in pensiero, dalle persone, dalle case…».

Un’angosciante voluptas mortis pervade tutta la narrazione di Thomas Bernhard, che percepisce la quotidianità come costrizione e violenza, brutalità della natura e della civiltà sull’uomo, che vanamente tenta di crearsi un altrove ideale in cui sopravvivere (Gelo, Estinzione, Perturbamento, In terra e all’inferno, La cantina, A colpi d’ascia, In hora mortis, La fornace, Il freddo, Costrizione, Il soccombente, Sotto il ferro della luna, sono i titoli che emblematicamente indicano l’ossessiva negatività del suo universo espressivo). Ma qui, in Amras, l’autore sembra raggiungere l’apice della «consapevolezza tragica e piena del suo incancellabile dolore», come scrive Luigi Reitani, pur nell’umanissimo rimpianto per quello che la vita ‒ con i suoi suoni, le luci, la poesia, gli affetti – potrebbe regalare.

 

© Riproduzione riservata     https://www.sololibri.net/Amras-Bernhard.html     13 novembre 2018

RECENSIONI

BERNHARD

THOMAS BERNHARD, CEMENTO – SE, MILANO 2023

Pubblicato in Germania nel 1982, e per la prima volta da Studio Editoriale nel 1990, dopo numerose ristampe ritorna oggi sul mercato Cemento, uno degli ultimi romanzi scritti da Thomas Bernhard (1931-1989). Il volume è corredato da ricche note biobibliografiche, da un’interessante appendice fotografica e soprattutto da un’approfondita ed esaustiva postfazione del compianto germanista Luigi Reitani, che ricostruisce sapientemente non solo le motivazioni letterarie ed extra-letterarie alla base della sua elaborazione, ma anche le polemiche con cui venne accolto dalla critica.

Non si tratta di un’autobiografia, sebbene siano presenti episodi della vita dell’autore, ma di una confessione monologante messa per iscritto da un intellettuale austriaco di mezz’età, il cui nome viene riportato solo all’inizio e alla fine del volume, sempre con lo stesso sintagma: “scrive Rudolf”. In effetti il protagonista sembra non saper fare altro che scrivere, persino nel momento in cui riconosce di non riuscire a scrivere. Né a scrivere né a vivere, con gli altri, tra gli altri, per gli altri. La sua è una storia di solitudine e nevrosi (che gli psichiatri definirebbero compulsiva), di frustrazione per la propria inettitudine, di rancore nei riguardi della famiglia e della società, di complessi di colpa per non essere stato all’altezza delle sue aspirazioni: sempre in preda a manie persecutorie, ambizioni smodate, ipocondria ossessiva.

Rudolf, secondogenito di una ricca e aristocratica famiglia austriaca, dopo la morte dei genitori si rinchiude nella dimora ereditata nel paesino di Peiskam, con l’unica saltuaria compagnia di una domestica fedele e discreta, e sotto l’opprimente controllo della sorella maggiore Elisabeth, esercitato sia a distanza dalla residenza viennese, sia negli occasionali e irritanti soggiorni nella comune proprietà di campagna. Dopo aver tentato studi filosofici, giuridici e scientifici senza riuscire ad arrivare alla laurea, Rudolf decide di dedicare la propria esistenza alla musicologia, impegnandosi in studi critici sui maggiori compositori classici. In particolare, le sue ricerche d’archivio, postillate da una grande mole di appunti e tracce programmatiche, riguardano la stesura di un saggio su Mendelssohn Bartholdy, in gestazione da molti anni, ma incagliata sin dall’avvio per la difficoltà di affrontare la frase iniziale.

Intorno al tema della scrittura che non è in grado di scriversi ruota tutto il romanzo. L’io narrante elenca ossessivamente ogni pretesto che gli impedisce di sbloccarsi: dal cattivo funzionamento di una lampada ai rumori distraenti, dai malesseri fisici alla presenza castrante e indisponente della sorella. Elisabeth, al contrario del fratello, è un’imprenditrice di successo nel campo immobiliare; donna di mondo, elegante, concreta, disinvolta nei rapporti sentimentali e d’affari, tratta Rudolf con ironica supponenza mista a compassione. Da lui considerata volgare, sciocca e perfida, viene tuttavia temuta: “Lei guidava i miei passi e al tempo stesso ottenebrava la mia mente… A me fanno schifo i suoi affari, a lei fa schifo la mia fantasia, io disprezzo i suoi successi, lei disprezza la mia mancanza di successo”.

La partenza della sorella toglie al protagonista l’ultimo alibi per non dare inizio al lavoro, e insieme lo induce a recriminare sui motivi del proprio fallimento esistenziale. Proclama la sua sfiducia nel genere umano, il disinteresse per la natura, la disillusione verso l’amore e l’amicizia (“che parola pustolosa!”). Pur avendo viaggiato moltissimo nella giovinezza, ora considera lo spostarsi di casa una fatica dispendiosa. Della solitudine in cui ama crogiolarsi incolpa la società viennese, l’aristocrazia e il popolino, l’accademia e la stampa, i politici e gli intellettuali, la Chiesa e il socialismo, la tradizione e la modernità: Vienna “cloaca d’Europa” reagirà con astio e fastidio, attraverso una campagna giornalistica persecutoria, all’esplicita ostilità dichiarata nel nuovo testo di Bernhard, ricalcante i suoi precedenti lavori narrativi e teatrali.

