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RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, E NON AVERE OCCHI SPENTI – QIQAJON, BOSE 2021

“Don Angelo è un flauto, si lascia suonare da tutto e da tutti e si ascoltano racconti meravigliosi da quel vuoto di sé che è il suo cuore. Ha frasi incandescenti eppure miti, fuochi di sdegno eppure luminosi, ha ombre che fanno più vera la luce. Come fa? Con la compassione…”. Così Chandra Candiani nella lunga e affettuosa prefazione al libro di poesie di don Angelo Casati esprime la sua stima di poeta ai versi di un religioso come lei poeta.

Angelo Casati (Milano 1931) è presbitero della diocesi milanese, e ancora oggi ultranovantenne scrive e pubblica toccanti omelie settimanali nel suo blog Sulla soglia. Ha al suo attivo molte pubblicazioni che spaziano dalla poesia a commenti evangelici, da riflessioni spirituali su vari eventi della vita a veri e propri saggi, usciti per diverse case editrici (Cittadella, Romena, Paoline, Servitium, Àncora, Il Saggiatore…). Il volume edito da Qiqajon con il titolo E non avere occhi spenti comprende quasi duecento poesie tratte da venti brevi raccolte, composte tra il 2005 e il 2018 nel raccoglimento dei monasteri di Bose e Concenedo, nella sua dimora al centro di Milano e durante alcuni viaggi europei.

“Uomo non arreso” e innamorato di Dio, è a Dio che dedica versi struggenti di dedizione e preghiera, al Signore dei cieli e della terra che nel suo silenzio ascolta e accompagna, Padre creatore di bellezza, Padre che protegge e perdona: “Né so / se mi segui o mi precedi / impalpabile come questa ombra”, “E io non so darti nomi, / ma ti guardo, Signore”, “Oso chiederti per grazia / che sia tu, Signore, / la luce segreta / dei mie occhi impoveriti // … Tu a ridare senso al non senso, / tu luce dei miei occhi, o Dio”, “Porto veglia di occhi e stupore / per te, o Dio, / che vai convocando / fili d’erba e polvere di stelle”, fino all’implorazione: “Se tu scendessi, Signore!”

E c’è il Figlio, “profeta di Nazaret” che povero tra i poveri, entra con umiltà in Gerusalemme in groppa a un asino, ma sa anche brandire “la sua frusta / infuocata / dello zelo, a rovesciare / bancarelle e mercati”, e piomba “nel tempio terrore / per occhi / inveleniti di scribi e farisei”.

Lo stesso zelo, la stessa indignazione che anima don Angelo, persona mite e dolcissima, ma incapace di trattenere la sua riprovazione di fronte alle ingiustizie del mondo, alle guerre, alle stragi dei migranti in mare – “stupro di umanità”–, e all’indifferenza colpevole della politica e della Chiesa. Allora il suo tono di voce si inasprisce, nelle due lunghe composizioni Caritas in veritate e Rito e menzogna, in cui biasima “l’ingordigia dei grandi”, la loro vana pusillanimità: “Poi ho sentito / volti truccati / declamare intenzioni / sempre intenzioni / solo intenzioni, / salvi solo / i loro interessi”, esprimendo amarezza in una lunga litania: “Hanno abbassato i monti, / l’hanno chiamata religione. / Hanno impoverito l’orizzonte, / l’hanno chiamata fede. / Hanno spento i sentimenti, / l’hanno chiamata ascesi. / Hanno svuotato il comandamento, / l’hanno chiamata morale. // … Hanno zittito le coscienze, / l’hanno chiamata ubbidienza. / Hanno mummificato i riti, / l’hanno chiamata divina liturgia. / Hanno ucciso i profeti, / l’hanno chiamata ortodossia…”

Sempre si pone a fianco degli ultimi, degli sfruttati, degli inascoltati, di chi non ha potere, nell’ abbraccio fraterno e pietoso agli “umili / cancellati / dalla terra”, “Brusìo / degli umili della terra / che dalla soglia / ancora non osano / lo sguardo al cielo”, sapendosi egli stesso un privilegiato rispetto ai senzatetto, di cui scansa i corpi sdraiati tra le coperte rientrando nella sua casa protetta e calda. L’aspirazione più vera che anima la poesia di don Angelo Casati è quello di farsi cantore delle piccole cose, dei lampioni spenti e delle panchine vuote, degli oggetti senza valore, come il ciottolo grigionero che serve per tenere aperta la porta della chiesa, di corvi gracchianti, di foglie e fiori: “Vorrei cantare / per poco di voce / la campanula bianca…// vado odorando / e fremo e ascolto”.

Il mistero è ovunque (“Ora so che mistero / non è assenza di luce”), e va celebrato sia nel candore della neve sia nel fango delle pozzanghere, perché l’essere umano deve imparare a “crepitare di mistero”, accogliendone con gratitudine il messaggio segreto: “Tu indugia / e adora ogni cammino. / Sosta ad ogni torrente / e tocca il nuovo / dell’acqua. E canta / il Dio delle infinite sorgenti”, “A noi tocca in sorte / andare / con passo lento e leggero / in un abbraccio / di nebbie avvolgenti / e trattenere sospeso / il respiro”.

Anche la sua Milano caotica, “quadrilatero della moda”, fatta di “asfalto e silenzi”, di semafori annoiati, di “brulicare di voci / in una pizzeria”, si presta a descrizioni piene di affetto, perché in tutto si può scorgere l’impronta benedicente dell’Eterno: “Palpita quasi irreale / tra casa e casa / stretto nella via / il silenzio d’agosto. / Solo un tram / strattona lontano / quasi urlasse disagio / per contenimento in rotaie, / imbrigliato per destino / nei percorsi di sempre”.

Addirittura nella sua vecchiaia, con l’inevitabile accumulo di infermità, don Angelo scorge un segno della presenza divina: “Perdo pezzi di voce e di occhi, / di memoria e di cuore. / Dietro / alle spalle tu ti chini / e raccogli”, “A me è dato / per grazia / carico d’anni / incantarmi”. Ecco, l’incanto! Forse è questa la misura che tutta comprende lo spirito religioso dell’uomo e del sacerdote, animando il suo “desiderio di sconfinare” per evadere dall’angustia dell’io, “in anelito di nascondimento / quasi in fuga / da vuota esibizione”.

