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RECENSIONI

COHEN

LEONARD COHEN, IL  LIBRO DEL DESIDERIO – MONDADORI, MILANO 2008

Le poesie e i disegni di Leonard Cohen (Montreal 1934) raccolti in questo volume mondadoriano Il libro del desiderio (Mondadori, 2008) risalgono soprattutto agli anni ’90, anni in cui il percorso umano del cantautore canadese intraprese nuove strade di esplorazione spirituale. In quel periodo, infatti, Cohen iniziò a frequentare il monastero Zen sul monte Baldy in California, e a passare periodi di meditazione in India, seguendo gli insegnamenti del suo maestro Kyozan Joshu Roshi, e assumendo lui stesso il nuovo nome di Jikan. Pur attratto dalla vita severa, silenziosa e casta dei monaci di quella comunità, e riconoscendo la grandezza morale della sua guida Roshi (ha portato centinaia di monaci / al completo risveglio, / si rivolge alla simultanea / espansione e contrazione / del cosmo), Cohen preferì infine tornare alle sue abitudini metropolitane, alla fisicità, ai viaggi, alla musica, all’alcol e al fumo: «Alla fine ho capito / di non avere il minimo talento / per le Questioni Spirituali. / “Grazie, Mio Amore” / ho sentito un cuore gridare / appena sono entrato nel flusso del traffico / sulla Freeway di Santa Monica, / in direzione ovest verso L.A.».

Il ritorno alla vita fu perciò una nuova riscoperta delle sue radici ebraiche mai rinnegate, e l’omaggio a qualsiasi forma di bellezza, in un abbraccio sincretistico a tutte le fedi: cristiana, musulmana, buddista.
Queste poesie, e ancor maggiormente i disegni qui riportati (nudi femminili, chitarre, ma soprattutto decine di autoritratti del suo viso segnato da rughe, mai sorridente, sempre espressivissimo) sembrano voler edificare un orgoglioso monumento a se stesso, agli amori, agli amici, all’arte. Negli schizzi Cohen esprime con fierezza il proprio patrimonio esistenziale (la verità / della linea / vince / qualsiasi altra / considerazione), nei versi – scritti sempre sull’eco di una musica interiore – racconta la sua storia, le paure, gli slanci, le delusioni: «Ho percorso il cammino / Dal caos informe all’arte / La voglia è il cavallo / La depressione il carro;  Ho scritto per amore / Poi ho scritto per soldi. / Per gente come me / è un po’ la stessa cosa; Sono bravo in amore sono bravo nell’odio / E’ tra i due che mi sento gelare / Me la sono cavata ma ora è troppo tardi / Per anni e anni è stato troppo tardi».

 

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www.sololibri.net/Il-libro-del-desiderio-Leonard.html       20 gennaio 2016

 

RECENSIONI

COHEN

ALBERT COHEN, DIARIO – RIZZOLI, MILANO 1995

Di Albert Cohen, autore di romanzi intensi e bellissimi, ormai quasi introvabili, in pochi ricordano il nome, sebbene sia stato uno dei migliori scrittori europei del ’900.

Chi era costui, quindi, è da chiedersi. Nato a Corfù nel 1895, morto a Ginevra nel 1981, proveniva da una famiglia ebrea di industriali di origini greche, travolta da difficoltà economiche ed emigrata nel 1900 a Marsiglia. Dopo il diploma, trasferitosi a Ginevra per studiare diritto e letteratura, ottenne la cittadinanza svizzera. Ebbe sempre incarichi in diplomazia, che lo portarono a Parigi (dove diresse la Revue Juive, cui collaborarono Einstein e Freud), Bordeaux, Londra, Bruxelles, dapprima come funzionario della Società delle Nazioni, e nel dopoguerra presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati o UNHCR. Convinto sionista, si attivò con altri intellettuali a favore della fondazione dello Stato di Israele, di cui fu poi anche ambasciatore. Si sposò tre volte: la terza moglie Bella Berkowich curò con dedizione le sue opere, fino alla loro pubblicazione definitiva in due volumi presso la Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard (1986 e 1993). Cavaliere della Legion d’Onore nel 1970, fu sempre molto critico nei riguardi dell’aristocrazia e dei valori borghesi, della religione ufficiale e dell’ambiente diplomatico, che riteneva vacuo e farisaico, roso da invidie e ambizioni frustrate.