Nauseato da tutto, e principalmente da se stesso, Rudolf decide di provare a recuperare la salute precaria e di abbozzare finalmente il saggio su Mendelssohn trasferendosi a Palma di Maiorca, che già in passato lo aveva ospitato con gentilezza e premura. I preparativi per la partenza appaiono assillanti nella loro minuziosità, e provocano nel lettore un effetto esilarante per la descrizione puntigliosa e maniacale dell’allestimento dei bagagli.

Sullo sfondo della località iberica, le ultime trenta pagine il romanzo prendono una piega inaspettata, pur rimanendo vincolate alla forma del monologo descrittivo. Dopo aver preso possesso della stessa lussuosa camera d’hotel già occupata in passato, Rudolf rievoca l’incontro avvenuto due anni prima con una ragazza tedesca, che gli aveva raccontato della disperazione priva di prospettive in cui si trovava, a causa della tragica morte del marito precipitato dalla terrazza del loro fatiscente albergo, e tumulato in fretta e di nascosto nel cimitero cittadino. Informato già nei primi giorni di vacanza del successivo suicidio della giovane vedova, il ricordo tormentante dell’angoscia di lei mette fine alla sua illusione di potersi dedicare alla stesura del saggio musicale, e lo cementa in un’atonia priva di slanci, condannata di nuovo a una spietata autoanalisi priva di assoluzione.

La straordinaria abilità narrativa di Thomas Bernhard si esprime nell’esplorazione dei labirintici percorsi di un pensiero psicotico, nella ricostruzione di temi e atmosfere tipiche della propria narrativa (la dissoluzione di un ambiente culturale, l’ambivalenza distruttiva dei rapporti familiari, la polemica contro il perbenismo claustrofobico della borghesia austriaca), e nell’esasperazione di formule volutamente intese a creare effetti ironici e stranianti (ripetizioni, intercalari e  sottolineature del parlato).  Anche in Cemento l’autore austriaco esibisce la stessa modalità espressiva livida e sarcastica delle prove maggiori, mettendo in luce i nodi e le rigidità caratteriali ereditati dalla sua sofferta vicenda biografica, che hanno fatto di lui un maestro di scrittura autoreferenziale e ferocemente sovversiva.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 11 novembre 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BERNINI

FABRIZIO BERNINI, L’APPRENDIMENTO ELEMENTARE – MONDADORI, MILANO 2011

Fabrizio Bernini (1974) ha pubblicato questo volumetto di versi nel 2011, a un’età in cui si cominciano a mantenere le posizioni acquisite, a raccogliere frutti, a considerare il reale nella sua concretezza. Eppure le sue poesie (di stampo e ambientazione dichiaratamente pavesiane, con il contrasto un po’ datato tra città e campagna, infanzia e età adulta, prosaicità e sogno) esprimono tutta la sospesa disillusione, la mancanza di coraggiose prospettive future, l’estraneità a una storia solo subita, della generazione degli under 30, votata alla precarietà e alla rinuncia di ogni speranza.
L’apprendimento elementare”, insomma, di una immodificabile infelicità senza desideri.

La nostalgia per un’infanzia rurale (“la collina davanti, tutta nel sole», «un fosso dove cercavo strani animaletti / nell’acqua”), che tuttavia si intuisce poco allegra e segnata da ricordi o intuizioni allarmanti, cede il passo alla sconfortata descrizione di una realtà periferica, fatta di condomini dalle pareti sottili, esistenze operaie o piccolo borghesi, rassegnate, invecchiate: tra anziane coppie silenziose e abitudinarie, e giovani privi di iniziative, di fantasie, di amori: “Se mi guardo non sono diverso. Un anno fa, adesso. / Nemmeno uno sfregio, nemmeno i capelli pettinati / in un altro modo”, “A colazione mio padre mi guarda di sfuggita / mentre succhia dalla scodella”.

Una poesia narrativa, la sua, che evita stilemi tradizionali eppure non tenta alcuna sperimentazione formale, e spesso si rifugia nelle sentenziosità di un verso finale asseverativo, a ribadire un punto fermo che teme di essere messo in crisi, interrogato, discusso: “L’estate verrà”, “Trinciato dalla lentezza”, “Oggi cominciano i saldi”, “Ciò che siamo è invulnerabile”, “E il tempo sembrava di pane”, “Mi è indispensabile”. Per cui la sua dichiarazione di poetica diventa lo specchio severo e inconfutabile di una dichiarazione di vita, quasi rassegnata al fallimento, alla perdita, all’inazione. “Non ci sarò per il bene e l’oggetto, / resterò a distanza, sull’intercorrere/ che divarica la storia”.