Nella grandiosità della natura, nello splendore che si offre con gratuità allo sguardo, si può trovare finalmente una rispondenza al proprio desiderio di infinito. Sono le montagne, con le loro cime rocciose o nevose, con i boschi che fingono impenetrabilità ma poi si aprono in radure confortanti; sono gli uccelli con i canti e le impennate in voli improvvisi; il vento che spira dove vuole, come scrive il Vangelo di Giovanni; l’acqua, la sorella acqua cantata da San Francesco, fresca, pura, dissetante; il silenzio, in cui ci si immerge per ritrovarsi nel profondo. La ricchezza delle citazioni ne dà ampia dimostrazione: “Inseguo sospeso nella sera / le piste / leggere del vento”, “arabeschi sonori / di uccelli / nell’ombra dei boschi, / che adoro”, “Cede il passo la fontana / a una striscia di luna / briciola di silenzio, occhi di pudore, / a veglia dal cielo”, “Lo scintillio dell’acqua / che nell’angolo in ombra / si butta e ributta, fremendo, / mai uguale, ma nuova / per ogni assetato”, “Là dove muore l’orizzonte / e sfuma il cumulo grigio / delle brume autunnali / sgusciano e galleggiano / come rapite da estasi di cielo / catene di cime innevate”, “Sul sentiero / ancora mi abbevera / profumo / nero dei boschi”, “In un cielo di ghiaccio / vive l’attesa / del grande silenzio”, “Minuscole nubi / striate d’argento / si accucciano tenere / alle cime dei monti, / si staccano lente / quasi senza partire / col passo sospeso / di chi ora rallenta. / A salutare”.

Bisogna “non avere occhi spenti” per riuscire a penetrare la bellezza. Bisogna tacere per saper ascoltare quello che il silenzio ha da dire. E camminare leggeri, sospesi, senza premere passi pesanti, senza offendere con gesti e parole che feriscano quello che ci circonda, di umano e non umano. “Sospeso” è l’aggettivo a cui don Angelo Casati ricorre più spesso nelle sue poesie: il suo cuore è sospeso, come il respiro, come la parola, in una esitazione discreta che lascia spazio all’espressione dell’altro da sé, e alla voce gentile della poesia.

 

© Riproduzione riservata    «La Poesia e lo Spirito», 27 gennaio 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CASELLI

ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020, pp. 338

La nuova edizione del volume Storia del Blues di Roberto Caselli, pubblicato con successo di vendite nel 2016, risulta arricchita di un’originale sezione dedicata alla produzione e diffusione italiana di questo genere musicale. Caselli è nome noto e stimato nel mondo della radiofonia e della letteratura specialistica: giornalista e critico, autore di numerose pubblicazioni (sul rock, sul jazz, sulla canzone italiana e su singoli interpreti, da Leonard Cohen a Jim Morrison, da Joan Baez a Paolo Conte), ha diretto diverse riviste ed è voce storica di Radio Popolare.

Il corposo volume illustrato edito da Hoepli consta di nove sezioni, suddivise in capitoli riassuntivi corredati non solo di vari box riportanti aneddoti, curiosità, citazioni, ritratti, commenti ai testi, suggerimenti discografici, bibliografici e cinematografici, ma anche di un’accurata datazione degli eventi fondamentali di ogni periodo storico preso in considerazione.

La scansione cronologica suggerita da Caselli offre la possibilità di seguire al meglio il percorso esistenziale di una musica che, nata dalla sofferenza e da secoli di repressione e schiavitù, è diventata veicolo di emozioni universali, in un viaggio entusiasmante che ha toccato luoghi, stili, interpreti diversi: “Il blues non è solo tristezza, è anche contrapposizione, piacere della trasgressione e dell’ironia con cui il nero si fa beffa dell’uomo bianco giocando sul suo stesso terreno”.

L’etimologia del nome sembra derivare, nella sua accezione più semplice, dal verbo “to be blue” (essere triste), ma potrebbe essersi in seguito arricchito di una sfumatura superstiziosa per la diffusa credenza negli spiriti maligni, quei blue devils che provocavano malattie, persecuzioni, morte. La musica del diavolo, come veniva comunemente definita, era considerata empia e dissacratoria perché non devotamente sottomessa ai dettami della Bibbia.

Il volume parte quindi da Mama Africa, capitolo che indaga le radici etniche da cui il blues ha tratto linfa originaria, per arrivare alla deportazione degli schiavi in America nel 1600 e al loro impiego come raccoglitori di cotone nelle piantagioni del Sud. Nato come canto di lavoro per accompagnare i movimenti cadenzati nei campi, questo genere musicale fu la prima forma culturale condivisa degli afroamericani; era caratterizzato da una struttura antifonale di dodici battute, e utilizzava inizialmente soprattutto la voce umana, in seguito strumenti a corda (chitarre, banjo) e armoniche a bocca, quindi ottoni e pianoforte.

Sia nei canti di lavoro, sia in quelli di protesta e nei gospel religiosi, si rincorrevano gli stessi temi indicanti paura, stanchezza fisica, preghiera, affetti familiari, nostalgia, ribellione.   Con l’elezione di Lincoln, la fine della guerra di secessione (1865) e l’abolizione della schiavitù non ebbero tuttavia termine le persecuzioni razziali né lo sfruttamento dei neri nei lavori più pesanti, e il blues continuò a costituire una valvola di sfogo, imponendosi con orgogliose rivendicazioni di autonomia creativa. Negli anni ’20 fu caratterizzato dalla prepotente presenza di grandi interpreti femminili (Mamie Smith, Ma Rainey, Ida Cox e Bessie Smith), affermandosi lentamente come fenomeno di spettacolo e business redditizio. Film, musical, stazioni radio diffusero nuovi stili (classic, country, ballata), capaci di proporre temi sociali, spunti di cronaca, fantasie erotiche o puro divertissement, ricco di doppi sensi e battute scurrili. Le grandi migrazioni verso il nord lungo la Highway 61 che collegava New Orleans al Canada favorirono il diffondersi del blues verso Memphis, Chicago, Detroit, e improvvisamente queste metropoli divennero casse di risonanza di eccezionali artisti, come Robert Johnson, John Hurt, Fred McDowell. Texas, Lousiana, Kansas, California diedero impulso a suoni più vigorosi, attraverso contaminazioni con il jazz e lo swing, e con l’elettrificazione della chitarra: presto al blues si aprirono le porte dell’ufficialità, con esibizioni nei night club più esclusivi e in teatri prestigiosi.

Musica nera per eccellenza (B.B. King scriveva “Ho sempre sostenuto che suonare il blues è come essere neri due volte”), nella seconda metà del ’900 trovò epigoni bianchi tra gli interpreti del free jazz, del rock e del bebop. Eric Clapton, i Rolling Stones, Janis Joplin e lo stesso Bob Dylan hanno sempre dichiarato il loro debito nei confronti del blues, inglobando in esso elementi tradizionali e rinnovandoli con nuovi ritmi e strumentazioni.

