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RECENSIONI

COLLIN

DOMINIQUE COLLIN, LA FEDE È ANCORA POSSIBILE? – QIQAJON, BOSE 2024

 

Il testo di Dominique Collin pubblicato nella collana Sentieri di senso delle edizioni Qiqajon è apparso con il titolo originale La foi est-elle encore possible? nella rivista Études 4 del 2020. Collin (1975), teologo domenicano, insegna alla Facoltà di teologia del Centre Sèvres d Parigi, ed è autore di numerosi volumi, alcuni dei quali tradotti anche in italiano (Il Cristianesimo non esiste ancora, Credere nel mondo a venire, Il Vangelo inaudito).

In queste venticinque pagine riflette sull’insignificanza del discorso cristiano nella realtà contemporanea, chiedendosi cosa sia credere, oggi, quando l’indifferenza verso ogni fede rivelata viene esibita platealmente sui media internazionali e nei social da artisti, scienziati, filosofi e persone comuni. Sembra infatti che attualmente il credere in qualcosa abbia perso significanza, anche riferito alla vita individuale di ciascuno. Secondo Gilles Deleuze “noi non crediamo più in questo mondo. Non crediamo neppure agli avvenimenti che ci accadono, l’amore, la morte, come se ci riguardassero solo a metà”. In questo stato generalizzato di scetticismo e indifferenza, quale ascolto può pretendere il richiamo alla fede religiosa?

Già il Vangelo di Luca (Lc 18,8) si poneva questa tormentosa domanda: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” E che fede potrebbe trovare, se non quella caratterizzata da una funzione puramente decorativa, poiché non ha più una realtà dove operare? Il mondo su cui vorrebbe agire la disconosce, e la rifiuta proprio nel momento in cui essa reclama di essere accolta. Il mondo attuale, nella propria vanità e arroganza, pensa sé stesso come sufficiente, confidando di produrre effetti attesi e predicibili. Non l’inatteso, il possibile, il “senza senso”: ma solo il fatto compiuto, che non inquieta, non disturba, ed è appunto favorevolmente prevedibile.

La fede invece crede nell’evento che accade al di là della prevedibilità e del calcolo, e spera nell’inatteso che si presenta senza ragione “sufficiente”. Secondo Kierkegaard, la fede consiste nel “tener ferma la possibilità”: è la speranza che offre significanza alla fede, aprendo a un futuro di novità, alla libertà assoluta del possibile. I vangeli lo ripetono, ribadendo la fiducia all’affidabilità di una promessa: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23), “Tutto è possibile a Dio” (Mc 10, 27), “Nessun evento sarà impossibile a Dio” (Lc I, 37).

Qui la fede diventa “un’ipotesi viva”: trasgredisce ogni limite alienante, trasportando la potenza del “fuori del senso” in questo mondo. Ed è la speranza che crea il possibile, l’imprevedibile. Credere è sperare, chi non spera si priva della possibilità di credere. Collin afferma che “la fede consiste nello sperare affinché il possibile avvenga e perché è già avvenuto, fatto che rende il possibile ancora più sperabile”. Bisogna dare fiducia non alla possibilità del miracolo, ma al miracolo della possibilità. Infatti, se il possibile è accaduto, ciò significa che può ancora accadere. La fede sposta le montagne (Mt 17, 20), indica il passaggio dal regime della necessità (ciò che è) a quello del possibile (ciò che può essere).

Se l’eccesso di razionalità e criticismo ha minato le credenze cristiane, la fede può sfidare la tracotanza della sufficienza del mondo, suggerendo la speranza come antidoto alla rassegnazione, la possibilità di credere all’impossibile e all’impensabile per uscire dal soffocamento imposto dall’insignificanza. Il “credo quia absurdum” di Tertulliano torna quindi a declamare con forza la sua provocazione. Si può vivere diversamente, anche nella realtà attuale vuota di significati, affidandosi alla speranza irragionevole, eccedente, paradossale “fuori dal senso”: movimento verso l’infinito che apre a un nuovo modo di esistere.

 

© Riproduzione riservata         «Mosaico di pace», aprile 2025

 