 

©Riproduzione riservata        www.sololibri.net/apprendimento-elementare-Bernini.html

27 novembre 2016

RECENSIONI

BERTOLUCCI

ATTILIO E NINETTA BERTOLUCCI, IL NOSTRO DESIDERIO DI DIVENTARE RONDINI. POESIE E LETTERE – GARZANTI, MILANO 2020

Attilio Bertolucci (1911-2000) ed Evelina – detta Ninetta – Giovanardi (1912-2005) si sono sposati nel 1938 e hanno avuto due figli, Bernardo e Giuseppe, registi di fama. Sessantadue anni di matrimonio vissuti nell’affetto, nella stima e nella collaborazione reciproca: lui valente poeta, impegnato intellettuale, traduttore e critico; lei insegnante e sceneggiatrice di piccoli film gialli ricchi di humour. La loro lunga storia d’amore era iniziata tra i banchi del liceo Romagnosi di Parma, e a partire dagli anni del corteggiamento si era nutrita di una fitta corrispondenza, consolidata in seguito attraverso lo scambio di esperienze e di passioni comuni – la musica, il cinema, la letteratura. Garzanti, editore di quasi tutti i volumi di poesie di Attilio, pubblica adesso il loro epistolario, integrato dai molti versi dedicati alla moglie, con un titolo suggestivo: Il nostro desiderio di diventare rondini, a cura di Gabriella Palli Baroni.

Poeta con una manifesta vocazione alla descrizione e al racconto, Attilio Bertolucci componeva in forma pacatamente narrativa, come nel romanzo familiare in versi La camera da letto, utilizzando immagini di ambienti interni ed esterni recuperate da memorie personali, con forte incidenza affettiva. Ne sono testimonianza i numerosi testi riportati nel libro garzantiano (di poesie edite e commentate singolarmente, e di lettere inedite), che definiscono l’autore non solo come poeta d’amore, ma come suggerisce la curatrice, “poeta d’amore coniugale”. Ninetta è stata la musa ispiratrice di Attilio, protagonista in grazia e festosità già dai primi versi dedicatele nella raccolta Fuochi in novembre, del 1934: “Coglierò per te / l’ultima rosa del giardino, / la rosa bianca che fiorisce / nelle prime nebbie. / Le avide api l’hanno visitata / sino a ieri, / ma è ancora così dolce / che fa tremare…”, “Vorrei esser il sole che ti scalda / quando esci dall’acqua, freddolosa / e gocciolante, e sì ti fa radiosa / negli occhi, felice e calda…”.

La vivace e gioiosa esuberanza giovanile si trasforma col passare del tempo in una più ponderata consapevolezza sentimentale e morale, per cui la fidanzata diventata moglie e madre assume il ruolo più maturo di compagna, confidente e guida, come si evince dalle struggenti parole di questa lettera: “Noi dobbiamo attraversare questa cosa dolce e terribile che è la vita, insieme, dobbiamo fare un lungo viaggio sempre insieme, e avremo in comune la gioia e la tristezza e tutte le mattine svegliarsi vicini e volerci sempre bene e comprenderci”. La richiesta d’amore che il poeta rivolge alla sua donna è insieme esigente, timorosa, grata, impaurita: “Non mi lasciare solo se io / ti lascio sola”, “Perché le farfalle vanno sempre a due a due / e se una si perde entro il cespo violetto / delle settembrine l’altra non la lascia ma sta / sopra e vola confusa”, “Portami con te nel mattino vivace / le reni rotte l’occhio sveglio appoggiato / al tuo fianco di donna che cammina / come fa l’amore”.

Sarà sempre Ninetta, dopo il trasferimento a Roma dalla campagna emiliana, a proteggere il marito non solo dall’estraneità minacciosa della capitale, ma soprattutto dalle sue ansie ben presto deformatesi in pura nevrosi. Pratica e razionale, salda nella difesa del nucleo familiare, è Ninetta l’ancora a cui la fragilità del marito si aggrappa, “luce diurna della sua ragione”. Nelle più tarde Chroniques maritales, la complicità tra i due sposi ormai anziani si esalta nella descrizione di momenti di intimità quotidiana, gesti concreti di ogni giorno, e sentimenti che sfumano dalla tenerezza alla gelosia, fino a un delicato erotismo: “– Ma tu lascerai che affondi la faccia / nella tua erba? / Che io estingua la mia sete nel tuo sonno?”, “I nostri corpi, cara, in questo letto / famigliare nell’aria ferma dell’amore / mentre al di là delle finestre chiuse / le stagioni piangendo se ne vanno”, “Ma continua con me / ormai che ci sfiora radente / l’ala del tempo e dell’età”. Accanto alla donna amata, il poeta rappresenta con altrettanta delicatezza e trepidazione i due figli, Bernardo e Giuseppe, in componimenti che li ritraggono dalla prima infanzia all’età adulta: “Avete visto due fratelli, l’uno / di quindici l’altro di dieci anni, lungo / il fiume, intento il primo a pesca, / il secondo a servire con pazienza / e gioia?”.