Gli ultimi capitoli del libro di Roberto Caselli sono dedicati agli impulsi arrivati di rimbalzo negli States dall’Europa, al declino dell’interesse del pubblico occidentale negli anni ’90 e quindi a una recente rivitalizzazione capace di riproporre lo spirito originale della “musica del diavolo”, con tecniche strumentali spesso esasperate. Sdoganato anche da noi, molte sono le band e i solisti che si affermano oggi con un loro seguito di pubblico, appoggiati dal fiorire di festival e pubblicazioni specialistiche che ne sottolineano il meritevole valore. Tra gli interpreti italiani più rimarchevoli vengono citati Fabio Treves, Roberto Ciotti, Maurizio Angeletti, Guido Toffoletti, Rudy Rotta, Maurizio Pugno, Laura Fedele. Max De Bernardi & Veronica Sbergia. Amy Winehouse, con acuta sensibilità, ebbe a dire di questa musica dell’anima: “Ogni situazione di difficoltà è una canzone blues che attende di essere scritta”.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 14 gennaio 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020

 

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CASELLI

DAVIDE CASELLI, ESPERTI. COME STUDIARLI E PERCHÉ – IL MULINO, BOLOGNA 2020

Eccoli lì, gli esperti: ce li ritroviamo davanti a tutte le ore del giorno in ogni canale televisivo, ascoltiamo i loro sagaci interventi attraverso qualsiasi stazione radio, leggiamo le loro allarmanti previsioni su quotidiani e riviste più o meno specializzate. Sono antropologi, astrologi, climatologi, criminologi, dietologi, grafologi, massmediologi, narratologi, paesologi, psicologi, parapsicologi, politologi, semiologi, ufologi (in rigoroso ordine alfabetico). Oggi soprattutto imperversano con implacabile presenzialismo batteriologi, infettivologi, virologi. Qualcuno di loro, spesso lautamente remunerato, ha candidamente ammesso il proprio narcisismo, altri – presi da delirante senso di onnipotenza – si improvvisano soloni ferrati in ogni scibile umano: tuttologi. Astrofisici che discettano di oncologia, medici che offrono il loro illuminato parere sul fenomeno mafioso, giuristi che dissertano di teologia. Perché ne abbiamo tanto bisogno? Perché li ascoltiamo con umile reverenza, seguendo docilmente i loro consigli, suggerimenti, imperiosi diktat, demandando alla loro decantata professionalità e scientificità i nostri comportamenti, addirittura le nostre idee?

Davide Caselli (Milano, 1981) ha pubblicato per Il Mulino un dotto e documentato volume (Esperti, Come studiarli e perché) in cui analizza la complessa relazione esistente tra chi riveste l’ambito ruolo di esperto e il mondo politico-sociale-amministrativo-finanziario-culturale in cui è inserito.

Partendo dalla propria decennale esperienza di operatore sociale in un quartiere periferico di Milano, con l’incarico di segnalare e assistere situazioni di disagio e povertà nelle classi popolari, Caselli ha condotto la sua ricerca di dottorato in sociologia su vari progetti di coesione sociale e sui piani di sviluppo del welfare nel territorio lombardo, misurando il gap esistente tra il lavoro svolto empiricamente sul campo e i saperi ufficialmente riconosciuti in ambito pubblico, affidati a consulenti e ricercatori specializzati, i cosiddetti “esperti”. Le analisi tecniche, la definizione e la valutazione di strumenti operativi, i progetti e gli studi di fattibilità venivano e vengono tuttora scritti, monitorati e valutati dagli stessi enti e consulenti che definiscono le linee guida, il gergo settoriale e i bandi di concorso dei principali finanziatori, pubblici e privati, escludendo di fatto da sovvenzioni, convegni, ricerche universitarie i cittadini attivi nel terzo settore su base volontaria.

In questo scenario di crescente professionalizzazione, a chi spetta il compito dell’analisi critica del rapporto tra conoscenza e azione, tra sapere e potere “alla luce della progressiva affermazione globale del modello di accumulazione neoliberista a trazione finanziaria”? Sono interrogativi su cui da perlomeno due secoli si interroga la scienza sociale, a partire dai suoi fondatori (Comte, Marx, Durkheim, Weber) per arrivare ai loro epigoni contemporanei (Hacking, Bauman, Foucault, Eyal, Bourdieu, fino ai più emotivamente carismatici Danilo Dolci e Paulo Freire).

Gli esperti, legittimati nella loro operatività da criteri extra-scientifici ed extra-intellettuali, in cui sembra prevalere il know how sul know why, sono perlopiù rappresentati da categorie professionali o singoli individui scelti in base a una competenza pratica e a un agire sociale spesso non canonicamente definito o istituzionalizzato, ma connesso con una rete di clienti, strumenti, assetti sociali in grado di riconoscerli come produttori di saperi specifici e articolati. Essi si muovono tra una dimensione cognitiva e una normativa, tra conoscenza della società e capacità di orientarne l’agire, tra descrizione della realtà e prescrizione “di ciò che la realtà deve continuare a essere o deve diventare, e del modo in cui ciascuno deve contribuire   a riprodurla o a modificarla”. Per nulla imparziali e oggettivi, quindi, gli esperti tendono a incoraggiare “forme di produzione, diffusione e applicazione del sapere segnate dalla chiusura elitaria e dal monopolio professionale”, riproducendo rapporti di potere sotto l’apparente neutralità della competenza professionale.

Il libro di Davide Caselli, corredato da una ricchissima bibliografia, si articola in cinque capitoli introdotti da brani di diario, interviste, spunti di cronaca relativi ai nuclei tematici individuati, riguardanti non solo il welfare milanese, ma il più vasto panorama nazionale dell’economia, del lavoro, del mercato, dell’istruzione, della medicina, della cultura. Sulla base di tali considerazioni, l’autore auspica l’avvio di forme alternative e democratiche di elaborazione e trasmissione della conoscenza, onde evitare il pericolo che i “non esperti” vengano espropriati delle loro abilità, interessi, culture diverse, attraverso la squalificazione esercitata dagli “esperti”, al punto da venire delegittimati all’impegno, privati del diritto alla visibilità e confinati in ruoli d’azione marginali.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 22 agosto 2021

 

 

 

 

 

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CASELLI

ROBERTO CASELLI, LEONARD COHEN – HOEPLI, MILANO 2021

Fedele a un’antica e radicata passione, Roberto Caselli (giornalista, critico musicale, voce storica di Radio Popolare) ha pubblicato un nuovo, documentato, esauriente volume sul cantautore e poeta canadese Leonard Cohen (1934-2016). Già nel 2014 Caselli aveva dedicato un libro di successo al commento dei suoi testi (Leonard Cohen, Hallelujiah), convinto che meritassero di venire analizzati nei loro molteplici significati – culturali, simbolici, psicanalitici. L’intera produzione del celebre songwriter veniva vagliata nelle sue fonti e negli esiti letterari e musicali.