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COMOLLI

GIAMPIERO COMOLLI, UNA LUMINOSA QUIETE – MIMESIS, MILANO 2012

I quattro brevi saggi compresi in questo piccolo libro di Giampiero Comolli, pubblicato da Mimesis nella collana che raccoglie i testi dell’Accademia del Silenzio, sembrano volersi superare l’un l’altro in un crescendo di profondità testimoniale e di intensità emotiva: con l’intenzione dichiarata, comunque, di offrire al lettore le riflessioni più coinvolgenti sulla natura e i vari significati del tacere, e sui percorsi che nei millenni la filosofia, la religione, la mistica hanno proposto all’umanità per conquistare la pace interiore, e un contatto diretto con l’alterità (sia essa indicata come Dio, come Assoluto o come Vuoto). Nel primo saggio Comolli indaga i modi in cui la cultura contemporanea si rappresenta il silenzio: «metafora di marginalità sociale, solitudine, incomprensione, depressione», laddove solo la chiacchiera e il rumore diventano sintomi di vitalità e successo. Proprio al silenzio invece dovremmo attribuire la missione e l’obiettivo di una rifondazione sociale e di rinascita individuale. Tacere acquista allora «una dimensione propositiva», rigeneratrice, offrendosi nella sua inerme nudità e nella sua capacità di ascolto, di non sopraffazione, di pacificazione.  Via del silenzio come pratica di pace è infatti il titolo del secondo intervento; mentre il terzo approfondisce la differenza tra silenzio cristiano e silenzio buddhista, tra Gesù che tace nel deserto per permettere al Dio cristiano di far sentire forte la sua voce, e Buddha che arriva all’illuminazione nella foresta, tra le mille voci assordanti della natura, acquietate però nell’intimo della coscienza e della mente silenziosa. La preghiera da una parte, il Nirvana dall’altra. Nell’ultimo saggio Comolli suggerisce una pratica laica di meditazione, di concentrazione psicofisica, che aiuti, attraverso un’attenta presenza mentale, a raggiungere la «luminosa quiete» cui tutti aspiriamo.

 

«Accademia del Silenzio», 16 dicembre 2013

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CONSONNI

GIANCARLO CONSONNI, FILOVIA – EINAUDI, TORINO 2016

La poesia come sguardo «di sbieco», a osservare il mondo intorno cogliendone qualche particolare trascurato dai più: come fosse dal finestrino di un tram, senza alcuna insistenza, protervia, volontà di giudizio. Poesia q.b., quanto basta, «come il sale / nell’acqua della pasta», è quella che Giancarlo Consonni ci offre nel suo ultimo, delicato, volumetto di versi, Filovia.
Brianzolo, nato nel 1943, professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano, sembra aver assorbito dalla sua professione la capacità tecnica di inquadrare all’interno di un disegno ampio il dettaglio o la sfumatura che lo rende unico, insostituibile, e proprio per questo “poetico”:«Sulla spiaggia riservata / le suorine / mostrano biancori / stupefatti. // Tocca al maestrale / togliere d’imbarazzo / il mare».

Ereditando da una tradizione tutta italiana (Saba, Penna, Betocchi, e più vicine a noi Lamarque e Candiani) il gusto per la pennellata impressionistica, la cadenza epigrammatica, il lindore lieve di immagini addomesticate – sempre innocenti, in uno spirito di francescana clemenza assolutoria, sia che appartengano alla realtà urbana o alla natura – Giancarlo Consonni rende omaggio all’esistenza dei vivi e dei morti, di piante e animali, con un’empatia che lo rivela interprete indulgente del respiro universale. La comprensione verso l’altro non deve escludere nessuno: «Se mi fermo da uno / mi sembra / di fare torto agli altri. // Per questo / non vado al cimitero», «Fosse per me / santi ne farei tanti. / Che siano costretti / ad allargare il paradiso», «Se sbaglio tram / non fa niente / vado fino al capolinea / tengo compagnia al conducente», «La 90 abbraccia la città, / leggo in pace. / Non c’è il mare? / Ci sono tutte le lingue del mondo», «Slittano tutti / di un posto, / è salita una nonna col nipotino. // In silenzio ognuno / si prende / il caldo del vicino».

Il viaggio quotidiano in filovia è un modo gentile e mite di appropriarsi di ciò che ci circonda, senza prevaricazione, ma con una solidarietà quasi evangelica: la stessa che il poeta esercita nell’osservazione della natura e dei suoi ospiti: «Di tutte le visite / la più gradita / è il pettirosso, / fulvo tra gl’iris». Questi versi brevi si imparentano alla grazia degli haiku orientali, alla sapienza antica degli aforismi dei mistici: «Un amico / è una strada / silenziosa». Con un gusto ribadito per l’elementarità, in cui il minimalismo diventa una dichiarazione di poetica: «Lasciare che le parole / vengano a galla / stupirsi d’un tratto / come il gatto / che scompagina il volo / d’una farfalla».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Filovia-Giancarlo-Consonni.html      21 aprile 2016

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CONSONNI

GIANCARLO CONSONNI, PINOLI – EINAUDI, TORINO 2021

Alla sua quarta prova nella collana di poesia dell’editore Einaudi, Giancarlo Consonni (Merate, 1943), professore emerito del Politecnico di Milano e urbanista, ribadisce con voce sicura benché sommessa la sua fede nella bellezza delle cose, dei visi, della natura in cui ci muoviamo tutti, troppo spesso disattenti e superficiali.

