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RECENSIONI

CVETAEVA

MARINA CVETAEVA, A RAINER MARIA RILKE NELLE SUE MANI – PASSIGLI, FIRENZE 2012

Chi ama la poesia non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo libro, che raccoglie testimonianze del rapporto che ha unito due tra i maggiori scrittori della prima metà del 900: Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke. Che non si sono mai conosciuti personalmente, ma che – come succede alle grandi anime- hanno saputo incontrarsi e arricchirsi spiritualmente sia nel rapporto epistolare sia nella lettura reciproca e ammirata della loro produzione poetica. Boris Pasternak, amico di entrambi, favorì la loro conoscenza, invitando Rilke a spedire alla Cvataeva i suoi libri nel maggio del 26: i due si scambiarono in pochi mesi quindici lettere in tedesco («vertigini liriche, dove c’è spazio per l’intesa totale», scrive la curatrice del volume Marilena Rea), fino alla morte di lui, avvenuta per leucemia in un sanatorio svizzero il 29 dicembre dello stesso anno. Il baratro che questo lutto provocò nei cuori e nei pensieri della poetessa russa, il suo sentirsi improvvisamente orfana e vedova di un’amicizia straordinaria ed esaltante, trovò una sua consolante espressione in una «potente ondata creativa», concretizzatasi nella realizzazione di due poemi (Lettera per l’anno nuovo e Poema dell’aria) e nella prosa di La tua morte, tutti composti nei primi mesi del 1927.
Come trovare riparo al dolore, come recuperare memoria e speranza, se non nella composta bellezza dei versi? «Bisognerà pure avere altro: altalena, ramo, / cavallo, fune – salto // più in alto!» , e ancora: «All’estremo scadere del tempo / ci sarò io- occhio di chiarore», scriveva Marina in una profetica e preveggente illuminazione poetica, appena iniziata la corrispondenza con Rilke. E poi, dopo averlo perso: «Se lo sguardo tuo s’è fatto notte / allora la vita non è vita, la morte non è morte», «Buon luogo nuovo, Rainer, azzurro, Rainer!», «Gloria a te che la breccia / hai aperto: più non peso».
Marina Cvetaeva si uccise nel 1941.

 

«Leggere Donna» n.157, dicembre 2012

RECENSIONI

CVETAEVA

MARINA CVETAEVA, SETTE POEMI – EINAUDI, TORINO 2019

Introdotti da un accurato e appassionato saggio della curatrice Paola Ferretti, sono da poco usciti per Einaudi Sette Poemi di Marina Cvetaeva, che la poetessa compose durante i primi anni del suo esilio dalla Russia. La scelta di oltrepassare la misura ristretta della lirica breve, fu determinata dall’esigenza di arricchire la materia del suo canto attraverso l’esplorazione temporale del passato (con apporti di temi folkloristici e fiabeschi), del presente (traendo spunto dalla cronaca caotica, febbrile e violenta di quegli anni), e di un futuro proiettato in una visione più utopica e spirituale. Il filo collante che aggrega i vari motivi presenti nelle sette composizioni è comunque quello della ossessione amorosa, talvolta più pensata che vissuta, più desiderata che osata, come nel rapporto intenso con Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, o con altri giovani letterati, entusiasticamente idealizzati. Sullo sfondo di questo sentimento dominante risalta la presenza fisica degli ambienti, quelli naturali (la montagna, il mare, l’aria, il cosmo) e quelli urbani e domestici (le scale, le stanze).

«Con dirupi e tornanti si avventava / di sotto ai piedi, la Montagna. // Con fiere grinfie di titano / ‒ con le conifere, gli arbusti ‒ / l’orlo arpionava, la Montagna», «Coralli di granchi, leggi: gusci. / Gioca il mare, chi gioca – è grullo. // … Giochiamo, allora / a conchiglie», «Dalle imposte verrà l’indizio? / Stanza allestita a precipizio, / sul fondo grigio – bianco sporco, / stanza minuta, stanza brogliaccio», «Scaffale? Caso. Stampella? Caso. / Caso pure quello spauracchio / di poltrona. Sterpume e seccume ‒ / bosco d’ottobre bello e buono!».