In questo nuovo lavoro (Leonard Cohen. Quasi come un blues), Caselli ne approfondisce in maniera particolareggiata non solo l’attività artistica, ma tutta la vicenda biografica, dalla nascita avvenuta nell’esclusivo quartiere di Westmount a Montreal, in un’agiata famiglia ebrea di origine russa, all’inquieta adolescenza, trascorsa tra le prime seduzioni della musica e della poesia, del sesso e della spiritualità. Quindi i contatti con il mondo accademico progressista canadese, l’esodo londinese e il battesimo letterario, il fascino esercitato dalla figura carismatica di Bob Dylan, la trasgressione del periodo newyorkese, vissuta accanto a personaggi di grande rilievo intellettuale degli anni ’60.

Caselli si sofferma in particolare sulle vicissitudini sentimentali di Leonard Cohen, dalla prima coinvolgente convivenza con la norvegese Marianne Ihlen nell’isola greca di Idra, ad altre numerose e intense relazioni: con Jony Mitchell, con Suzanne Elrod, madre dei suoi figli, incontrata nella chiesa di Scientology, e poi ancora con Dominique Issermann, Rebecca De Mornay e Anjani Thomas: grandi passioni vissute tra reciproci tormenti e gelosie, raccontate con malinconia e struggimento in canzoni che hanno fatto sognare milioni di fans. Tutte queste donne bellissime, intelligenti e innamorate, non sono riuscite tuttavia a distogliere il genio canadese dalla sua vocazione per la scrittura, espressa sia in testi narrativi e poetici, sia in musica. “Più volte i suoi biografi si sono soffermati sul concetto di lavoro come elemento essenziale e prioritario della sua vita, come requisito assoluto entro cui incanalare ogni forma di circostanza, sia essa amorosa, sociale o politica… Cohen è convinto che quando l’amore diventa totalizzante paralizzi, irretisca e impedisca alla creatività di manifestarsi in tutta la sua forza dirompente, creando frustrazione e disarmonia”. Il sesso, invece, rimase sempre per lui esperienza di crescita personale e apertura mentale, insieme all’uso di droghe e allo studio di discipline quali il misticismo orientale, le sacre scritture, la psicanalisi freudiana. Qualsiasi arricchimento di conoscenza veniva trasmesso e rielaborato nei romanzi, nelle poesie, nelle canzoni.

Tra i suoi pezzi migliori, il più famoso e coverizzato rimane l’ispirato gospel Hallelujah, troppo spesso frainteso in senso esclusivamente religioso, quando invece l’intenzione che ha guidato Cohen in ogni ambito espressivo è stata quella di celebrare l’esistenza umana in tutti i suoi aspetti, materiali e spirituali, alla ricerca di un significato che illuminasse il proprio percorso esistenziale.

In questo senso, l’incontro con Joshu Sasakiroshi e la pratica Zen, che nel 1993 lo condussero a un ritiro monacale di sei anni a Mount Baldy, con l’assunzione di una nuova identità e di un nuovo nome (Jikan, “il silenzioso”), lo aiutarono a superare prove drammatiche, come la truffa subita da parte della sua manager Kelley Linch, e ad approdare a una più composta saggezza, con l’accettazione matura del bene e del male riservatigli dalla quotidianità. Agli ultimi quattro album, pubblicati dopo aver ripreso più che settantenne a esibirsi in tournee internazionali per ristabilire le sue finanze disastrate, Cohen affidò il proprio testamento spirituale, ancora una volta pervaso di erotismo e ansia metafisica, ma nutrito anche di interessi per i problemi sociali, la corruzione politica e i disastri ecologici, riscoprendo nell’abbandono fiducioso al disegno divino una nuova e corroborante vitalità.

Il volume firmato da Roberto Caselli consta di dieci capitoli tematici illustrati da un’ampia rassegna fotografica, attestante luoghi, amicizie, amori, concerti e il successo planetario del protagonista. È corredato di utili quadri sintetici che scandiscono la cronologia degli avvenimenti biografici principali, e raccoglie testimonianze, citazioni, commenti ai testi, discografia e bibliografia: una chicca da non perdere per gli estimatori dello straordinario songwriter di Montreal.

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Leonard-Cohen-Caselli    16 novembre 2021

 

 

 

 

 

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CASELLI

ROBERTO CASELLI, LA STORIA DELLA BLACK MUSIC – HOEPLI, MILANO 2024

 

L’ultima autorevole e documentata pubblicazione di Roberto Caselli riguarda La storia della black music, edita da Hoepli come tutti i precedenti volumi dell’autore.

Caselli, giornalista, critico musicale e voce storica di Radio Popolare, ha al suo attivo lunghe collaborazioni con quotidiani, giornali specializzati, enciclopedie e siti web. È stato direttore della rivista Hi Folks! e del mensile musicale Jam. Tra i suoi numerosi libri che spaziano tra rock, blues e musica d’autore vanno citati il saggio Hallelujah sui testi di Leonard Cohen, La storia del bluesJim MorrisonStoria della canzone italianaLa storia del rock in Italia.

In questo lavoro (che ha richiesto due anni di studio e indagini storiografiche, insieme a traduzioni e commenti dei testi), viene analizzata l’evoluzione della musica afroamericana a partire dalle sue origini, cioè dalla deportazione dei neri dall’Africa in America, per arrivare alle ultime espressioni artistiche del rap e del trap. Una potente esplosione di creatività e versatilità, che nel corso del ’900 i discografici bianchi hanno cercato di annacquare, trasformandone la potenza deflagrante in prodotti più gradevoli e commerciali, meno politicamente pericolosi.

Caselli apre il suo excursus esplorativo affrontando il tema del colonialismo, che ha determinato la diaspora africana e l’istituzione dello schiavismo da parte delle potenze europee. La sofferenza di milioni di neri, costretti ad abbandonare il proprio continente, si espresse musicalmente nello spiritual, dando voce all’angoscia, alla tristezza e alla rabbia successivamente incanalate in una ribellione sociale collettiva, che trovava rispondenza e consolazione nelle vicende bibliche, dal tormentato cammino percorso dal popolo ebraico per arrivare alla terra promessa, fino alle pagine evangeliche che promettono un riscatto e un premio celeste. Lo spiritual si nutriva non solo di accenti religiosi cristiani, ma manteneva tracce di culti animistici africani, e addirittura celava nei testi indicazioni di vie di fuga da seguire per raggiungere gli stati antischiavisti del nord e il Canada.