Lo fa scegliendo la forma breve e stilizzata del verso, un lessico semplificato fin quasi all’elementarità, l’abolizione di qualsiasi strategia metrica o sintattica. Racconta di insetti minuscoli, fiori campestri, fenomeni atmosferici lievi, privilegiando la leggerezza di temi e tonalità vicini alla sapienza meditativa degli antichi poeti orientali, con la grazia degli haiku, o dei mistici renani innamorati del silenzio divino: “Qual è il peso di un bombo? / di un’ape? / di una farfalla? // Ogni fiore lo sa”, “Dolorano i rami / gonfi di gemme. / Premono / impazienti fanciulle”, “Intona il Gloria in excelsis / il papavero / e sale sommesso / il controcanto del fiordaliso. // Rosso, blu e giallo oro / non è il paradiso / è solo un campo di grano”, “Si fa ronzio / il dolce dell’uva”.

Pinoli, il poeta ha chiamato la sua raccolta: omaggio ai minuscoli semi, commestibili e proteici, che pur presentandosi umili, danno sapore ai cibi più ricchi. Mattino, aurora, alba, inizio del giorno, sole che sorge, bianco, luce, neve: è nel chiarore che si aprono i suoi occhi, al primo luminoso raggio che vince l’oscurità notturna, rimanendo clemente a intiepidire Les petites heures che attendono il risveglio del mondo. L’avvio quotidiano dell’esistenza è sempre augurale, e si ripete benevolo come una promessa: “Sì / amo la colazione. / E non solo la prima: la seconda / la terza… // Vorrei che l’inizio del giorno / non finisse mai”. Se è possibile un dialogo tra le creature, può avvenire solo con una presenza amata e gentile, il profilo di una lei appena accennato: “Resistono / le parole tra noi / come le erbe errabonde / nelle insenature dei coppi”.

Eppure, anche in questa persistente ricerca di innocenza, gratuità e dolcezza si insinua discordante la presenza del male, nella sofferenza dell’umano e del non-umano: “Parla per tutti / il ramo spezzato / dice delle vite incompiute, / le nostre”. Morti sul lavoro, incidenti stradali, ragazzi di strada, fabbriche dismesse, giovani donne suicide nel fiume Adda, case di ringhiera di una Milano del dopoguerra, e la povertà degli ultimi …

Allora, forse solo il tacere – consolatorio come un gesto d’amore – offre uno scampolo di pietà al dolore immeritato: “Porgere la parola / al silenzio / come all’amata / un fiore”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Pinoli-Consonni 18 ottobre 2021

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CORBETTA

ALESSANDRA CORBETTA, ESTATE CORSARA – PUNTOACAPO 2022, p. 100

Il libro di Alessandra Corbetta, Estate corsara, pubblicato da Puntoacapo, è scandito in tre sezioni, Prima Durante Dopo, che definiscono l’evolversi (o involversi) di un percorso sentimentale ed esistenziale lungo l’ascissa temporale di una ventina d’anni, vissuti dall’autrice all’insegna della nostalgia, ma in una costante crescita della consapevolezza di sé e del mondo.

Il capitolo iniziale inquadra un periodo situato tra l’adolescenza e la giovinezza, rivissuto nel ricordo di giornate rese più luminose dal filtro indulgente della memoria. Per quanto Alessandra sia ancora molto giovane (Erba, 1988), tuttavia gli anni che la separano dalle estati acerbe e vivaci del passato acquistano veridicità nel tono sospeso e leggero della narrazione, nei particolari recuperati con tenerezza e rimpianto. I mesi caldi di luglio e agosto (la spiaggia, gli ombrelloni blu, le fresche bevande al chiosco, occhi e sorrisi dei compagni, serate in gruppo al lunapark, addii immagonati alla stazione), si prestano come testimoni alle prime schermaglie amorose, nella tentazione di “fare quelle cose / da grandi” tra l’ascensore e le camere dell’hotel, “cose da poco / tutte però a perdifiato”.

Incastonata tra citazioni tratte dalle canzoni dei Baustelle e i versi di Umberto Fiori, la raccolta procede con Durante, sezione introdotta da una breve prosa esplicativa, a indicare la tattica comportamentale messa in atto per fronteggiare una sofferta esperienza del cuore: “spostare ai lati le pedine e prepararsi al grande scacco, trattenere tutta l’aria per fuggire”.

Questi versi appaiono sostanzialmente come una lunga e tormentata dichiarazione d’amore, in cui due persone affrontano un viaggio che le porta a scoprire non solo splendide città dell’Italia centrale, sfondo scenografico all’approfondimento del loro rapporto (“la voglia / di prendere insieme un gelato”), ma anche “l’agguato della vita”, che suggerisce la necessità di “cambiare il corso / riparare il guasto” per salvarsi. Il dialogo con l’altro si esplicita nell’uso di un “tu” che è desiderio di confessione e consolazione reciproca: “Non puoi immaginare quante cose / restano nascoste a dio”, “la paura di vedere che / è tutto precipizio”, “a chi come me non crede / che un luogo ci tenga / per sempre”, “Non volevo sapere e non l’ho saputo / quanto è veloce la parola addio, / come passa inosservata in mezzo a una gioia brevissima”.