Come si evince dai versi riportati, il tono di questi poemi è concitato, esaltato, oracolare e insieme frantumato in un respiro ansioso, sottolineato dai continui punti interrogativi ed esclamativi, quasi la poetessa cercasse in sé e in chi legge o ascolta conferme e risposte a domande lanciate nel vuoto, con la speranza di una realizzazione del desiderio o con l’angoscia di una sofferenza inutilmente repressa. Esponente di spicco del simbolismo russo, in un primo momento vicina all’energica oratoria di Majakovskij, poi rivolta a una riflessione più controllata ma sempre audacemente innovativa, Marina Cvetaeva utilizzò nei Poemi un linguaggio di grande forza espressiva, basato sull’uso della metafora, della ripetizione e della negazione, con un’originale e accorta attenzione agli effetti fonici e all’ordito sonoro dei versi, all’impiego di rime provocatoriamente facili e di costruzioni sintattiche disorientanti.

Nata a Mosca nel 1892, figlia di un filologo e di una musicista, crebbe in un ambiente colto e raffinato, iniziando prestissimo a scrivere versi. Nel 1911 sposò uno studente di filosofia, Sergej Efron, che arruolatosi allo scoppio della rivoluzione nella Guardia Bianca, fu in seguito coinvolto in atti di terrorismo, per venire infine imprigionato e fucilato come traditore nel 1941. Con il marito e i figli era emigrata dapprima a Praga, quindi a Berlino e a Parigi, per poi tornare in Unione Sovietica nel 1939. Qui visse per altri due anni tormentata da problemi economici, dalla censura stalinista e dall’ostilità degli intellettuali di regime: difficoltà dolorose che la indussero a togliersi la vita, impiccandosi il 31 agosto 1941 all’ingresso dell’izba che aveva affittato nel villaggio di Elabuga. Nel suo Poema della fine si avvertiva già il presentimento della morte ineluttabile e liberatoria: «Casa, ovvero; da casa via, / dentro la notte. / (A chi dirò / la mia mestizia, la sventura, / l’orrore, più che gelo verde? … )  // … Non si deve, dunque. / Non si deve, allora. / Piangere non si deve. // … Con cocente sangue / si paga – non si piange. // … Il corpo c’era, vivere voleva. / Non vuole vivere, ora. // … E via, dentro i flutti cavi / di tenebra – cadenzato, ricurvo ‒ / senza far motto, senza scia – / come affonda un vascello».

Così scrive Paola Ferretti nell’importante introduzione a questo volume di Marina Cvetaeva, «I Poemi degli anni Venti traboccano di reciproche risonanze, vibrano degli stessi, elettrici impulsi, dominati come sono dalla volontà di oltrepassare le barriere della finzione per generare accadimenti e incontri palpabili, porre riparo a eventi già occorsi, istituire orizzonti inediti».

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Sette-poemi-Cvetaeva.html       3 maggio 2019

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D’ARZO

SILVIO D’ARZO, CASA D’ALTRI – GARZANTI, MILANO 2023

In questi primi quattro mesi del 2023, sei case editrici italiane hanno ripubblicato Casa d’altri di Silvio D’Arzo: Feltrinelli, Rea, StreetLab, Garzanti, Alter Ego, Gilgamesh. Come mai tanto interesse per un testo di settant’anni fa? Perché si tratta di uno dei racconti più belli del nostro Novecento, definito da Montale “perfetto”, sospeso tra liricità e costruzione romanzesca, e ancora oggi apprezzato dai critici per lo stile sobrio e curato, e perché pur nell’esilità della trama riesce a tratteggiare con maestria lo sfondo naturale in cui si muovono sia i due protagonisti sia la comunità circostante.

Silvio D’Arzo (Reggio Emilia 1920-1952), pseudonimo di Ezio Comparoni, pubblicò in vita un romanzo e molti racconti su riviste, ma non fece in tempo a vedere stampato questo suo capolavoro, il cui primo nucleo compositivo risale al 1948. Rifiutato da Bompiani, Einaudi, Vallecchi, fu infine accettato da Sansoni nel 1953, grazie all’interessamento di Giorgio Bassani.