Diario, uscito nel 1978 con il titolo di Carnet, è stato il quarto volume tradotto in Italia, nel 1995, dopo Solal, Il libro di mia madre e Bella del Signore: testamento spirituale e sintesi altissima, rarefatta, del suo pensiero. Sono pagine “stranamente nate a capriccio dei giorni, concepite e continuate al di fuori d’ogni motivo e d’ogni piano”, imposte, quindi, da una necessità extra-letteraria, “scritte lentamente sotto una strana dettatura”, in nove lunghi mesi del ’78, tre anni prima che Cohen (già ottantaduenne ma lucido nelle analisi teoriche, dolorosamente intenerito dai ricordi) morisse. Vi ritroviamo, quasi esasperati da una passione non più dissimulabile, tutti i suoi temi, le sue figure di sempre, ma raccontate con un abbandono lirico più accentuato, con la pena di chi è certo del prossimo, inevitabile, addio da dare a una vita troppo amata.

Quindi la madre, “santa madre povertà, regina schiava, sovrana china, benefattrice, dispensatrice eterna”, in una litania di attributi che sa di liturgico e di sacro. Madre “un po’ grossina, come devono essere le madri”, umiliata in un lavoro massacrante, costretta a un’esistenza ingiusta “da farmene vergogna per Dio”, e che il bambino Albert promette di riscattare. Per lei, suo primo, insostituibile amore, lui si lava e si veste da solo, riordina la casa, “fiero di servirla, di essere il suo sguattero premuroso e sempre complimentato”. Madre e figlio vivono un rapporto esclusivo, fatto di attenzioni minime, di storie inventate per il piacere reciproco dell’ascolto: insieme scoprono l’Eterno, benedicono il suo santo nome, attenti al rispetto delle norme più severe della tradizione giudaica. Quando invece sono costretti alla separazione, il bambino si riconosce ebreo nello scoprirsi rifiutato dai compagni, condannato a recitare da solo ruoli di diversi attori nelle drammatizzazioni improvvisate, ridotto a scrivere nell’aria col dito messaggi destinati a lui stesso.

Già nello splendido Il libro di mia madre (titolo essenziale ed esclusivo per un amore essenziale ed esclusivo), scritto nel 1954, Cohen aveva reso un infervorato e dolente omaggio alla figura materna, alla fedeltà docile e orgogliosa di lei, insieme deprecando la propria boriosa disattenzione adulta e la condiscendenza infastidita di gesti frettolosi. Solo alla morte della mamma diventa consapevole di ciò che ha avuto e di quello che ha perso: allora la malinconia si fa strazio, la memoria struggimento, il bene goduto senso di colpa: “Nessun figlio sa veramente che sua madre morirà e tutti i figli si arrabbiano e si spazientiscono con le loro madri, quei pazzi così presto puniti”.

Altro tremendo e ricattante groviglio di passioni sarà quello che legherà lo scrittore affermato alle donne della sua vita, alle tre mogli, a ragazze sensuali e bellissime. Diane soprattutto, “Diane volteggiante e assolata, così nobile e alta nel suo abito veliero”, che però lo tradisce perché muore prima di lui, lasciandolo nella disperazione. Nel romanzo più famoso, Bella del Signore, uscito nel 1968, premiato con il Grand Prix du roman de l’Académie Française, Cohen intesse un inno all’amore fagocitante e distruttivo, che nel momento della realizzazione porta inevitabilmente al fallimento del rapporto, alla noia, al tradimento delle promesse: perché solo nella privazione può sopravvivere il desiderio, solo nella lontananza brucia la nostalgia.

Chi se ne va, chi abbandona, è comunque crudele, merita tutta la rabbia e il dolore dell’abbandonato: anche e soprattutto se il suo addio è determinato dalla morte. Così alla scomparsa del suo più caro amico, Marcel Pagnol, compagno di scuola poi diventato accademico di Francia, in Diario scrive parole straziate e violente: “Come perdonare a Dio che lui, che fu così vivace e allegro, non ci sia più? Me lo hanno rinchiuso in una scatola, una scatola orrenda che dei vivi indifferenti hanno sigillato, una scatola terribile, e il mio innocente dentro, una lunga scatola, e manate di terra sulla scatola, e hanno calato giù la scatola con delle corde, senza troppa attenzione l’hanno calata e deposta in fondo a un buco d’argilla, la sua ultima umile dimora. E lui non ha gridato, non ha protestato, li ha lasciati fare, ormai muto, rimbecillito dalla morte e di mutismo triste, il mio intelligente…”.

È una rivolta, la sua, che riguarda la morte di tutti, questa enorme ingiustizia a cui ogni cosa vivente è destinata: il non vivere più, il disfarsi, l’essere votati al niente. La protesta diventa allora imprecazione, bestemmia, o può trasformarsi in furiosa preghiera: “Dio, mio amato assente, mostra la Tua potenza e la Tua bontà, convertimi e fa che io possa credere in una vita dopo la morte. Dio, fa che il mio Marcel sepolto non sia venuto invano sulla terra e dentro a questa trappola. Dimmi che vive e che lo ritroverò. E adesso, basta, ne ho abbastanza di parlare con il vuoto, di rivolgermi a chi non risponde mai. Andrò a dormire, a dimenticare i miei morti o a ritrovarli”.