Allo stesso modo, altri generi musicali furono successivamente in grado di traghettare aspirazioni, proteste e lotte della popolazione nera, e Roberto Caselli mette in luce soprattutto questo aspetto sovversivo, rivoluzionario, ideologico, veicolato da testi e ritmi. Contemporaneamente, vengono riletti i momenti cruciali della storia americana in maniera critica e antiretorica, a partire dalle intenzioni non del tutto libertarie, democratiche e antirazziste della guerra civile, passando attraverso i drammatici linciaggi e la nascita del Ku Klux Klan, il proibizionismo, la grande depressione, il maccartismo, i movimenti per i diritti civili, le marce pacifiste. La protesta dei neri si radicalizzava, fino a trasformarsi in lotta aperta alle istituzioni, con Malcom X, il Black Power, le Black Panthers, Angela Davis.

Ci furono coraggiose figure di spicco nella letteratura, nel teatro e nell’arte che appoggiarono la lotta contro ogni discriminazione razziale (Langston Hughes, Lawrence Beitler, e poi grandi scrittori come Caldwell, Faulkner, O’Connor, Kerouac, Ginsberg): a tutti loro viene dedicata un’approfondita scheda informativa.

La narrazione di Caselli segue i momenti più rilevanti dello sviluppo della black music, offrendo un esaustivo repertorio dei vari stili susseguitisi in due secoli di storia, partendo appunto dai canti di lavoro, dagli spiritual e dai blues del Delta e di Chicago, per spingersi fino al jazz, allo swing, al bebop, al R&B e al soul, e arrivare infine alle ultime espressioni della discomusic, dell’hip hop e del trap. Vengono raccontate le vite e le esecuzioni eccezionali di artisti famosissimi e meno noti (Odetta, Bessie Smith, Robert Johnson, Muddy Waters, James Brown, Otis Redding, Billie Holiday, Charlie Parker, Nina Simone, Isaac Hayes, Tupac, Run DMC, Beyoncé, Dr. Dre, per fare solo alcuni nomi), attraverso il commento dei loro album, la descrizione di concerti, festival e raduni, i percorsi biografici, le dipendenze, le inimicizie e le persecuzioni, gli amori e i lutti.

La nascita del rock’n’roll negli anni ’50 prese avvio proprio dal misto di eccitazione e rozzezza che costituiva la sostanza grezza della black music, assumendo da subito un carattere oppositivo alla cultura ufficiale, che venne presto associato alla delinquenza. Il pubblico adulto bianco, spaventato dalla sua forza trasgressiva, diresse la discografia verso una commercializzazione blanda del fenomeno, che dopo i rocker della prima ora, propose interpreti più docili e sentimentali come Pat Boone, Gene Pitney, Neil Sedaka, Paul Anka. A questa edulcorazione si oppose la commistione del rock con il blues e il soul proposta da Otis Redding, Aretha Franklin, Wilson Pickett, James Brown.

Con il tramonto delle utopie rivoluzionarie subentrò un periodo di riflusso, in cui la disco music segnò un ritorno al privato, con una ricerca ossessiva del piacere e del divertimento, celebrato dai disk jockey che imponevano i gusti da seguire. Nei ghetti resisteva il funky, mentre dalla vicina Giamaica arrivava il reggae con l’esaltante figura di Bob Marley. A partire dagli anni ’80 dalle periferie newyorkesi più disastrate si fece largo un nuovo movimento culturale articolato non solo musicalmente, ma anche sul fronte della danza (break dance) e del          writing (graffiti).

A questi ultimi decenni della black music, Caselli dedica particolare attenzione, soffermandosi sugli sviluppi del fenomeno hip hop e del rap che ben presto uscirono dai confini del Bronx per conquistare il mondo intero, ed evolvendosi poi nel trap, subito sedotto dal richiamo del successo e della ricchezza economica. Solo con la nascita del movimento “Black Lives Matter” nuovi rapper tornarono ad attivare un rifiuto consapevole del consumismo capitalista: una presa di posizione coraggiosa che si affiancò alle lotte che i giovani neri ingaggiavano per far riconoscere i propri diritti sociali e politici in un’America che continua tuttora a marginalizzarli.

Le otto sezioni del libro di Roberto Caselli, suddivise in cinque capitoli arricchiti da schede informative e da un ricco repertorio iconografico, offrono la possibilità di accedere utilizzando i QR code a canzoni riferite a ogni argomento trattato, e a un ulteriore “extended book” di approfondimento bibliografico e letterario.

La storia della black music è un volume accattivante non solo per l’esposizione formale, chiara e concisa, ma anche per la vivacità tipografica e la ricchezza delle illustrazioni, dei manifesti colorati, dei titoli e degli slogan riportati nella loro enunciazione originale. La commossa prefazione del cantante e deejay americano Ronnie Jones, da molti anni residente in Italia, ribadisce l’importanza avuta dalla musica nera nella ricostruzione orgogliosa dell’identità del popolo afroamericano, sottolineando l’abisso di sofferenza e di ingiusti soprusi patiti per secoli.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 giugno 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CASSIAN

NINA CASSIAN, C’E’ MODO E MODO DI SPARIRE – ADELPHI, MILANO 2013

Della poetessa romena Nina Cassian (Galați 1924), Ottavio Fatica scrive, nell’ affettuosamente complice postfazione alla ricca antologia da poco pubblicata da Adelphi, che fu «poetessa lirica, ultralirica… l’ultima modernista… piena di rumori e discordie», animata da «furor uterinus» e «impudica grazia». E in effetti, l’impressione più vivida che si ricava dalla lettura di queste centosette poesie, è quella di una vitalità disarmante, giocosa e fiera, arguta e appassionata. Che sia questa poetessa novantenne (residente a New York dal 1985, quando ottenne l’asilo politico per evitare l’arresto a Bucarest) a dare una sferzata di corposo ottimismo alla nostra assonnata e sospirosa produzione letteraria in versi, non deve apparirci paradossale: vista l’intensità con cui Nina ha attraversato passioni sentimentali, culturali e politiche, nutrendosi di tradizioni ebraiche e comunismo critico, di diverse esperienze editoriali e artistiche, di polemiche, di amicizie viscerali e ostilità altrettanto esibite, di conoscenze linguistiche effettive e supposte. Troviamo così nella sua vastissima produzione nell’amata lingua materna («Pur se verrò sepolta / in una terra aliena: / risorgerò un giorno / nella lingua romena») le stigmate di un orgoglio indomito, di una provocazione sarcastica: «Avida sono. L’asceta mi rimprovera / di scorrere a perdifiato / l’indice delle materie della vita / e di bramare e aver voglia di tutto. // Eh, sì, che volete! Ho fame. Ho sete, / come il suono mi aggiro nel mondo dei vivi».