Ambientato nel paesino di Montelice sull’Appennino emiliano (poche case sparse sulle pendici della montagna, collegate da un’unica strada impervia che si arrampica tra i boschi e un torrente), il racconto si svolge in un periodo indeterminato del secondo dopoguerra, mantenendo però tracce di usanze molto più arcaiche. D’Arzo è attento a rendere l’atmosfera cupa che domina gli scarsi eventi narrati, utilizzando i fenomeni atmosferici e i colori di cui si riveste la natura: “Tutto il giorno era piovuto e piovuto come capita solo da noi… I fossi erano già grigi di acqua, il canale era in piena, dalle gronde rotte l’acqua cadeva a gomitoli, e non una gallina od un cane o una talpa dalla piazzetta fino in fondo alla valle…  L’aria cominciava a farsi color neve sporca e le case all’intorno erano più livide e fredde del sasso. Per le strade non c’era nessuno… Adesso era uscita la luna: ma c’era così freddo all’intorno che pareva rabbrividire anche lei… L’aria intorno era viola, e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti…anche i sassi a quell’ora eran tristi, e l’erba, ormai di un color quasi viola, era ancora più triste… I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu…”. Le connotazioni paesaggistiche sono sparse simmetricamente e ripetute nelle pagine, così come succede con alcune cadenze dei dialoghi e dei soliloqui, e come le due scene di funerali che aprono e chiudono il testo.

Pioggia, neve, aria e acque torbide. In questo panorama avvilito e deprimente si muove la figura massiccia del protagonista, un parroco sessantenne ormai del tutto assimilato al territorio, che trascina le sue giornate e i suoi uffici tra riti stanchi e una fede vacillante.

In tale modo ne parla a un giovane sacerdote venuto a fargli visita, predicendogli a ragione un futuro di rassegnazione simile al suo: “«E che cosa succede?» mi chiese unicamente per educazione. «Niente, v’ho detto. Non succede niente di niente», cercai di rifarmi. «Solo che nevica e piove. Nevica e piove e niente altro… E la gente – conclusi – se ne sta giù nelle stalle a guardare la pioggia e la neve. Come i muli e le capre»”.

Muli, capre, cani, mucche. Uomini che portano le bestie al pascolo la mattina e rientrano tardi la sera, donne rinsecchite che lavorano nelle stalle o vanno a raccogliere la legna, ragazzini che si divertono facendo i dispetti fuori dalla chiesa. Ecco che però qualcosa accade, improvvisamente. Il parroco aveva osservato in più occasioni una vecchia lavare i panni nel canale: “E lei sempre laggiù, china sopra i lastroni di pietra. Affondava nell’acqua gli stracci, li torceva, sbatteva e via ancora. E senza fretta o lentezza. Così: e senza mai alzare la testa”. Una sera l’anziana lavandaia si presenta in canonica, e gli pone timidamente, quasi vergognandosi, una domanda sulla possibilità che la Chiesa ammetta e perdoni, in casi eccezionali, una grave colpa, un peccato mortale, come ad esempio la rottura del matrimonio. Il prete intuisce che la richiesta della donna nasconde una diversa verità, forse una innominabile sofferenza, ma non riesce a scalfire ulteriormente il riserbo di lei.

Per mesi l’incontro tra i due non si ripete. Il sacerdote continua a vedere l’anziana lavare i panni nell’acqua gelida, sempre più affaticata e scontrosa, e cerca di informarsi su chi sia. Scopre che si chiama Zelinda Icci e, arrivata da poco in paese, vive con la sua capra in una baracca fuori dall’abitato, come “un uccello sbrancato”. Tenta ancora di avvicinarla, confessando però a sé stesso la propria inadeguatezza davanti al dolore altrui: “Ormai io ero un prete da sagre: ero un prete da sagre e nient’altro… Sagre, olii santi, un matrimonio alla buona, ecco il mio pane oramai… E pensai a quel che invece ero a vent’anni, quando leggevo di tutto, e nel Seminario per giunta mi chiamavano il Doctor Ironicus”.