Il Dio di Albert Cohen si nasconde, come quello di Isaia, rifiutandosi al suo desiderio e alla sua ricerca, e poi improvvisamente gli appare, innegabile, incontestabile: “L’Eterno! Ho proclamato loro dietro la tenda della mia finestra. Voi non lo sapete, diletti, l’Eterno è! ho gridato, con gioia esasperata. Egli è, cretini miei, cari atei, Egli è! Avrete un bel dire, Egli è! E ho tenuto la mia verità come un bimbo si stringe al petto un agnellino e ho gridato che egli è, e che tutto ciò che dicono gli atei è falso, infatti Egli è! E con un tremito, un tremore io ho saputo Dio, l’Inesprimibile, l’Esistente, lo Sconosciuto, il Creatore del cielo e della terra e di mia madre. Non è come lo dicono i religiosi, ho esclamato, ma è, terribilmente, e proprio sui suoi altari i miei avi hanno bruciato l’incenso! E all’improvviso ho avuto paura della mia gioia. Dio è, lo so, ho ridetto in quella santa notte. Ma lo saprò ancora, domani?”

Il Dio di Cohen è, come quello di Pascal, “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, Dio ebreo, creato dal popolo di Israele, Dio dei profeti dei patriarchi e degli eserciti, della Legge e della Sinagoga. Un Dio che si è fatto destino e storia di un popolo, sua cultura: Israele è infatti popolo d’anti-natura, agli antipodi dalla naturalità animalesca, dalla potenza fisica e pagana tanto esaltata dai nazisti. Cohen è permeato di ebraicità, intesa come estrema radicalità del sentimento (si legga, ad esempio, quando afferma che, per essere grandi scrittori, è necessario farsi “pazzi del cuore”, cioè “incessantemente pronti al dolore assoluto per ogni cosa, alla gioia assoluta per ogni cosa”; o ancora quando esorta alla “tenerezza di pietà” verso gli altri, a identificarsi con loro, a essere consapevoli “dell’irresponsabilità universale, tutti comandati e determinati come siamo…”: tenerezza e pietà che, forse sulle tracce di Abraham Heschel, Albert Cohen prova anche verso il Creatore. Ma tutto ebraico è anche il severo giudizio critico, di una moralità totalmente cerebrale, che l’autore dà su vari aspetti della vita contemporanea: i buoni sentimenti borghesi, lo spiritualismo religioso, il culto esteriore per i defunti, il falso amore per il prossimo, il corteggiamento tra i due sessi.

Pagine risentite che si alternano ad altre, abbandonate e trepide: che dovrebbe assolutamente leggere chi volesse avvicinarsi a questo grande narratore lirico, composto e raffinato nella scrittura quanto dilaniato e pungente nello spirito.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 26 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

COLLIN

DOMINIQUE COLLIN, LA FEDE È ANCORA POSSIBILE? – QIQAJON, BOSE 2024

 

Il testo di Dominique Collin pubblicato nella collana Sentieri di senso delle edizioni Qiqajon è apparso con il titolo originale La foi est-elle encore possible? nella rivista Études 4 del 2020. Collin (1975), teologo domenicano, insegna alla Facoltà di teologia del Centre Sèvres d Parigi, ed è autore di numerosi volumi, alcuni dei quali tradotti anche in italiano (Il Cristianesimo non esiste ancora, Credere nel mondo a venire, Il Vangelo inaudito).

In queste venticinque pagine riflette sull’insignificanza del discorso cristiano nella realtà contemporanea, chiedendosi cosa sia credere, oggi, quando l’indifferenza verso ogni fede rivelata viene esibita platealmente sui media internazionali e nei social da artisti, scienziati, filosofi e persone comuni. Sembra infatti che attualmente il credere in qualcosa abbia perso significanza, anche riferito alla vita individuale di ciascuno. Secondo Gilles Deleuze “noi non crediamo più in questo mondo. Non crediamo neppure agli avvenimenti che ci accadono, l’amore, la morte, come se ci riguardassero solo a metà”. In questo stato generalizzato di scetticismo e indifferenza, quale ascolto può pretendere il richiamo alla fede religiosa?

Già il Vangelo di Luca (Lc 18,8) si poneva questa tormentosa domanda: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” E che fede potrebbe trovare, se non quella caratterizzata da una funzione puramente decorativa, poiché non ha più una realtà dove operare? Il mondo su cui vorrebbe agire la disconosce, e la rifiuta proprio nel momento in cui essa reclama di essere accolta. Il mondo attuale, nella propria vanità e arroganza, pensa sé stesso come sufficiente, confidando di produrre effetti attesi e predicibili. Non l’inatteso, il possibile, il “senza senso”: ma solo il fatto compiuto, che non inquieta, non disturba, ed è appunto favorevolmente prevedibile.