L’inevitabile fine della relazione viene descritta in Dopo, a conclusione del volume. E qui Alessandra Corbetta prende coscienza che “Qualcosa è esploso, qualcosa ha distrutto tutto”. Le metafore usate per esprimere questa distruzione sono il silenzio, il “guardare la notte da un balcone di provincia”, il temporale, l’ombra, l’oscurità di un pozzo, la contaminazione e la putrefazione dovuta a batteri che proliferano, e continuamente treni che partono, si allontanano.

L’unica possibilità che resta è allora “scegliere di vivere”, riabbracciare la normale quotidianità (“Ed ecco farsi avanti nuovi giorni, / le tesi da correggere e le chiusure, / le notti, le ansie e le piogge”). Sebbene l’autrice sappia che “scrivere è una briciola di non-vissuto”, proprio la scrittura, la poesia, può offrire un’ancora cui aggrapparsi, per riappacificarsi con il dolore, ricostruendosi in un possibile futuro. E infatti Ricostruzione è il componimento che sigilla la raccolta, in cui la sconfitta e l’abbandono vengono riconosciuti non come fallimenti ma come possibilità di rinascita: “C’è da ricostruire il luogo / del patto che è stato / violato. E perdonare, l’estate. // … Chi resta vince. Chi resta sopravvive / e traduce la memoria. Chi scappa / dimentica la strada”.

 

© Riproduzione riservata  

SoloLibri.net › Estate corsara di Alessandra Corbetta       13 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CORTAZAR

JULIO CORTÁZAR, IL SENTIMENTO DELLA LETTERATURA – SUR, ROMA 2020 (ebook)

 

Julio Cortázar (1914-1984) è stato uno dei massimi scrittori sudamericani del Novecento. Romanziere, poeta, critico letterario, saggista e drammaturgo, era nato a Bruxelles da famiglia argentina, e morì a Parigi dopo essersi naturalizzato francese. La sua vita trascorse tra Europa e Sudamerica, e di entrambi i continenti assorbì gli influssi culturali, creando prodotti letterari originali e caleidoscopici, fluttuanti tra il fantastico e lo scavo psicologico, la metafisica e l’ironia, il mistero e la giocosità. Con l’impegno di chi “fra vivere e scrivere non ha mai ammesso una netta differenza”.

In questo ebook pubblicato da Sur sono raccolti due saggi (Del sentimento di non esserci del tutto e Sul sentimento del fantastico) tratti dal volume Il giro del giorno in ottanta mondi.

Secondo l’autore, l’adulto in cui ci trasformiamo crescendo, porta dentro di sé il bambino che è stato, e questa poco pacifica coesistenza permette di guardarsi intorno attraverso due aperture diverse, assumendo differenti nature: poeta e criminale, ragno e mosca. Nella dialettica tra visione puerile e visione adulta, tra realtà e magia, è sempre presente una connotazione ludica, e il gioco è “un processo che parte da una dislocazione per arrivare a una collocazione, a un piazzamento – goal, scacco matto, tana libera tutti”. Chi scrive è dislocato rispetto a ciò che vive, e si trova nella posizione eccentrica di chi esiste a metà. Cortázar si sente continuamente fuori e dentro il reale, e ne dà testimonianza anche nella scrittura funambolica di questo pamphlet: “E mi piace, e sono terribilmente felice nel mio inferno, e scrivo. Vivo e scrivo minacciato da questa lateralità, da quella parallasse effettiva, da questo essere sempre un po’ più a sinistra o più sul fondo rispetto al posto in cui si dovrebbe essere”.

Scoprendosi diverso dagli altri già dall’infanzia, trova una corrispondenza solo nella compagnia dei gatti e dei libri, in un continuo estraniamento, in una tangenzialità all’accadere, in una interstizialità che non gli permette di aderire al vissuto se non nel dubbio, nello sconcerto, nell’inconsueto. Sospendere la contingenza, abbandonarsi alle associazioni verbali o immaginative, è quello che meglio riesce a Cortázar. Che meglio gli è riuscito nel suo capolavoro, Rayuela, Il gioco del mondo (1966). L’irrazionalità del fantastico, la sua non prevedibilità e non programmabilità, lo ha sempre affascinato: già da piccolo era sensibile al meraviglioso, che cercava di rinchiudere nel reale, appunto “realizzandolo”. Ad esempio, estraendo i tesori di un libro dal loro forziere, per introdurli nella propria quotidianità personale. Compito del poeta è uscire dall’assoggettamento all’attualità, alla transitorietà degli avvenimenti, trasformando le funzioni pragmatiche della memoria e dei sensi per dar posto a un impulso creatore, che da solo può cambiare il mondo. “Chi vive per aspettare l’inaspettato accoglie quello che non è ancora arrivato, lascia entrare un visitatore che verrà domani o è venuto ieri”.