Oltre alle poesie dedicate a quello che pascolianamente potremmo definire il “nido” familiare, è soprattutto la fitta corrispondenza scambiata tra Attilio e Ninetta il nucleo documentario più nuovo e interessante del volume proposto da Garzanti. A partire dal primissimo scambio epistolare della giovinezza: “Mi sembra d’essere sicuro ora che ho te, d’essere sulla terra ferma” (28 gennaio 1934), “Sei talmente entrato nel mio cuore che non sarò mai proprio sola” (20 febbraio 1934), “Non staremo bene se non saremo uniti” (10 giugno 1934).). Da una parte la tenerezza indulgente con cui lei accoglie le titubanze e le inquietudini di lui, dall’altra la ribadita necessità di lui di averla vicina, comprensiva e paziente, sempre in nome di “quell’armonia senza la quale vedo che nessuno di noi due si potrebbe più rassegnare a vivere” (11 novembre 1936).

Il loro intenso e romantico carteggio, secondo Gabriella Palli Baroni, “rappresenta perfettamente i due innamorati, riportandoci non solo la profondità dei sentimenti, ma il colore del tempo, gli slanci della loro giovinezza, le atmosfere della campagna e della città, le gioie del loro ritrovarsi, le trasgressioni e la quotidianità, la fatica dello studio e la grazia del comporre liriche, l’inclinazione infine verso ciò che è bello e importante: il sentimento del tempo e della natura, l’arte, il cinema, la musica, la poesia”. Una testimonianza, quindi, di grande valore letterario e umano, che apre anche ampi orizzonti su sessant’anni della vita culturale del nostro paese.

 

© Riproduzione riservata                   18 giugno 2020

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RECENSIONI

BERTONI

ALBERTO BERTONI, LA POESIA – IL MULINO, BOLOGNA 2006

La poesia rimane oggi, secondo l’autore di questo interessante e documentatissimo volume La poesia  (Il Mulino, 2006), una «sacca di resistenza» dove «almeno un poco di umanità continua a preservarsi». Ovviamente, quando si parli di una poesia intesa come «un’esperienza di scambio tanto forte, non soltanto fra autore e lettore, ma fra inconscio e coscienza, mondo inventato e mondo reale, da non lasciare indenne nessuno degli elementi coinvolti, consegnandoli a un’esperienza di straniamento».

Poesia quindi come nutrimento dell’anima e della mente, illuminazione interiore, scardinamento delle proprie ossidate certezze: «arte di respiro plurimillenari» o a cui avvicinarsi «con una competenza umile e adeguata». Per questo è necessario confrontarsi con essa in primo luogo come lettori, attenti e concentrati, come fruitori capaci di rispettosa gratitudine verso questa miracolosa incandescenza emotiva, e solo in un secondo momento come produttori, autori consapevoli dei propri mezzi, del proprio bagaglio di abilità letterarie.
Se è vero che in Italia almeno due milioni di persone scrivono versi, e solo duemila leggono abitualmente poesia, ecco che Alberto Bertoni richiama a un impegno culturale costruttivo nel riscoprire una poesia che sappia essere, come deve, rivelazione di verità ed emozione. E lo fa senza ipocrite diplomazie, quando sferza la produzione poetica contemporanea italiana, e vede in essa «un’assenza quasi assoluta di nuovi testi capaci di rompere schemi e attese, in un contesto di aurea mediocritas almeno apparente dove le nuove scritture risuonano tutte impeccabili, calibrate, maledette all’occorrenza ma solo con misura, talvolta addirittura intercambiabili…». Torni quindi la nostra poesia a sapere rappresentare un mondo «abissale e inabissato», a evocare, a suggerire, a spronare nuovi risvegli.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/La-poesia-Alberto-Bertoni.html;      22 gennaio 2016

 

 

 

RECENSIONI

BERTONI

ALBERTO BERTONI, IL LETTO VUOTO – ARAGNO, TORINO 2012

C’è un’ambivalenza che percorre tutte la pagine di questo volume di versi di Alberto Bertoni, un continuo oscillare tra aspetti opposti del reale: dall’ambiente domestico più conosciuto, e protettivo, e affettuosamente intenerito (la Modena natale, i campi, il gioco delle bocce, i “poveri gatti tristi”) ai viaggi all’estero (New York, Scozia…); dalla gente umile, di scarse ambizioni ma di solide verità che animava la sua infanzia (le robuste pulizie delle sorelle Barbolini, gli amici del nonno), alle conferenze universitarie e alla frequentazione di signore raffinate, fino agli omaggi riservati ai protagonisti culturali contemporanei (Delfini, Giudici, Bevilacqua, Guccini).