La vecchia si fa viva una seconda volta, portando in parrocchia una lettera che subito dopo torna a ritirare, pentita. A questo punto una spiegazione diventa più urgente e necessaria, e il suo antagonista, reso inquieto dallo strano comportamento di lei, la affronta, esigendo un chiarimento.

Non rivelerò il segreto che l’anziana lavandaia confida all’uomo di Dio, ma invito chi mi legge a trovarlo nelle pagine di Silvio D’Arzo, il quale merita almeno il nostro ricordo, perché se non avesse avuto la sfortuna (tra tante altre) di morire a trentadue anni di leucemia, sarebbe probabilmente diventato uno dei nostri maggiori scrittori novecenteschi. Dirò solo che il titolo Casa d’altri, adombra l’inappartenenza, l’estraneità di entrambi i protagonisti alla vita e alla Chiesa, precari inquilini di un’esistenza appena tollerata, come ribadisce la frase conclusiva pronunciata dal parroco: “Allora mi vien sempre di più da pensare ch’è ormai ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d’avere anche il biglietto. Tutto questo è piuttosto monotono, no?”

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 19 aprile 2023

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D’ELIA

GIANNI D’ELIA, FIORI DEL MARE – EINAUDI, TORINO 2015

Tredici “sale” in cui il pesarese Gianni D’Elia racconta in Fiori del mare: «Nature morte e schizzi / Ritratti e paesaggi / La Riviera dei vizi / E dei mille miraggi»; la sua terra, quindi, com’era nella sua infanzia e com’è adesso, «Tra l’ultimo ventennio / Del fosco Novecento / E il gran fuoco d’incendio / Del Terzo Millennio».

Sempre obbedendo al severo richiamo etico e politico che ha contraddistinto la sua poesia dagli esordi, ma ora forse maggiormente attento a sfumature più elegiache e descrittive: «qui, dove il mare steso un panno azzurro / sbatte a un filo”; “alla finestra tetti imbiancati, / un plumbeo cielo tacito sui viali…». Amici, amori, spiagge, prati; ma anche capannoni dismessi, inquinamento, droga, migranti e barboni, comunismo dimenticato e fascismo strisciante: «La circonvallazione industriale, / le rotatorie al posto dei semafori; quelli che senza affitto e senza paga / s’accucciano in cartoni, stracci storti…; Le ragazzine rom urtano i pasti, / le sieste delle belle e riunte spose, / gli yacht alla fonda e i grandiosi fasti / degli ebbri ricchi e delle troie in pose…; Bisca, bordello, pappatoia, alcova / la gente della notte va all’assedio».

Risentita coscienza civile che sembra cercare una sponda rigorosa nelle scelte formali, reiterate ossessivamente, quasi manieristicamente, per tutto il volume: quartine in metrica varia, dagli endecasillabi ai senari, con rime musicalmente ridondanti, e l’uso retorico dei tre puntini di sospensione finali (molto utilizzato da un altro poeta marchigiano, De Signoribus : entrambi memori forse della lezione di Holan). In uno stile che ricorda – più dei maestri citati in quarta di copertina, Leopardi e Saba – molti versi di Giudici («Ventre lucente / d’amata spuma, / cresta ridente, / mia marea bruna…» non ci riporta forse a «Pancia -sulla quale / poso la guancia //…Letto di piume / al mio fiume»?
Così numerose immagini di mare e adolescenza paiono inserite nel solco tracciato da Caproni, da Penna: poeti della tenerezza.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Fiori-del-mare-Gianni-D-Elia.html           7 gennaio 2016

 