Il fantastico possiede istanze schiaccianti che si riverberano su virtualità straordinarie, ampliando la possibilità del caso fino all’inconcepibile. Tutto può accadere, travolgendo il predeterminato: perciò bisogna lasciare la porta aperta all’eventuale, forzando la “crosta dell’apparenza”. “Ho sempre saputo che le grosse sorprese ci aspettano dove abbiamo finalmente imparato a non sorprenderci di nulla, nel senso che non ci scandalizziamo davanti alle rotture dell’ordine”, afferma Cortázar, ben consapevole che per uno scrittore non esiste realismo che non sia invenzione, né verità che non sia finzione.

 

© Riproduzione riservata                     «Gli Stati Generali», I luglio 2020

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CORTI

EUGENIO CORTI, I PIU’ NON RITORNANO – BUR, MILANO 2004

Un diario, e non un romanzo, questo libro sofferto di Eugenio Corti, pubblicato per la prima volta nel 1947 e in seguito riproposto in diverse e numerose edizioni italiane e straniere. Al pari di altri famosissimi diari che hanno testimoniato le vicende infernali che hanno travolto civili e militari nella seconda guerra mondiale, questa narrazione scandisce senza nessuna indulgenza ad artifici letterari il destino individuale e collettivo delle vittime di quel tragico conflitto. Eugenio Corti, sottotenente pattugliere del reggimento fanteria Pasubio durante la ritirata di Russia, racconta in queste pagine, con assoluta e lucida puntigliosità, tutti gli avvenimenti che scandirono le ventotto giornate, tra il dicembre 1942 e il gennaio 1943, in cui la sua divisione subì l’offensiva russa e fu costretta a ripiegare dal Don a Starobelsk. “In questo diario si riflette la fine del Trentacinquesimo corpo d’armata, uno dei tre corpi dell’armata italiana in Russia”: con queste scarne parole ha inizio il resoconto della strage che, dei 30.000 uomini accerchiati nella sacca sul fronte, ne risparmiò solo 4.000. Corti, allora ventunenne, una volta scampato a quella carneficina, scrisse le sue memorie in pochi mesi, mentre era ricoverato in un ospedale militare a Merano nel 1943: con l’intenzione di offrire una testimonianza, imparziale e fedele, di tutto ciò che aveva vissuto. Atti di eroismo e di disperazione, crudeltà e vigliaccherie, insubordinazioni e incapacità organizzative, sentimenti riprovevoli e generosità solidali: tutto ciò, insomma, che caratterizza l’agire umano nei momenti più terribili e pericolosi dell’esistenza. “La mia maggior preoccupazione fu di rispettare in tutto la verità: al punto di poter giurare sul contenuto non soltanto dell’insieme, ma di ogni singola frase”. Nessuna retorica patriottica, quindi, e nessuna autoindulgenza, ma uno sguardo severo e pietoso sulla Storia che travolge e corrompe storie e destini personali, distruggendo anime e corpi.

IBS, 7 agosto 2013

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COSENTINO

NICOLA H. COSENTINO, VITA E MORTE DELLE ARAGOSTE – VOLAND, ROMA 2017

Nicola Cosentino (1991), calabrese, si occupa come ricercatore di distopie contemporanee, scrive racconti e collabora al blog Minima&Moralia. Vita e morte delle aragoste è il suo secondo romanzo, ambientato tra la provincia calabrese e Roma, dove i due protagonisti (Antonio e Vincenzo, compagni di liceo), approdano con l’obiettivo di trovare un lavoro e qualche riscontro alle loro aspirazioni artistiche. Il libro è suddiviso in quindici episodi, sezioni di vita datate dal 2005 ad oggi: squarci di memorie, bozzetti descrittivi, brani diaristici e riflessioni che ripercorrono l’amicizia tra i due protagonisti, e la fedele, ammirata sudditanza dell’io narrante-Antonio alla figura di Vincenzo. «Ecco, quando ero con lui, anche se è difficile da spiegare, non mi sentivo affatto l’eroe della mia vita. Ero la spalla della sua». Le ombrose cotte liceali, con le stesse ragazze contese e poi cedute dal più remissivo al sempre-trionfante; i turbamenti inizialmente nascosti e poi virilmente esibiti dei primi approcci sessuali; le sbronze, gli scioperi a scuola e i volantinaggi; i viaggi all’estero e i lutti improvvisi; la disordinata convivenza a Roma per gli studi universitari; i rapporti problematici con i vicini e con i colleghi di lavoro, che finivano per cementare ulteriormente la loro solidale empatia. E poi letture e musiche condivise, gli esordi letterari, le collaborazioni alle riviste più trendy, sempre con il terrore di fallire: «Non sentirsi niente di speciale e pretendere di esserlo».