Le poesie hanno cadenze serenamente e malinconicamente narrative, più propense alla descrizione nostalgica che allo scandaglio introspettivo o alla meditazione: inframmezzate da prose tese a illustrare con uno stile piano e discreto memorie personali (il gioco del calcio o la passione per i cavalli), incubi o località che hanno lasciato un segno nell’animo del poeta, e non sembrano servire da contrappunto razionale ai versi, ma semmai valgono a prolungarne l’aura poetica. Che vibra maggiormente – senza tuttavia raggiungere l’incandescenza emotiva che il Bertoni eccellente critico letterario auspica in chi scriva poesia – quando l’autore si commuove sugli affetti più cari, come sulla demenza senile dei genitori e sulla loro morte (“Nel supremo trapasso / avrà riso mia madre del fatto / che non sono stato al suo fianco”) o quando traccia di se stesso un’immagine rassegnata e delusa (“Forse sono io quell’uomo / rannicchiato in un’auto uguale / che scruta il mio stesso giornale / di programmi e risultati / senza un ricordo di cui essere geloso / lo scatto di trotto sbilenco // questo cuore a riposo”; “Solo adesso / misuro il mio tempo / adesso che mi pens o/ mentre sto fermo…”).

IBS, 24 dicembre 2012

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BESPALOFF

RACHEL BESPALOFF, SULL’ILIADE – ADELPHI, MILANO 2018

Una parabola esistenziale simile, e una simile disposizione emotiva e culturale, unì negli anni ’40 due importanti protagoniste del pensiero novecentesco: Simone Weil e Rachel Bespaloff. Entrambe ebree di lingua francese, entrambe rifugiatesi negli Usa, entrambe studiose della classicità greca, non si conobbero mai: eppure le loro intuizioni sul mondo omerico le accomunano nel tentativo di spiegare le terribili vicende storiche della loro contemporaneità ricorrendo alle origini della civiltà occidentale.

Rachel Pasmanik Bespaloff (nata in Bulgaria, a Nova Zagora, nel 1895, da una colta famiglia di origini ucraine, e morta suicida in America, a South Hadley nel 1949), si trasferì bambina a Ginevra, dove compì studi musicali e letterari. Docente a Parigi dal 1919, sposò l’uomo d’affari Shraga Nissim Bespaloff, da cui ebbe una figlia, e iniziò a occuparsi attivamente di filosofia, frequentando una cerchia di intellettuali illustri, come Gabriel Marcel e Jean Wahl. Nel 1941, per sfuggire alle leggi razziali, fu costretta a emigrare con la famiglia negli Stati Uniti, senza riuscire mai ad adattarsi alla mentalità e al modo di vivere degli americani. Nel 1943 pubblicò il suo lavoro più noto, un volume Sull’Iliade composto da sette saggi, più volte edito in Italia, e da poco riproposto da Adelphi nella traduzione di Simona Mambrini. In esso, è il primo dei contributi che forse esprime al meglio l’indirizzo critico che Rachel Bespaloff diede al suo lavoro, riuscendo, nell’interpretazione di un testo particolare, ad assurgere a una visione universale dell’eterna lotta tra bene e male, sopraffazione e sottomissione, colpa e innocenza.

Nel duello che contrappone Ettore ad Achille, la figura che primeggia gigantesca è quella dello sconfitto: «Ettore ha sofferto tutto, e ha perduto tutto tranne sé stesso… Né superuomo, né semidio, né simile agli dei, ma uomo, e principe tra gli uomini». Ettore sente la pena di dover abbandonare la moglie e il figlio, di cui vorrebbe custodire la vita e la felicità; si riconosce terrorizzato di fronte al guerriero greco, addirittura fugge prima di affrontare il duello (nell’inseguimento del predatore e nella fuga della preda l’autrice riscopre la realtà eterna e cosmica del conflitto tra prepotenza e debolezza), ma sa in cosa consiste il suo dovere, accetta infine il destino che gli è stato assegnato: «Non voglio morire senza lotta né senza gloria, bensì facendo qualcosa di grande, che anche i posteri ricorderanno». Achille, assetato di rancore e di vendetta, è invece «nutrito di scontento e di ombrosa irritazione».

Sono entrambi giovani, valorosi, belli: perché nel mondo di Omero la bellezza consiste nella forza, l’immortalità è data dalla gloria, e combattere è l’unico modo per redimere la banalità inerme dell’esistenza. Gli errori e le ingiustizie della storia non trovano riparazione se non nella poesia: «Essa sola restituisce al mondo ottenebrato la fierezza oltraggiata dalla superbia dei vincitori, il silenzio dei vinti». Poiché vincitori e vinti sono ugualmente vittime, degli avversari e di sé stessi, delle loro passioni e delle loro viltà, eternamente in guerra: Polemos è il padre di tutte le cose, recita un frammento eracliteo. La guerra, in Omero e nella Bespaloff che lo legge, è inevitabile; la furia di Achille, la sua ira funesta, la sua folle sete di distruzione, sono l’essenza stessa della vita: «Senza Achille, l’umanità vivrebbe in pace. Senza Achille, l’umanità si rattrappirebbe, si addormenterebbe congelata dalla noia ben prima del raffreddamento del pianeta».