La fede invece crede nell’evento che accade al di là della prevedibilità e del calcolo, e spera nell’inatteso che si presenta senza ragione “sufficiente”. Secondo Kierkegaard, la fede consiste nel “tener ferma la possibilità”: è la speranza che offre significanza alla fede, aprendo a un futuro di novità, alla libertà assoluta del possibile. I vangeli lo ripetono, ribadendo la fiducia all’affidabilità di una promessa: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23), “Tutto è possibile a Dio” (Mc 10, 27), “Nessun evento sarà impossibile a Dio” (Lc I, 37).

Qui la fede diventa “un’ipotesi viva”: trasgredisce ogni limite alienante, trasportando la potenza del “fuori del senso” in questo mondo. Ed è la speranza che crea il possibile, l’imprevedibile. Credere è sperare, chi non spera si priva della possibilità di credere. Collin afferma che “la fede consiste nello sperare affinché il possibile avvenga e perché è già avvenuto, fatto che rende il possibile ancora più sperabile”. Bisogna dare fiducia non alla possibilità del miracolo, ma al miracolo della possibilità. Infatti, se il possibile è accaduto, ciò significa che può ancora accadere. La fede sposta le montagne (Mt 17, 20), indica il passaggio dal regime della necessità (ciò che è) a quello del possibile (ciò che può essere).

Se l’eccesso di razionalità e criticismo ha minato le credenze cristiane, la fede può sfidare la tracotanza della sufficienza del mondo, suggerendo la speranza come antidoto alla rassegnazione, la possibilità di credere all’impossibile e all’impensabile per uscire dal soffocamento imposto dall’insignificanza. Il “credo quia absurdum” di Tertulliano torna quindi a declamare con forza la sua provocazione. Si può vivere diversamente, anche nella realtà attuale vuota di significati, affidandosi alla speranza irragionevole, eccedente, paradossale “fuori dal senso”: movimento verso l’infinito che apre a un nuovo modo di esistere.

 

© Riproduzione riservata         «Mosaico di pace», aprile 2025

 

RECENSIONI

COMOLLI

GIAMPIERO COMOLLI, UNA LUMINOSA QUIETE – MIMESIS, MILANO 2012

I quattro brevi saggi compresi in questo piccolo libro di Giampiero Comolli, pubblicato da Mimesis nella collana che raccoglie i testi dell’Accademia del Silenzio, sembrano volersi superare l’un l’altro in un crescendo di profondità testimoniale e di intensità emotiva: con l’intenzione dichiarata, comunque, di offrire al lettore le riflessioni più coinvolgenti sulla natura e i vari significati del tacere, e sui percorsi che nei millenni la filosofia, la religione, la mistica hanno proposto all’umanità per conquistare la pace interiore, e un contatto diretto con l’alterità (sia essa indicata come Dio, come Assoluto o come Vuoto). Nel primo saggio Comolli indaga i modi in cui la cultura contemporanea si rappresenta il silenzio: «metafora di marginalità sociale, solitudine, incomprensione, depressione», laddove solo la chiacchiera e il rumore diventano sintomi di vitalità e successo. Proprio al silenzio invece dovremmo attribuire la missione e l’obiettivo di una rifondazione sociale e di rinascita individuale. Tacere acquista allora «una dimensione propositiva», rigeneratrice, offrendosi nella sua inerme nudità e nella sua capacità di ascolto, di non sopraffazione, di pacificazione.  Via del silenzio come pratica di pace è infatti il titolo del secondo intervento; mentre il terzo approfondisce la differenza tra silenzio cristiano e silenzio buddhista, tra Gesù che tace nel deserto per permettere al Dio cristiano di far sentire forte la sua voce, e Buddha che arriva all’illuminazione nella foresta, tra le mille voci assordanti della natura, acquietate però nell’intimo della coscienza e della mente silenziosa. La preghiera da una parte, il Nirvana dall’altra. Nell’ultimo saggio Comolli suggerisce una pratica laica di meditazione, di concentrazione psicofisica, che aiuti, attraverso un’attenta presenza mentale, a raggiungere la «luminosa quiete» cui tutti aspiriamo.

 

«Accademia del Silenzio», 16 dicembre 2013

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CONSONNI

GIANCARLO CONSONNI, FILOVIA – EINAUDI, TORINO 2016

La poesia come sguardo «di sbieco», a osservare il mondo intorno cogliendone qualche particolare trascurato dai più: come fosse dal finestrino di un tram, senza alcuna insistenza, protervia, volontà di giudizio. Poesia q.b., quanto basta, «come il sale / nell’acqua della pasta», è quella che Giancarlo Consonni ci offre nel suo ultimo, delicato, volumetto di versi, Filovia.
Brianzolo, nato nel 1943, professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano, sembra aver assorbito dalla sua professione la capacità tecnica di inquadrare all’interno di un disegno ampio il dettaglio o la sfumatura che lo rende unico, insostituibile, e proprio per questo “poetico”:«Sulla spiaggia riservata / le suorine / mostrano biancori / stupefatti. // Tocca al maestrale / togliere d’imbarazzo / il mare».