Anche la natura, che dipinge con la sua abilità di celebrata illustratrice, appare in lei selvaggia e lussureggiante, sempre animata: «La finestra restò tutta la notte aperta. / La foresta entrò e si posò sul muro». Gli animali descritti paiono tutt’altro che docili e addomesticati: sono tigri, pantere, piccoli squali, elefanti. E persino la poesia viene vissuta come preda da conquistare: «Oh, giocare alla Genesi, che spasso!», «E adesso / quale parola domare?», o come allegra visionarietà, fiaba stralunata, sulle tracce della commedia dell’assurdo di un altro grande romeno, suo contemporaneo: Ionesco. «I miei visitatori sono: / un signore interrotto nel mezzo, / una donna continua / e la loro figlia di latta, / un professore che insegna formaggio, / un assassino raffreddato, una colonna / di formiche nubili, / un albero coi baffi … // Alla fine compare / il cane della sera / abbaia forte / e li caccia tutti via».

Nina Cassian non nasconde di avere un’alta considerazione di sé, del suo valore e della sua forte personalità, a partire già dal fisico descritto in un beffardo autoritratto («Mi è toccato questo volto strano, triangolare»), con l’imponente profilo del naso che la accomuna ad altri due eccelsi esuli – Ovidio e Dante- ; ma soprattutto dalla orgogliosa consapevolezza del suo anticonformismo, del suo coraggioso opporsi a ogni minaccia o seduzione del potere (nei versi di Esorcismo elenca tutte le cose di cui non ha paura….). E poi afferma con vigore: «Posso stare da sola. / So stare da sola»,  «Io sono io. / Sono personale, / soggettiva, intima, singolare, / confessionale». Della sua infanzia ricorda non affettuosi quadretti d’interno, ma scapestrate corse in campagna. Rinfaccia agli amori la banalità e l’egoismo («Perdonami se ti ho fatto piangere. / Avrei dovuto farti fuori», «Da quando mi hai lasciato divento sempre più attraente»), sbeffeggiando la farisaica simbiosi della coppia, e arrivando a concludere sette Lettere all’amato con l’esplicita e crudele affermazione «non ti amo». Nemmeno di Dio ha bisogno, e infatti non lo nomina mai, se non in una lirica programmaticamente intitolata Farsa, in cui le sue «ossa atee» si piegano nella finzione della preghiera. Rifiuta il ricatto affettivo della sofferenza, in una terribile composizione dedicata agli storpi. Celebra invece gioiosamente, sfrontatamente, il peccato («I nostri peccati erano appesi / alla coda dell’occhio, come alghe»), e l’unico colore che le sembra meritare continue citazioni è il rosso («Rosso da rosso, rosso al rosso»), simbolo di bandiere al vento e di sangue versato. E riserva tutta la sua acida ironia alla noia del pomeriggio, che anestetizza l’universo, come una grassa donna di mezza età che uccide le sue vittime imponendo loro la sua indolente presenza.
L’attaccamento alla vita fisica di Nina Cassian si esprime nel corrispondente e fiducioso attaccamento alla parola, al linguaggio, che è romeno, e poi inglese, e poi romeno tradotto in inglese, o addirittura lingua d’invenzione – lo spargano – imitativo di altri idiomi; ma è soprattutto estrema volontà di espressione e comunicazione, anche nell’età più avanzata e vicina alla morte: «la mia mano artritica / eietta a volte una penna / per iniettare una poesia / come una puntura, un’endovena, / nelle braccia manchevoli di Venere». Meritano di essere ricordati i traduttori, Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica, che sono riusciti a rendere icasticamente viva nei lettori l’energia sprigionata da questi versi.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

CASTALDI

MAROSIA CASTALDI, FERMATA KM. 501 – TRANCHIDA, MILANO 1997

Forse chiunque scrive, lo fa per esorcizzare paure: paura di morire, in primo luogo, e paura di vivere. Tra vita e morte, tra le angosce prodotte dall’esistere e dal non esistere più, si situa questo romanzo di Marosia Castaldi, Fermata Km.501. L’autrice si confronta con una dimensione vastissima, atemporale e preconscia, in cui la parola diventa l’unico elemento concreto e stabilizzante, la scrittura è la sola possibilità di ancoraggio a un qui e a un’ora definiti.
Chi scrive è demiurgo della propria materia, ma insieme si mimetizza e confonde nel magma del proprio racconto, e in esso si riconosce e da esso pretende la propria identità:«Io vengo dopo perché racconto. Questo lo so per certo. Io sono il testimone. Ho scritto da me la mia storia…Li ho seguiti nel viaggio come una ladra, come uno che ruba cibo che non gli appartiene».  E’ attraverso la testimonianza che la scrittrice diventa ciò che è, si definisce anche come persona portatrice di una storia propria: l’auto-identificazione nasce proprio dalla scrittura, la realtà deriva la sua essenza dal fatto di venire interpretata e descritta:

«E la pagina è come l’abisso in cui allora mi trovavo, un’incognita che avrebbe preso forma solo in conseguenza del mio scriverla, un futuro senza futuro su cui ad ogni istante affacciavo il passo incerto. Puri pretesti, allora, paiono le esistenze dei personaggi; le loro parole, i gesti, il nascere e il morire: Giulia, Laura, Ermanno. Ettore, Canio, Marta confondono i propri destini e ruoli, sovrappongono i loro confini».

Solo elemento unificante della famiglia a cui appartiene l’autrice è pertanto il cognome, “Arlo”, che personalizza, riconoscendoli, incastrandoli in un casellario definito, i vari membri. «Signora Arlo? Ero dunque io la signora Arlo? E cos’era quel nome che mi si era appiccicato? Avrei dunque dovuto portarmelo dietro, oltre la vita, per tutta l’eternità?». Gli Arlo tutti biondi e «bellalti», poco rappresentativi della meridionalità di cui fanno parte: ma ogni riferimento fisico, ambientale, anche geografico sfilaccia i suoi contorni in una irrealtà nebbiosa, si confonde nell’immaginazione e nel ricordo. E le frasi dell’uno vengono ripetute e fatte proprie dall’altro, addirittura il dato più personale che appartiene a un’esistenza, il momento della morte, viene attribuito a personaggi diversi. L’agonia della madre diventa quella della figlia, le parole pronunciate dal figlio primogenito amatissimo, Ermanno, nel momento in cui è colpito dall’embolia cerebrale che lo ucciderà, sono riciclate in bocca ai fratelli, ai genitori: «impazzisco», diceva Ermanno prima di cadere, e questa constatazione che è anche una supplica, diventa la parola chiave del romanzo, il leit motiv continuamente riaffiorante. La città che accoglie la storia degli Arlo è Napoli, ma potrebbe essere Barcellona come Marsiglia. Elementi caratterizzanti sono il mare, la metropolitana, il caldo, una pasticceria, la montagna. Soprattutto la montagna, sacra, incombente, fatta di roccia e di sangue, di lava e di miti ancestrali: ha una valenza simbolica, è un Olimpo abitato da divinità casalinghe e brulicante di turisti insensibili. Tutta la famiglia va alla montagna, come in un rito propiziatorio e magico, e si identifica in essa: è un’ascesi purificatoria, un’ascesa iniziatica e liberatoria, alla ricerca del compimento del proprio destino: «Ognuno è salito quando ha potuto. I tempi non sempre coincidono, perché nessuno di noi ha più saputo esattamente quando cominciava e quando finiva il tempo. Così ci siamo andati dietro, in circolo, senza sapere più chi è madre e chi è figlio, chi viene prima e chi viene dopo».