Due caratteri agli antipodi e tuttavia complementari: Antonio «giovane e placido appassionato di estetica editoriale», Vincenzo, sociologo «ragazzo di dettagli… non ha mai guardato tutto l’insieme ma la pagliuzza, la cornice, la pennellata, la filigrana, la firma, il fascio di luce, un seno scoperto. Ce l’aveva, questo talento. Questa percezione profonda per le cose del mondo», «Era un romantico insicuro, bisognoso di prove eclatanti e tauromachiche aspettative, tipo: questa è la volta della vita; è la ragazza più bella della scuola; è più talentuosa di me». La quasi simbiosi tra i due si spezza con il disincanto di un tradimento taciuto, e per la delusione di un futuro accarezzato rivelatosi deludente: al pari delle aragoste che non smettono mai di crescere, eppure finiscono per morire come qualsiasi sentimento o altra cosa vivente.

Attraverso una scrittura piacevole e garbatamente curata, Nicola Cosentino porge un omaggio affettuoso a una profonda amicizia e agli anni caotici, divertenti, carichi di speranze e illusioni di una “normale” formazione giovanile, vissuta senza particolari trasgressioni e ricordata con riconoscente nostalgia.

 

www.sololibri.net/Vita-morte-aragoste-Cosentino.html     28 settembre 2017

 

 

 

 