Ereditando da una tradizione tutta italiana (Saba, Penna, Betocchi, e più vicine a noi Lamarque e Candiani) il gusto per la pennellata impressionistica, la cadenza epigrammatica, il lindore lieve di immagini addomesticate – sempre innocenti, in uno spirito di francescana clemenza assolutoria, sia che appartengano alla realtà urbana o alla natura – Giancarlo Consonni rende omaggio all’esistenza dei vivi e dei morti, di piante e animali, con un’empatia che lo rivela interprete indulgente del respiro universale. La comprensione verso l’altro non deve escludere nessuno: «Se mi fermo da uno / mi sembra / di fare torto agli altri. // Per questo / non vado al cimitero», «Fosse per me / santi ne farei tanti. / Che siano costretti / ad allargare il paradiso», «Se sbaglio tram / non fa niente / vado fino al capolinea / tengo compagnia al conducente», «La 90 abbraccia la città, / leggo in pace. / Non c’è il mare? / Ci sono tutte le lingue del mondo», «Slittano tutti / di un posto, / è salita una nonna col nipotino. // In silenzio ognuno / si prende / il caldo del vicino».

Il viaggio quotidiano in filovia è un modo gentile e mite di appropriarsi di ciò che ci circonda, senza prevaricazione, ma con una solidarietà quasi evangelica: la stessa che il poeta esercita nell’osservazione della natura e dei suoi ospiti: «Di tutte le visite / la più gradita / è il pettirosso, / fulvo tra gl’iris». Questi versi brevi si imparentano alla grazia degli haiku orientali, alla sapienza antica degli aforismi dei mistici: «Un amico / è una strada / silenziosa». Con un gusto ribadito per l’elementarità, in cui il minimalismo diventa una dichiarazione di poetica: «Lasciare che le parole / vengano a galla / stupirsi d’un tratto / come il gatto / che scompagina il volo / d’una farfalla».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Filovia-Giancarlo-Consonni.html      21 aprile 2016

RECENSIONI

CONSONNI

GIANCARLO CONSONNI, PINOLI – EINAUDI, TORINO 2021

Alla sua quarta prova nella collana di poesia dell’editore Einaudi, Giancarlo Consonni (Merate, 1943), professore emerito del Politecnico di Milano e urbanista, ribadisce con voce sicura benché sommessa la sua fede nella bellezza delle cose, dei visi, della natura in cui ci muoviamo tutti, troppo spesso disattenti e superficiali.

Lo fa scegliendo la forma breve e stilizzata del verso, un lessico semplificato fin quasi all’elementarità, l’abolizione di qualsiasi strategia metrica o sintattica. Racconta di insetti minuscoli, fiori campestri, fenomeni atmosferici lievi, privilegiando la leggerezza di temi e tonalità vicini alla sapienza meditativa degli antichi poeti orientali, con la grazia degli haiku, o dei mistici renani innamorati del silenzio divino: “Qual è il peso di un bombo? / di un’ape? / di una farfalla? // Ogni fiore lo sa”, “Dolorano i rami / gonfi di gemme. / Premono / impazienti fanciulle”, “Intona il Gloria in excelsis / il papavero / e sale sommesso / il controcanto del fiordaliso. // Rosso, blu e giallo oro / non è il paradiso / è solo un campo di grano”, “Si fa ronzio / il dolce dell’uva”.

Pinoli, il poeta ha chiamato la sua raccolta: omaggio ai minuscoli semi, commestibili e proteici, che pur presentandosi umili, danno sapore ai cibi più ricchi. Mattino, aurora, alba, inizio del giorno, sole che sorge, bianco, luce, neve: è nel chiarore che si aprono i suoi occhi, al primo luminoso raggio che vince l’oscurità notturna, rimanendo clemente a intiepidire Les petites heures che attendono il risveglio del mondo. L’avvio quotidiano dell’esistenza è sempre augurale, e si ripete benevolo come una promessa: “Sì / amo la colazione. / E non solo la prima: la seconda / la terza… // Vorrei che l’inizio del giorno / non finisse mai”. Se è possibile un dialogo tra le creature, può avvenire solo con una presenza amata e gentile, il profilo di una lei appena accennato: “Resistono / le parole tra noi / come le erbe errabonde / nelle insenature dei coppi”.