Proprio la circolarità, del tempo e dell’azione, è il carattere più peculiare del romanzo: storie che si rincorrono, incubi che entrano uno nell’altro e si animano e si decompongono (il vomito, l’ago nella vena, la finestra da cui buttarsi, flussi mestruali inarrestabili, bocche che masticano), riaffiorando di quando in quando nelle pagine. Altro elemento di rilievo è l’angoscia, la non serenità, il prevalere di colori cupi, foschi. Non c’è sollievo o limpidezza, non c’è sospensione del dolore, mai. I rapporti tra i familiari sono segnati dall’incomprensione, dalla non fiducia, dalla gelosia: la madre tradita minaccia perpetuamente il suicidio, il padre inquieto rifugge da qualsiasi coinvolgimento affettivo, i fratelli ondeggiano tra simbiosi e rifiuto violento. Ma nessuno viene descritto in un particolare fisico, in un gesto abituale, in qualcosa che lo definisca in positivo. La negatività dei rapporti diventa ostilità, fastidio evidente per qualsiasi dato corporale, concreto: tutto rimane fluttuante e indistinto, nell’inconsistenza ansiosa del sogno che mai si svela, mai sfora in un risveglio lucido e rassicurante.
Fermata Km. 501 è un romanzo complesso, nato da una ferita e alimentato da essa, teso in una scrittura non rappacificata, in perpetua ricerca della causa di tanto dolore. Una ricerca che l’autrice sa vana, ma a cui non riesce a sottrarsi: «E immagino un paese pieno di viaggi in cui dal centro alla circonferenza i padri e i figli e i vivi e i morti non cessano di andare di parlare e di rincorrersi e mi sembra normalissimo questo viaggio senza fine e mi domando in quale luogo ci fermeremo della pace perché non c’è senso a fuggire dal paradiso?».

 

«L’Immaginazione» n. 148, luglio 1998

RECENSIONI

CASTELLANETA

CARLO CASTELLANETA, PROGETTI D’ALLEGRIA – MONDADORI, MILANO 1978

Perché un romanzo arriva a essere venduto, perché è in testa alle Hit Parade delle librerie, cos’è che fa scattare il meccanismo del successo: quale ricetta occorre per vendere? L’autore in questione è Carlo Castellaneta, direttore di Storia Illustrata e romanziere amoroso. Il suo ultimo romanzo è Progetti d’allegria, ovvero Quando una donna cerca se stessa. La storia è questa: una trentacinquenne dell’alta borghesia milanese (ma la condizione attuale è riscattata e giustificata da un’origine umilissima e dal passato umiliante di puttanella) si separa dal marito, naturalmente bonario e maturo, ma terribilmente noioso, e mette su un negozio di antiquariato all’angolo tra Corso Venezia e Via Spiga. Ha a che fare con vari uomini, di cui uno, il Gianmario succitato, si uccide coi sonniferi; un altro – Silvio Maderna (e i nomi li riporto perché costituiscono uno spaccato di società) – la truffa in affari; un altro ancora è un grosso finanziere col pelo sullo stomaco che fa di lei un manager dell’industria. Poi c’è l’uomo ideale, che si chiama “David”, fotografo impegnato: un puro, un ingenuo che fa l’amore con delicatezza, e convive con una ragazza madre che fortunatamente muore di cancro e così la protagonista può unirsi felicemente a lui. Almeno tutti ci si aspetterebbe questa conclusione, invece no, perché lei sceglie la solitudine e fa l’eroina. Poi c’è anche il fratello della giovane donna, che deve essere un brigatista rosso, o qualcosa del genere, uno della sinistra rivoluzionaria di quelli che non si sa cosa vogliono, che si mette nei guai con la polizia per un sequestro mal riuscito. E con quest’altro ingrediente anche il rimando all’attualità e all’impegno sociale è salvo. La morale del libro non è poi tanto chiara: un messaggio di ottimismo, se si dà ascolto al risvolto di copertina, che predica che siamo noi a costruirci il nostro destino. La morale potrebbe essere che quando una donna cerca se stessa fallisce, perché la protagonista fallisce, non c’è dubbio. O la morale è semplicemente amorale: il libro è un prodotto confezionato per rispondere a certe “basse” esigenze del mercato, un libro fiutato nell’aria, scritto male, con personaggi senza spessore e senza motivo, un libro che costa seimila lire.

«Quotidiano dei Lavoratori», 27 maggio 1978

RECENSIONI

CASTRONUOVO

PAOLO CASTRONUOVO, BUGIARDINO – CONVIVIO, CATANIA 2023

Un libro “come un referto improrogabile e necessario”, scrive Alfonso Guida nella prefazione a Bugiardino, piccolo volume di poesie di Paolo Castronuovo, parlando di una ferita non rimarginabile e di una cura posta al limite tra speranza e scacco. Il foglietto di indicazioni che accompagna ogni scatola di medicinali diventa nel titolo metafora della possibilità di salvezza da una malattia che attanaglia soprattutto l’anima, e come tale si scandisce in sezioni esplicative del contenuto, delle modalità di assunzione, degli effetti indesiderati e del metodo di conservazione.

La fatica di vivere viene avvertita già dal mattino: “una giornata inizia col peso / smisurato della luce / un fardello roboante di ferraglia”, e il prosieguo del giorno si svolge come in “un centro riabilitativo / senza infermieri”, dove “i libri sono sbarre di un carcere”.

Se “non c’è una via di fuga dal male”, spetta all’immaginazione più visionaria aprire mente e cuore all’evasione benefica; nei versi di Castronuovo le immagini si susseguono esplodendo nella loro ricchezza di colori, suoni, personaggi, come in un caleidoscopio di sogni bizzarri e vivaci: ballerine e rapinatori, sassofoni e lamiere accartocciate, elefanti e droni, pullman e compressori, urla e silenzio, deflagrazioni di bianco-giallo-nero. Scatti di luce e buio mimano la danza allucinata di percezioni visive e uditive scollegate tra loro, secondo la lezione mai superata del surrealismo, rivisitata dall’eredità della beat generation, con sprazzi di brutalità filmica alla Cronenberg: “una continuità fluente / senza logica ma con un filo tesissimo / un ritmo surreale, automatico, sostenuto, / la corsa del corpo e la pacatezza della mente / sedata dopata impazzita”. A tale ritmo sincopato si alternano momenti di quiete e riflessione malinconica: “L’urna della vita / è solo piena / di cenere // non vale la pena / piangere”.