Ci sono però alcune figure femminili che nel poema salvano la possibilità della tenerezza, della premura, della comprensione. C’è Teti, giovane e trepidante madre di Achille, che sola sa trattenerne la furia, accarezzandolo, parlandogli con affetto. E Andromaca, che con serena tranquillità porge il frumento ai cavalli del marito prima della battaglia. C’è Elena, «che attraversa l’Iliade come una penitente, con la maestà che le conferisce la perfezione della sua sventura, della sua bellezza». Elena, come Anna Karenina vittima di un sogno infranto, colpevole di un’illusione, riesce a trovare delicate parole di conforto e gratitudine per Ettore e Priamo, gli unici in Troia a non esserle ostili: e accusa sé stessa quando in realtà responsabile della guerra è «la beata spensieratezza degli Immortali». Quegli dei, «Agenti provocatori, scaltri propagandisti… causa di tutto senza essere responsabili di nulla», secondo Rachel Bespaloff si meritano lo scherno di Omero, che ne deride le «commedie coniugali», le collere, i dispettucci, le gelosie: egoisti tormentatori del genere umano, «non disdegnano l’odore della carneficina, lo strepito delle passioni tragiche». Nella sua visione e descrizione del mondo, e del rapporto tra terra e cielo, l’Iliade ha molto in comune con la Bibbia e con Guerra e pace di Tolstoj.

Esistono infatti parallelismi tra Omero e le Sacre Scritture, perché il sentimento di colpevolezza collettiva dell’epica greca corrisponde al peccato originale della Bibbia, il concetto cristiano di redenzione e resurrezione trova un riscontro nell’azione eroica e nella ricerca della gloria immortale dei combattenti antichi: «Vi è, e sempre vi sarà, un certo modo di dire la verità, di proclamare la giustizia, di cercare Dio, di onorare l’uomo, che ci è stato insegnato al principio e che Omero e la Bibbia continuano di nuovo a insegnarci». Una lezione essenzialmente etica, di resistenza umana di fronte alle catastrofi, al dolore, all’ingiustizia.

Bespaloff ravvisa poi una correlazione anche tra Omero e Tolstoj, i quali «hanno in comune l’amore virile, l’orrore virile della guerra. Né pacifisti né guerrafondai, entrambi conoscono, raccontano la guerra quale essa è», in grado di travolgere le singole esistenze vulnerabili, così come di celebrare la grandezza di un popolo. «La guerra la si fa, la si subisce, la si maledice o la si celebra; come il destino, non la si giudica». Omero nell’Iliade osserva gli avvenimenti e i suoi protagonisti con equanimità, con uno sguardo calmo, dall’alto, superando qualsiasi angusta prospettiva in una visione cosmica, che abbraccia le vicende umane e quelle celesti, e riscatta sia ogni storia individuale sia le colpe della Storia universale, attraverso la funzione della poesia.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 11 dicembre 2018

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BETOCCHI

CARLO BETOCCHI, TUTTE LE POESIE – GARZANTI, MILANO 1996

«Che ne sarà del vento in Paradiso, / il vento che riporta la memoria;  Il mio cuore è debole, stasera, / come il sole che lento risale / i tetti, e profonde sono le mie colpe;  Ahi! L’uomo, come sempre tramonta;  Cielo, quel po’ che c’è, oggi, di sole, / un po’ dalle tue nuvole, ti prego, / per il mio freddo lascia trasparire;  C’è soltanto della pura gioia, nello stridìo / delle rondini, o anche un fitto / dolore?;  Le stanze sono poche: la tua tosse / erra di stanza in stanza: il mio silenzio / è ovunque, quieto, strano, come fosse / lui solo».

Sono alcuni dei folgoranti incipit delle poesie che Carlo Betocchi (straordinario, schivo, dimenticato poeta toscano di paesaggi, di antichi amori domestici) scrisse nella sua lunga e laboriosa vita. Esistenza non da intellettuale, la sua, ma da capocantiere, vicina agli operai e alla gente modesta, e imbevuta di poesia: studiata, fatta propria e prodotta con gentilezza sapiente, e anche con una grazia quasi francescana, da innamorato della natura e della creazione.
Un’anima chiara, indifferente ai richiami del successo letterario, benché frequentasse le riviste e gli scrittori più noti e importanti della sua epoca, e vantasse amicizie profonde con Luzi, Bo, Caproni. Di loro e di altri critici sono riportati in conclusione al volume recensioni affettuose e ammirate.
Così ne scrive Pasolini, ad esempio: «poesia piena di pace, verrebbe voglia di dire di benessere… inspiegabilità dovuta a un suo anacronismo…attenzione per le cose… pansensualismo che si identifica col panteismo…assoluto impegno umano… virile tenerezza… ininterrotto sentimento del divino…». E Baldacci: «religiosità creaturale… magico quotidiano… perpetua meraviglia». Infine Zanzotto: «quotidianità e brusca umiltà verso il mondo… sghemba allegria… consolazione e insieme gioia, anche un po’ stranita… luce e letizia». Insomma, Carlo Betocchi è tutto da recuperare e rileggere, pure se ormai si fa fatica a trovarlo, come succede ai poeti veri e trascurati.