Eppure, anche in questa persistente ricerca di innocenza, gratuità e dolcezza si insinua discordante la presenza del male, nella sofferenza dell’umano e del non-umano: “Parla per tutti / il ramo spezzato / dice delle vite incompiute, / le nostre”. Morti sul lavoro, incidenti stradali, ragazzi di strada, fabbriche dismesse, giovani donne suicide nel fiume Adda, case di ringhiera di una Milano del dopoguerra, e la povertà degli ultimi …

Allora, forse solo il tacere – consolatorio come un gesto d’amore – offre uno scampolo di pietà al dolore immeritato: “Porgere la parola / al silenzio / come all’amata / un fiore”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Pinoli-Consonni 18 ottobre 2021

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CORBETTA

ALESSANDRA CORBETTA, ESTATE CORSARA – PUNTOACAPO 2022, p. 100

Il libro di Alessandra Corbetta, Estate corsara, pubblicato da Puntoacapo, è scandito in tre sezioni, Prima Durante Dopo, che definiscono l’evolversi (o involversi) di un percorso sentimentale ed esistenziale lungo l’ascissa temporale di una ventina d’anni, vissuti dall’autrice all’insegna della nostalgia, ma in una costante crescita della consapevolezza di sé e del mondo.

Il capitolo iniziale inquadra un periodo situato tra l’adolescenza e la giovinezza, rivissuto nel ricordo di giornate rese più luminose dal filtro indulgente della memoria. Per quanto Alessandra sia ancora molto giovane (Erba, 1988), tuttavia gli anni che la separano dalle estati acerbe e vivaci del passato acquistano veridicità nel tono sospeso e leggero della narrazione, nei particolari recuperati con tenerezza e rimpianto. I mesi caldi di luglio e agosto (la spiaggia, gli ombrelloni blu, le fresche bevande al chiosco, occhi e sorrisi dei compagni, serate in gruppo al lunapark, addii immagonati alla stazione), si prestano come testimoni alle prime schermaglie amorose, nella tentazione di “fare quelle cose / da grandi” tra l’ascensore e le camere dell’hotel, “cose da poco / tutte però a perdifiato”.

Incastonata tra citazioni tratte dalle canzoni dei Baustelle e i versi di Umberto Fiori, la raccolta procede con Durante, sezione introdotta da una breve prosa esplicativa, a indicare la tattica comportamentale messa in atto per fronteggiare una sofferta esperienza del cuore: “spostare ai lati le pedine e prepararsi al grande scacco, trattenere tutta l’aria per fuggire”.

Questi versi appaiono sostanzialmente come una lunga e tormentata dichiarazione d’amore, in cui due persone affrontano un viaggio che le porta a scoprire non solo splendide città dell’Italia centrale, sfondo scenografico all’approfondimento del loro rapporto (“la voglia / di prendere insieme un gelato”), ma anche “l’agguato della vita”, che suggerisce la necessità di “cambiare il corso / riparare il guasto” per salvarsi. Il dialogo con l’altro si esplicita nell’uso di un “tu” che è desiderio di confessione e consolazione reciproca: “Non puoi immaginare quante cose / restano nascoste a dio”, “la paura di vedere che / è tutto precipizio”, “a chi come me non crede / che un luogo ci tenga / per sempre”, “Non volevo sapere e non l’ho saputo / quanto è veloce la parola addio, / come passa inosservata in mezzo a una gioia brevissima”.

L’inevitabile fine della relazione viene descritta in Dopo, a conclusione del volume. E qui Alessandra Corbetta prende coscienza che “Qualcosa è esploso, qualcosa ha distrutto tutto”. Le metafore usate per esprimere questa distruzione sono il silenzio, il “guardare la notte da un balcone di provincia”, il temporale, l’ombra, l’oscurità di un pozzo, la contaminazione e la putrefazione dovuta a batteri che proliferano, e continuamente treni che partono, si allontanano.

L’unica possibilità che resta è allora “scegliere di vivere”, riabbracciare la normale quotidianità (“Ed ecco farsi avanti nuovi giorni, / le tesi da correggere e le chiusure, / le notti, le ansie e le piogge”). Sebbene l’autrice sappia che “scrivere è una briciola di non-vissuto”, proprio la scrittura, la poesia, può offrire un’ancora cui aggrapparsi, per riappacificarsi con il dolore, ricostruendosi in un possibile futuro. E infatti Ricostruzione è il componimento che sigilla la raccolta, in cui la sconfitta e l’abbandono vengono riconosciuti non come fallimenti ma come possibilità di rinascita: “C’è da ricostruire il luogo / del patto che è stato / violato. E perdonare, l’estate. // … Chi resta vince. Chi resta sopravvive / e traduce la memoria. Chi scappa / dimentica la strada”.