RECENSIONI

COSTANTINI

GIOVANNI COSTANTINI, ATTRAVERSANDO LA SENILITA’ – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2013

Giovanni Costantini è sacerdote da più di cinquant’anni, e ha insegnato al Seminario di Vicenza per nove lustri. Ma da più tempo ancora è poeta, avendo iniziato a scrivere versi da bambino, con passione indefessa e ordinata, con puntigliosa consapevolezza dell’originalità della sua voce.
Nel corso delle sue giornate, quando è libero dagli impegni presbiteriali o di comunità, prende appunti su tutto ciò che legge e impara dal mondo, catalogando il suo sapere in inflessibili schedari. Dopodiché compone le sue poesie: non edulcorate, retoriche o falsamente devote come quelle cui ci ha abituato tanta letteratura religiosa. I suoi versi sono duri, caleidoscopici, quasi apocalittici, mai consolatori: icastici e frantumati anche nella disposizione grafica sulla pagina, sfalsati sul rigo, punteggiati da lettere maiuscole persino all’interno delle parole. Ogni poesia è articolata in diversi brani e chiosata alla fine da didascalie esplicative. Perché si tratta di versi non facili, mai banali, che hanno portato Raffaele Crovi a definire don Costantini «il più grande poeta cattolico italiano».
Senz’altro un poeta vero, e diverso da tutti, che non si rifà ad alcuna tradizione novecentesca. Invece, leggendolo, vengono in mente i Salmi, i Profeti, per il vigore e la luminosità del suo dettato poetico, e per l’infiammata ispirazione che lo sostiene. Quindi, Sacerdos in aeternum, lontano da qualsiasi annacquamento della fede, incastonato pervicacemente nei due millenni della Chiesa, pastore e gregge, ministro e popolo: vocatus da un Dio potente e magnanimo, non solo a una missione clericale, bensì a un compito ancora più esaltante e impegnativo. Cantore della divinità, di Colui che chiama- con termine dedotto dal profeta Daniele, e ripreso da Dionigi Areopagita nelle sue invocazioni- «l’Antico dei Giorni».
Perciò anche Poeta in aeternum, poeta innamorato della Parola, interprete che si muove tra invenzioni linguistiche azzardate e neologismi spiazzanti, in una visionarietà che si avvicina e supera spesso quella dei più infuocati mistici medievali. E come sa leggere la sua poesia, con quale spaventosa forza interpretativa, che quasi intimidisce chi l’ascolta!
In questo libro (delle decine che ha composto, quasi tutti inediti, o pubblicati in tirature limitate) il tema affrontato non è propriamente religioso, ma in qualche modo rimane un tema sacro: la vecchiaia, gli anni ultimi, con le loro miserie e la loro gloria, in una sorta di De Senectute meno apologetica, anzi talvolta crudele ed esasperata. Sono sei capitoli, che segnano un crescendo di significato, dal disfacimento del corpo a una serena accettazione del declino verso la morte, questa «Signora grigia». Niente di più distante dall’età «mollem etiam et iucundam» di ciceroniana memoria, ma semmai, sempre per dirlo con le parole dell’arpinate, «onus Aetna gravius»…
Senectus ipsa morbum, quindi, peso gravoso, a volte repellente, che il poeta Costantini non fa nulla per edulcorare, profumare, relativizzare. La vecchiaia è l’anticamera della morte, qualcosa che ci aspetta tutti e che ci rende menomati, inabili fisicamente, tardi psichicamente, spesso sterili nei sentimenti: Peso a se stessi, come nella prima sezione, in cui è più evidente e penoso il crollo del corpo («sulle ginocchia contorte come pruni», «e le mani si artigliano in silenzio», «dall’obesità si acciabatta dovunque», «d’un solo dente e le gengive a fosse», «S’inunghia in lerce lunule. / La pelle delle mani / a rinsecchirsi. / Via via s’invetra», «Per midolli riarsi / in ossi rosi», «Raffreddandosi adagio: / invetriato nella propria colla», «nella seconda e lenta bavosità».) Sono versi inclementi, spietati, che non ammettono morbidezze diplomatiche. Il vecchio «ingobba», «si rattrappisce», per cui alla fine «Lo inlettano: fagotto / che bofonchia e più stronfia / contro le sponde / a un vaporar di biacca».
La seconda e terza sezione della raccolta sono, se possibile, ancora più feroci, perché descrivono la realtà odiosa degli anziani malsopportati nell’ospizio o a casa. E lo fanno talvolta con macabra ironia, addolorato sarcasmo: «Là se ne sta, / polsi dietro la schiena, / ed altro non gli tocca che guardare», «E le vecchie da aiuti infumiganti / vengono sciacallate / per avarizie vili, morso a morso», «E continua a parlare, / a pronunciare quello che le sguscia / dalla testa decrepita», «Oggi il progresso, con l’antilingua sua, / case-alberghi le chiama. / E nel mangiare muto / soltanto lo stonare dei cucchiai». Infermieri, parenti e volontari assistono come possono, spesso controvoglia o per un malinteso senso del dovere: «gli interi sindacalizzati / si sentono al sicuro da qualunque eroismo», «Infermiere che sbagliano dentiere», «intolleranza d’infermiere / che traleggono farmaci scaduti, / ansiose d’una rapida agonia».
Il poeta e sacerdote si commuove nel seguire l’anziana che al ricovero sbaglia stanza, aspetta la visita dei nipotini, o i coniugi che si fanno compagnia fino all’ultimo respiro e poi sconsolati si lasciano morire. Sorride al ricordo di un’ottuagenaria che si innamora del suo medico, confondendolo con il fidanzato di settant’anni prima. O ancora ironizza sui vecchi che si imbellettano ridicoli per mascherare l’età, o si prestano ai media ringalluzziti da una parvenza di successo: «Oh qualcuno s’illude di servire, / che so, al mercato della pubblicità. / Rampante a sabbiature / o, almeno, d’una colla per dentiere».
Lo «spensiero debole» dell’odierna civiltà dei consumi sfrutta i corpi e le anime fino a un’indecorosa solitudine pre-morte («Negli Usa e getta / settantamila abbandonati l’anno», «Più questo mondo d’atei / gli rifiuta la Pietas degli Antichi Pagani»). Oppure la «nuova Gerontocrazia» insegue il mercato delle Pantere Grigie con proposte indecorose di viaggi e divertimenti adolescenziali, o proponendo «farmaci / che illudono al durare / dell’eros quei decrepiti: /spettacolo penoso».
Cosa rimane a questo punto, per non atrofizzare del tutto l’umanità che ci resta a disposizione, per recuperare un rispetto e una solidarietà troppo spesso sviliti e calpestati di fronte alla debolezza del senescente? Aiutarli a risvegliarsi,  Ringiovanire, propone il poeta, esorcizzare la vecchiaia recuperandone la dolcezza e armonia: «La libertà verace di dedicarsi / al pensare prudente», rincorrendo «la verità struggente / del ricordare… / lungo i sentieri della curiosità / di sua trepida infanzia».
E l’esortazione che ne deriva è vitale, concreta: «Non elogiare quei bei tempi andati; / il presente è il tuo tempo, / stolto che ti martelli nell’inerzia», «Sgàngati alla ventura / d’ogni giorno donato».
Il  Viaticum dalla vita è, nell’ultima sezione del volume, un discreto e saggio accompagnare i giorni dell’ombra verso il declino finale: «Qualsiasi senescenza / sprofonda adagio, d’occhi cimiteriali / che imbuiano più fissi». Accettare, quindi, che la ruota giri per tutti, lasciare posto ad altri che verranno ad occupare il nostro posto, senza assurde ribellioni o poco dignitosi infingimenti.
I versi qui assumono una sentenziosità proverbiale, gnomica: «Stolta la voglia di restare giovani / e vani gli esorcismi contro il morire». E l’ uomo di Dio fa sentire la sua voce più potente e pregna di fede : «L’arte dell’adattarsi a quel che accade, / perché vi è la fessura / per cui l’Eterno irrompe… // Rassegnarsi a invecchiare: / l’unica strada per un cammino lungo / fino a varcare / esattamente all’Oltre», «Con te, Sposo, Volatile / lo Spirito s’inAngela un istante».
Il lettore si sarà accorto e avrà apprezzato il linguaggio poetico di don Giovanni Costantini, così coraggiosamente innovativo e inventivo, quasi privo di rime -considerate espediente letterario troppo facile e abusato – ma ricco di neologismi, di vocaboli volutamente storpiati o desueti, a rincorrere un senso più profondo della parola, volta a sferzare occhi e orecchi abitudinari e pigri, a pungolare un interesse troppo spesso scialbo e viziato dalla consuetudine in chi si confronta con la poesia.
E avrà modo, leggendo questo libro così compatto e coerente, di riconoscere un poeta importante e purtroppo sottovalutato, che oltre ad una consistente operazione di novità nel linguaggio, propone contenuti di solida rilevanza, con voce cristiana di antica pietà , facendo eco al Salmo 92 : «Nella vecchiaia daranno ancora frutti».