 

© Riproduzione riservata                IBS, 17 aprile 2024

 

RECENSIONI

CASTRONUOVO

PAOLO CASTRONUOVO, OPERA – IL CONVIVIO, TIVOLI 2025, p. 222

Non ancora quarantenne, il poeta-narratore-editore pugliese Paolo Castronuovo pubblica con le edizioni de Il Convivio “Opera. 2004-2024”, che nella premessa definisce “prematura opera omnia in versi”, progettata e pervicacemente voluta per rispondere alla “necessità biologica” di chiudere un cerchio. Mettere un punto fermo, quindi, in una produzione che si è coerentemente sviluppata lungo i binari della ricerca letteraria e dello scavo psicologico interiore, arricchendosi via via di nuove tattiche formali e di finalità ideologicamente strutturate. Un suo verso recita infatti “nutrirsi di dettagli / amplifica la profondità”, e senz’altro la varietà di immagini e atmosfere attraversate dalla parola poetica ha contribuito a potenziare lo spessore espressivo della sua scrittura.

Cinque sono le sillogi qui riunite, che comprendono la produzione di un decennio, dal 2013 a oggi: Labiali, L’insonnia dei corpi, La croce versa, Bugiardino e l’inedita La giostra d’inverno, segnate da una crescita di consapevolezza che, muovendosi dall’acerbità risentita dei primi anni, affonda in una penetrazione assillante nella materia, per placarsi infine in tonalità più arrendevolmente mature.

Labiali è segnata da un autobiografismo grintoso, capace di esibire rabbie e sofferenze, imputandole sia al proprio ego sia a un tu femminile ombroso e sfuggente. Qui “il dolore è / una posizione scomoda”, ma va esibito con fierezza sdegnosa (“io sono per la distruzione, per lo sfacelo delle cose”), anche nell’intento programmatico della creazione letteraria: “Il mio verso è cambiato / abbandona l’avanguardia / e accoglie il surrealismo”. E retaggio surrealista è evidente nell’intenzione sovversiva del lessico, con l’ostentazione di un vocabolario violento in cui si rincorrono ossessioni, esplosioni, deliri, crepe, fuochi, slavine, strumenti da taglio. Anche il corpo della donna appare scomposto e respingente, nella presentazione di seni come bussole smagnetizzate, rossetto sbavato, ombelico calamaio, capelli aste, ventre piatto, pori irti, odori lasciati su una sdraio.

Continua in L’insonnia dei corpi la rappresentazione negativa di una fisicità corrotta, in cui però è la malattia reale, soprattutto psichica, ad assumere contorni disturbanti, penosi. Il tormento dell’insonnia “che plana nella gola e provoca apnea / in un corpo fiacco / di letture, pornografia e televisione” riduce l’uomo a ombra, a zombie intento a soddisfare bisogni fisiologici primari, mentre il sangue rallenta il ritmo, le unghie incarniscono, gli occhi si socchiudono. Vittima di incubi e paure, il poeta è consapevole della propria atonia, e incapace di uscirne implora: “Mi servirebbe una seduta di fisioterapia dell’anima”, “cambiami il corpo con le mani / non ha più iniziativa / ha solo fame di altri corpi”, “Devo occuparmi del mio male / addomesticarlo nella gabbia del mio corpo”.

Se anche l’esterno si confina in un grigiore di pioggia, l’incubo dilaga in allucinazioni metamorfiche: “io ero arrotolato in una bottiglia alla deriva / una capodoglio incastrato nel buco dell’ozono”. Eppure, in questo sfascio di sensazioni mortifere la poesia può trovare un ritmo pacato ed elegante, e pur narrando la disperazione si aggrappa a gesti vitali di resistenza: “confido le mie giornate al cuscino / mentre il manto buio mi sferza colpi caldi”.

La terza sezione è la più corposa, costruita assemblando numerose sillogi e aperta a un confronto costruttivo con l’alterità, anche nella polemica indignata nei riguardi di un mondo sempre più contaminato. Gli strali di Castronuovo colpiscono la politica verbosa e inconcludente, le imposizioni di un falso cristianesimo, lo sfruttamento dei migranti, il razzismo, l’inquinamento, rasserenandosi solo nell’osservazione di cielo e mare, e nel desiderio di recuperare un rapporto paritario con la donna desiderata, in un abbandono reciproco al piacere sessuale. La croce versa rivela ancora un patimento psicologico (“il gran ritorno degli attacchi / di panico che rimontano come una carovana d’elefanti”), ma rimane comunque il capitolo più distesamente rischiarato del libro.

Prima di passare al commento di Bugiardino (2020-2023), che l’autore definisce “la miglior cosa scritta in vent’anni”, è opportuno segnalare la delicatezza dei versi inediti conclusivi de La giostra d’inverno, dedicati all’osservazione di un campo nomade (richiamato dalla bella foto di copertina), che nello squallore di strade fangose, roulotte scassate, donne e bambini infreddoliti, uomini intenti all’allestimento di un circo, riportano alla luce sensazioni infantili rimosse perché avvilenti.

Il bugiardino che accompagna ogni confezione di medicinali offrendo indicazioni sull’uso, è metafora dei segnali forniti al lettore per introdurlo alla non facile decifrazione della parola poetica. Ma “i libri sono sbarre di un carcere / che non apre a nessun universo”, e “la presunzione di capire l’astratto / di spiegarne il senso se non di darne definizione / certa / è un piedistallo fallimentare / spruzzato di elogi da copertina”. Sembra la capitolazione di ogni impegno intellettuale, e della funzione stessa del poeta. Tuttavia è necessario “lasciare che la purezza / si faccia fiume tra le sillabe / che converta lo sporco delle virgole”, e Castronuovo infine non abdica al suo ruolo, deciso a “riabilitarsi alla scrittura” producendo versi nuovi, estranei a tradizioni collaudate in cui “la rima / baciata è uno stupro”, e invece vada abolita l’illusione del messaggio: “Sto eliminando il tu dal verbo / per dare spazio a nuove immagini / ma nulla resterà che rifugiarsi nella propria voce”.

Se ciò che resta è un soliloquio privo di interlocutori, che almeno la visione sia danza, vibrazione di luci e suoni, percezione di una lacerazione traumatica da cui possa erompere una rinnovata energia, capace di guarire le ferite della mente e di un linguaggio convenzionale e abusato.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 20 febbraio 2025

 

 

 

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