 

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SoloLibri.net › Estate corsara di Alessandra Corbetta       13 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CORTAZAR

JULIO CORTÁZAR, IL SENTIMENTO DELLA LETTERATURA – SUR, ROMA 2020 (ebook)

 

Julio Cortázar (1914-1984) è stato uno dei massimi scrittori sudamericani del Novecento. Romanziere, poeta, critico letterario, saggista e drammaturgo, era nato a Bruxelles da famiglia argentina, e morì a Parigi dopo essersi naturalizzato francese. La sua vita trascorse tra Europa e Sudamerica, e di entrambi i continenti assorbì gli influssi culturali, creando prodotti letterari originali e caleidoscopici, fluttuanti tra il fantastico e lo scavo psicologico, la metafisica e l’ironia, il mistero e la giocosità. Con l’impegno di chi “fra vivere e scrivere non ha mai ammesso una netta differenza”.

In questo ebook pubblicato da Sur sono raccolti due saggi (Del sentimento di non esserci del tutto e Sul sentimento del fantastico) tratti dal volume Il giro del giorno in ottanta mondi.

Secondo l’autore, l’adulto in cui ci trasformiamo crescendo, porta dentro di sé il bambino che è stato, e questa poco pacifica coesistenza permette di guardarsi intorno attraverso due aperture diverse, assumendo differenti nature: poeta e criminale, ragno e mosca. Nella dialettica tra visione puerile e visione adulta, tra realtà e magia, è sempre presente una connotazione ludica, e il gioco è “un processo che parte da una dislocazione per arrivare a una collocazione, a un piazzamento – goal, scacco matto, tana libera tutti”. Chi scrive è dislocato rispetto a ciò che vive, e si trova nella posizione eccentrica di chi esiste a metà. Cortázar si sente continuamente fuori e dentro il reale, e ne dà testimonianza anche nella scrittura funambolica di questo pamphlet: “E mi piace, e sono terribilmente felice nel mio inferno, e scrivo. Vivo e scrivo minacciato da questa lateralità, da quella parallasse effettiva, da questo essere sempre un po’ più a sinistra o più sul fondo rispetto al posto in cui si dovrebbe essere”.

Scoprendosi diverso dagli altri già dall’infanzia, trova una corrispondenza solo nella compagnia dei gatti e dei libri, in un continuo estraniamento, in una tangenzialità all’accadere, in una interstizialità che non gli permette di aderire al vissuto se non nel dubbio, nello sconcerto, nell’inconsueto. Sospendere la contingenza, abbandonarsi alle associazioni verbali o immaginative, è quello che meglio riesce a Cortázar. Che meglio gli è riuscito nel suo capolavoro, Rayuela, Il gioco del mondo (1966). L’irrazionalità del fantastico, la sua non prevedibilità e non programmabilità, lo ha sempre affascinato: già da piccolo era sensibile al meraviglioso, che cercava di rinchiudere nel reale, appunto “realizzandolo”. Ad esempio, estraendo i tesori di un libro dal loro forziere, per introdurli nella propria quotidianità personale. Compito del poeta è uscire dall’assoggettamento all’attualità, alla transitorietà degli avvenimenti, trasformando le funzioni pragmatiche della memoria e dei sensi per dar posto a un impulso creatore, che da solo può cambiare il mondo. “Chi vive per aspettare l’inaspettato accoglie quello che non è ancora arrivato, lascia entrare un visitatore che verrà domani o è venuto ieri”.

Il fantastico possiede istanze schiaccianti che si riverberano su virtualità straordinarie, ampliando la possibilità del caso fino all’inconcepibile. Tutto può accadere, travolgendo il predeterminato: perciò bisogna lasciare la porta aperta all’eventuale, forzando la “crosta dell’apparenza”. “Ho sempre saputo che le grosse sorprese ci aspettano dove abbiamo finalmente imparato a non sorprenderci di nulla, nel senso che non ci scandalizziamo davanti alle rotture dell’ordine”, afferma Cortázar, ben consapevole che per uno scrittore non esiste realismo che non sia invenzione, né verità che non sia finzione.