 

Prefazione al volume

RECENSIONI

COTTAFAVI

CECILIA COTTAFAVI, A QUALCUNO PIACE IL VINTAGE  – BOOKABOOK, MILANO 2021

Cecilia Cottafavi è una venticinquenne di Milano con la passione del vintage, che ha saputo trasformare questo suo interesse in un’attività lavorativa (creando un team con un proprio blog “www.maertensmilano.com”), e in un libro: A qualcuno piace il vintage, edito da Bookabook lo scorso   anno.

Dal primo approccio adolescenziale alla moda anni ’70, vissuto con un esitante desiderio di trasgressione e di non omologazione, Cecilia dopo il liceo ha sviluppato una consapevolezza ideologica che l’ha portata ad approfondire la storia del vintage anche dal punto di vista del mercato finanziario, della sostenibilità ambientale e dello sfruttamento dei lavoratori tessili nel Terzo Mondo. Se il suo libro è pensato soprattutto per un pubblico milanese, nel blog offre alcune mappe e percorsi di negozi in altre città italiane ed europee, dato che proprio nei paesi nordici è nata, si è sviluppata e diffusa capillarmente la tendenza di vendere ed acquistare l’usato.

Nel volume illustrato, la dettagliata introduzione si sofferma sulla definizione di vintage, che va riferita a capi di vestiario o a oggetti creati almeno una ventina di anni fa, mentre per second hand si considerano gli articoli acquistati e rivenduti nell’arco di poco tempo, dopo un evidente utilizzo o consumo. Viene spiegata la differenza tra charity shop, thrift store e vintage shop, dove il primo termine indica un’attività di raccolta e vendita a scopo benefico, senza fini di lucro, il secondo si riferisce a “esercizi commerciali delle occasioni/degli affari” con fascia di prezzo bassa, e il terzo al negozio che vende articoli realmente vintage. Si approfondiscono poi i significati di terminologie affini a questo tipo di attività: customizzare un capo significa apportargli delle modifiche, personalizzarlo tramite disegni, tagli, ornamenti vari; il “conto vendita” è il metodo piuttosto diffuso con cui i privati possono portare il proprio usato al negozio, ottenendo il 50% del prezzo di vendita; il vintage washing è la deprecabile pratica attraverso cui alcuni marchi fast fashion imitano i prodotti vintage servendosi di materiale più scadente; fare decluttering è la sana e consigliabile abitudine di creare spazio, eliminando ciò che non serve più attraverso donazioni, scambi, regali.

La parte che risulta più interessante agli acquirenti del vintage, è la guida vera e propria ai numerosi negozi di Milano, concentrati per lo più in tre zone (Navigli e Colonne di San Lorenzo, Brera, Centro Duomo-San Babila). Dopo aver catalogato per sesso, stile e disponibilità economica tre differenti categorie di clienti in cui rispecchiarsi per trovare il negozio più adatto al  proprio carattere  e portafoglio, si elencano non solo negozi di abbigliamento (con indirizzo, orari, telefono, mail, Instagram, genere di articoli e fasce di prezzo), ma anche rivendite, botteghe, magazzini, empori che commerciano vinili e dvd, libri, mobili, occhiali, accessori, tessuti, giocattoli, poster, strumenti musicali, e poi bar, ristoranti, gelaterie, pasticcerie dall’arredamento e dai prodotti d’antan.

Cecilia si prodiga anche in consigli per gli acquisti; misurare bene la taglia, controllare eventuali difetti o macchie, confrontare i prezzi, esaminare le etichette. Inoltre, redigendo un cospicuo indirizzario di negozi vintage online, spiega come pubblicizzare i propri prodotti, come fotografarli, spedirli e contrattare sul prezzo.

Insomma, un vero e proprio invito al riciclaggio di ciò che si possiede, ricordando il memento della giornalista britannica Lucy Siegle: “Fast fashion isn’t free. Someone, somewhere is paying”, perché non è tutto oro quello che luccica, e aldilà delle vetrine più lussuose esistono altre realtà da tenere in considerazione.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 11 dicembre 2022