 

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www.sololibri.net/Tutte-le-poesie-Carlo-Betocchi.html    17 marzo 2016

RECENSIONI

BETOCCHI

CARLO BETOCCHI, TUTTE LE POESIE – GARZANTI, MILANO 2019

“Che ne sarà del vento in Paradiso, / il vento che riporta la memoria”; “Il mio cuore è debole, stasera, / come il sole che lento risale / i tetti, e profonde sono le mie colpe; / ahi! L’uomo, come sempre tramonta”; “Cielo, quel po’ che c’è, oggi, di sole, / un po’ dalle tue nuvole, ti prego, / per il mio freddo lascia trasparire”; “C’è soltanto della pura gioia, nello stridìo / delle rondini, o anche un fitto / dolore?”; “Le stanze sono poche: la tua tosse / erra di stanza in stanza: il mio silenzio / è ovunque, quieto, strano, come fosse / lui solo”.

Sono alcuni dei folgoranti incipit delle poesie che Carlo Betocchi (straordinario, schivo, dimenticato poeta di paesaggi, di antichi amori domestici) scrisse nella sua lunga e laboriosa vita. Esistenza non puramente da intellettuale, la sua, ma all’inizio da capocantiere, vicina agli operai e alla gente del popolo, quindi da insegnante: imbevuta di una poesia imparata dai classici, fatta propria e prodotta poi con gentilezza sapiente, e con una grazia quasi francescana, da innamorato della natura e della creazione.

Betocchi nacque a Torino nel 1899 da una famiglia di lavoratori: il padre ferroviere dovette trasferirsi a Firenze quando lui aveva sette anni, e morì nel 1911 lasciandolo appena adolescente con la mamma e due fratelli minori. Formatosi nell’ambito di un cattolicesimo tradizionale e fervente, diplomato perito agrimensore, combatté nella prima guerra mondiale e poi volontario in Libia. In seguito lavorò come geometra edile, spostandosi in varie città italiane e francesi, ma mantenendo un entusiastico interesse per la letteratura, soprattutto di ispirazione religiosa. Fraterno amico di Piero Bargellini e Nicola Lisi, frequentava a Firenze gli scrittori e i critici del circolo ermetico (Luzi, Bo, Caproni), collaborando alle maggiori riviste culturali dell’epoca: Il Frontespizio, la Fiera letteraria, L’Approdo.

Attraverso un linguaggio diretto e colloquiale, un lessico privo di ricercatezze e sperimentalismi, una metrica basata sulla musicalità più lineare e cantilenante, a partire dalla prima raccolta del 1932 –  Realtà vince il sogno –, Betocchi descriveva la vita quotidiana delle città, dei cantieri, delle officine e dei campi, gli affetti domestici i panorami sereni e colorati, dal cielo cristallino e dalle campagne verdi, manifestando una lieta serenità verso l’esistenza e un affettuosità fraterna nei riguardi dei viventi e della natura, restando invece indifferente ai richiami del successo economico e della celebrità mondana: “Al declinare impallidito / ti vedo, giorno infinito; / va la solitaria luna, / terra, sassi, deserta schiuma”.

Di questo primo periodo poetico, Giovanni Raboni sottolineò “la profonda veridicità, la natura essenzialmente, intimamente realistica”, venuta trasformandosi nel tempo in senso “disperatamente diaristico e introspettivo”. Ne è testimonianza l’evidente cambio di registro stilistico negli argomenti spirituali, che da una religiosità naturale e festosa passa all’interrogazione cupa e dolorosa della stagione finale, messa a dura prova da lutti e malattie, quando la fede divenuta meno candida e festosa, si fa più intima, interrogante e dubbiosa: “Oh, da vecchio, andarsene con i lunghi passi della prosa! (…) Diranno: – Com’è cambiato! È diventato un altro!”, “Lascio me stesso a me stesso, / un disutile arnese: / meglio ancora: non lascio nulla, non esisto”, “Silenzio. È la mia vita / che dice silenzio. / Non dimentica, ma tace”.

Carlo Betocchi morì a Bordighera, il 25 maggio 1986, quai novantenne. Le sue poesie sono state raccolte in diverse antologie, edite dai nostri maggiori editori. La pubblicazione più recente si deve a Garzanti, e riporta giudizi e recensioni ammirate di molti critici e poeti.

Così ne scrive Pasolini, ad esempio: “poesia piena di pace, verrebbe voglia di dire di benessere… inspiegabilità dovuta a un suo anacronismo… attenzione per le cose… pansensualismo che si identifica col panteismo… assoluto impegno umano… virile tenerezza … ininterrotto sentimento del divino…”.

E Mario Luzi: “L’umiltà è in Betocchi la coincidenza di un fervido e innato sentimento creaturale con una vigorosa e davvero rivoluzionaria intuizione conoscitiva e creativa”, Carlo Bo ne esalta soprattutto la figura umana: “Non ho mai visto tanto naturale distacco nei confronti della propria piccola fama, così come non mi è mai capitato di trovare una così piena corrispondenza fra l’uomo e il poeta”. Mentre Luigi Baldacci parla di “religiosità creaturale… magico quotidiano … perpetua meraviglia”. Infine Andrea Zanzotto: “quotidianità e brusca umiltà verso il mondo… sghemba allegria… consolazione e insieme gioia, anche un po’ stranita… luce e letizia”.