 

© Riproduzione riservata                     «Gli Stati Generali», I luglio 2020

RECENSIONI

CORTI

EUGENIO CORTI, I PIU’ NON RITORNANO – BUR, MILANO 2004

Un diario, e non un romanzo, questo libro sofferto di Eugenio Corti, pubblicato per la prima volta nel 1947 e in seguito riproposto in diverse e numerose edizioni italiane e straniere. Al pari di altri famosissimi diari che hanno testimoniato le vicende infernali che hanno travolto civili e militari nella seconda guerra mondiale, questa narrazione scandisce senza nessuna indulgenza ad artifici letterari il destino individuale e collettivo delle vittime di quel tragico conflitto. Eugenio Corti, sottotenente pattugliere del reggimento fanteria Pasubio durante la ritirata di Russia, racconta in queste pagine, con assoluta e lucida puntigliosità, tutti gli avvenimenti che scandirono le ventotto giornate, tra il dicembre 1942 e il gennaio 1943, in cui la sua divisione subì l’offensiva russa e fu costretta a ripiegare dal Don a Starobelsk. “In questo diario si riflette la fine del Trentacinquesimo corpo d’armata, uno dei tre corpi dell’armata italiana in Russia”: con queste scarne parole ha inizio il resoconto della strage che, dei 30.000 uomini accerchiati nella sacca sul fronte, ne risparmiò solo 4.000. Corti, allora ventunenne, una volta scampato a quella carneficina, scrisse le sue memorie in pochi mesi, mentre era ricoverato in un ospedale militare a Merano nel 1943: con l’intenzione di offrire una testimonianza, imparziale e fedele, di tutto ciò che aveva vissuto. Atti di eroismo e di disperazione, crudeltà e vigliaccherie, insubordinazioni e incapacità organizzative, sentimenti riprovevoli e generosità solidali: tutto ciò, insomma, che caratterizza l’agire umano nei momenti più terribili e pericolosi dell’esistenza. “La mia maggior preoccupazione fu di rispettare in tutto la verità: al punto di poter giurare sul contenuto non soltanto dell’insieme, ma di ogni singola frase”. Nessuna retorica patriottica, quindi, e nessuna autoindulgenza, ma uno sguardo severo e pietoso sulla Storia che travolge e corrompe storie e destini personali, distruggendo anime e corpi.

IBS, 7 agosto 2013

RECENSIONI

COSENTINO

NICOLA H. COSENTINO, VITA E MORTE DELLE ARAGOSTE – VOLAND, ROMA 2017

Nicola Cosentino (1991), calabrese, si occupa come ricercatore di distopie contemporanee, scrive racconti e collabora al blog Minima&Moralia. Vita e morte delle aragoste è il suo secondo romanzo, ambientato tra la provincia calabrese e Roma, dove i due protagonisti (Antonio e Vincenzo, compagni di liceo), approdano con l’obiettivo di trovare un lavoro e qualche riscontro alle loro aspirazioni artistiche. Il libro è suddiviso in quindici episodi, sezioni di vita datate dal 2005 ad oggi: squarci di memorie, bozzetti descrittivi, brani diaristici e riflessioni che ripercorrono l’amicizia tra i due protagonisti, e la fedele, ammirata sudditanza dell’io narrante-Antonio alla figura di Vincenzo. «Ecco, quando ero con lui, anche se è difficile da spiegare, non mi sentivo affatto l’eroe della mia vita. Ero la spalla della sua». Le ombrose cotte liceali, con le stesse ragazze contese e poi cedute dal più remissivo al sempre-trionfante; i turbamenti inizialmente nascosti e poi virilmente esibiti dei primi approcci sessuali; le sbronze, gli scioperi a scuola e i volantinaggi; i viaggi all’estero e i lutti improvvisi; la disordinata convivenza a Roma per gli studi universitari; i rapporti problematici con i vicini e con i colleghi di lavoro, che finivano per cementare ulteriormente la loro solidale empatia. E poi letture e musiche condivise, gli esordi letterari, le collaborazioni alle riviste più trendy, sempre con il terrore di fallire: «Non sentirsi niente di speciale e pretendere di esserlo».

Due caratteri agli antipodi e tuttavia complementari: Antonio «giovane e placido appassionato di estetica editoriale», Vincenzo, sociologo «ragazzo di dettagli… non ha mai guardato tutto l’insieme ma la pagliuzza, la cornice, la pennellata, la filigrana, la firma, il fascio di luce, un seno scoperto. Ce l’aveva, questo talento. Questa percezione profonda per le cose del mondo», «Era un romantico insicuro, bisognoso di prove eclatanti e tauromachiche aspettative, tipo: questa è la volta della vita; è la ragazza più bella della scuola; è più talentuosa di me». La quasi simbiosi tra i due si spezza con il disincanto di un tradimento taciuto, e per la delusione di un futuro accarezzato rivelatosi deludente: al pari delle aragoste che non smettono mai di crescere, eppure finiscono per morire come qualsiasi sentimento o altra cosa vivente.

Attraverso una scrittura piacevole e garbatamente curata, Nicola Cosentino porge un omaggio affettuoso a una profonda amicizia e agli anni caotici, divertenti, carichi di speranze e illusioni di una “normale” formazione giovanile, vissuta senza particolari trasgressioni e ricordata con riconoscente nostalgia.

 

www.sololibri.net/Vita-morte-aragoste-Cosentino.html     28 settembre 2017

 

 

 

 

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