Luce, letizia, meraviglia, umiltà, benevolenza: ovviamente non si parla di un santo o di un monaco, ma di un poeta dallo sguardo capace di posarsi con trasparenza e lievità sulla realtà circostante, non sterminata materialmente, ma spiritualmente profonda e vitale.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 6 giugno 2024

 

 

 

RECENSIONI

BETTARINI

MARIELLA BETTARINI, HAIKU ALFABETICI – IL RAMO E LA FOGLIA, ROMA 2021

Mariella Bettarini (Firenze, 1942) poeta, saggista, scrittrice e traduttrice italiana, ha svolto nell’ultimo mezzo secolo un’importante funzione aggregatrice di giovani talenti letterari, fondando riviste di poesia autogestite (Salvo imprevisti, L’area di Broca) e la casa editrice Gazebo.

Definita da Giuliano Manacorda “una delle voci più coraggiose e più originali nel campo delle iniziative culturali e della produzione poetica”, si è sempre prodigata intellettualmente in un incisivo lavoro di sensibilizzazione politica e femminista. Scrittrice feconda, ha da poco pubblicato la raccolta di poesie Haiku Alfabetici, in cui si rincorrono versi in forma di haiku, elencati alfabeticamente dalla A alla Z e raggruppati a tema, con argomenti che spaziano dalla natura alla scienza, dai sentimenti alla socialità: attenta sempre a un’esigenza comunicativa aperta e solidale con l’habitat umano e ambientale che ci circonda.

In questa sua originale rassegna, che partendo da Animali arriva a Zenith, con tappe significative che esplorano soprattutto atteggiamenti interiori dell’anima (Bene, Cuore, Dono, Ricordi, Gioia, Luce, Umanità, Vita), ha segnato un percorso emotivo di illuminazione personale, generosamente trasmesso ai lettori utilizzando la sinteticità dei tre versi canonici della millenaria composizione orientale. “Che cos’è gioia? / Misterioso pensiero / gioia – sì gioia // Gioire come? / Condividere gioia / è maggior gioia // Eppure gioia / è solitaria speme / solinga gioia // Viva la gioia / gioia non solitaria / sì – condivisa // Dunque che cosa? / Gioia contraddittoria / sempre gioiosa”).

Secondo la postfatrice del libro Annamaria Vanalesti, Bettarini “ha costruito una trama sottile, che fa da mappa del vivere, rilanciando a chi legge la sfida di riorganizzare il proprio itinerario esistenziale, ripercorrendolo con maggiore attenzione verso tutto ciò che si dà per scontato e che invece ha perso significato”. Nel riconoscere la gratuità della limpida purezza che ci viene offerta, la poeta esprime la propria gratitudine in un entusiastico omaggio alla luce: “Illuminante / luce che illumini / tu luminosa // Viva lucente / tu che il buio allontani / fammi tu luce // Ti dico grazie / per quello che ci doni: / luce – sì – luce // Se tu non fossi / come faremmo – oscuri / cuori oscurati? // E invece vivi / vivacemente vivi / di vita fonte”. Un’altra manifestazione di lieta adesione alla bellezza materiale del creato, nella convinzione quasi francescana della radice comune di tutto l’esistente (uomini e donne di ogni razza, animali e piante, ma anche aria, fuoco, terra e acqua) si trova nella fresca cinquina di versi dedicata alle foglie: “Stupende foglie / creature viventi / cuor di fogliame // Che dire – dirvi / o foglie maternali? / Son figlia vostra // Quando stormite / con voi l’anima canta / la mente vola // Quando cadete / ci pieghiamo con voi / voi aspettiamo // E sempre sempre / ci è sicura compagna / la beltà vostra”.

Persino la fine (sorella morte, diceva il Santo) è avvertita come traguardo luminoso da raggiungere, nella certezza di un approdo sicuro e confortante cui arrivare dopo un’esistenza spesa nel dono e nel per-dono, nella fratellanza, nella fiducia verso l’altro da sé: “Eccomi giunta – / eccomi – sì – allo zenith – / eccomi giunta // Cos’è lo zenith? / è – sì – l’intersezione / tra l’orizzonte… // … e tutto il cielo – / il cielo che sta sopra – / sopra la testa // E perché zenith? / zenith che non è nadir – / e perché zenith? // Zenith – sì – zenith? / perché è amico del Sole – del Sole amico”. La pace come obiettivo finale da porsi, quindi, come sigillo a una promessa fatta a se stessi e alla comunità amicale in cui si è inseriti, alla koinè espansa che tutto e tutti raccoglie, simbolizzata dalle lettere dell’alfabeto, dalla A iniziale alla Z conclusiva.

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net  12 aprile 2021