RECENSIONI

D’ELIA

GIANNI D’ELIA, 1977 – SIGISMUNDUS, ASCOLI PICENO 2011

Ha senso ripubblicare oggi un testo uscito nel 1986, e ripubblicarlo esattamente com’è stato scritto allora, con l’uguale prefazione di Roberto Roversi? Non pare aver avuto dubbi in proposito Gianni D’Elia, uno dei nostri poeti più noti, che ripropone questo “1977“, “non una prosa… ma un poema. Poema a diario o epistolare, che sembra non finire mai e procedere più per grida che per sussulti…”: con un prefatore che si interroga sul valore letterario dell’opera (“un poco appare… perfino tedioso… Perché la vicenda è monocorde…  produce senz’altro un senso di oppressione affatto liberatoria…”). Sono lettere, sfoghi, appunti, meditazioni, dichiarazioni d’amore che il protagonista invia a una lei forse amata e desiderata, forse solo complice di letture e passioni intellettuali: mai interrotte da alcun segno di punteggiatura, a seguire un flusso di pensiero ossessivo, allucinato, morboso, che pedina ogni involuzione e sobbalzo della mente, scruta e palpeggia tutti i sintomi di eventuali malattie mortali, commenta libri e film più con disappunto che con passione, viaggia inseguito da una perenne ansia tra Roma, Bologna, Parigi e la provincia natale. Il lui narrante è un trentenne che fa il praticante in uno studio legale, ma vorrebbe cambiare lavoro, sogna di scrivere e trascorre i giorni in osmosi con suoi personaggi mentali di un mai concluso romanzo e film, vive in una petulante e mal sopportata famiglia piccolo borghese, medita con fastidio sulla banalità della politica nazionale, sognando improbabili rivoluzioni popolari. “1977” è il diario di quattro mesi autunnali di quell’anno fatidico, con i protagonisti della cultura e del sociale di allora, un libro che narra “un corpo né troppo sesso né troppa violenza un po’ di morte tanta in divenire la crisi esistenziale di un io politico che si ammala di poesia se questa è davvero una trappola…”. Anni-trappole di paura e di disperazione, quelli: e un eroe malato di incubi e disillusione, da non rimpiangere.

IBS, 14 giugno 2011

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D’HOLBACH

PAUL H.D. d’HOLBACH, SAGGIO SULL’ARTE DI STRISCIARE – IL NUOVO MELANGOLO, GENOVA 2009

 

Dieci paginette circa, suddivise in altrettanti paragrafi, costituiscono questa Facezia filosofica tratta dai manoscritti del defunto barone d’Holbach (come recita il sottotitolo). Il titolo del breve trattato suona invece nella sua interezza così: Saggio sull’arte di strisciare. Ad uso dei Cortigiani.

L’autore è Paul H.D. d’Holbach (1723-1789), sulla cui esistenza ci ragguaglia la nota biografica a conclusione del volumetto, curata da Francesco Chiossone. D’Holbach era nato da una famiglia piccolo borghese nello stato tedesco del Palatinato, aveva ereditato il titolo nobiliare da uno zio, aveva studiato all’università olandese di Leida e si era quindi trasferito a Parigi, naturalizzandosi francese. Amico di Diderot, aveva collaborato alla stesura di alcune voci dell’Enciclopedia. Dopo la morte precoce dell’amatissima prima moglie, si votò a un convinto ateismo, e a un conseguente anticlericalismo, in ossequio alla sua fede illuministica. Nel 1766 scrisse Il Cristianesimo svelato, un radicale attacco alla religione, considerata un ostacolo al pieno e libero dispiegarsi della ragione. Convinto che potere religioso e potere politico costituiscano il fondamento di ogni assolutismo, pubblicò numerosi libelli polemici, affermando che la Chiesa derivava il suo ascendente sul popolo dal sostegno delle varie monarchie (“Senza Costantino, Gesù Cristo sulla terra avrebbe fatto un’assai magra figura”). La sua opera fondamentale fu il Sistema della natura, condannata al rogo perché esprimeva una visione del mondo totalmente materialistica a atea, basata su tesi scientifiche che escludevano qualsiasi ipotesi creazionista e finalistica della vita. In tarda età, gli interessi del barone d’Holbach si rivolsero soprattutto a temi etici e politici, alla promozione di ideologie progressiste di rinnovamento sociale, sempre nella prospettiva di una maggiore libertà dalle superstizioni e laicità di pensiero.

Questa lunga premessa biografica per introdurre il saggio di cui ci occupiamo, uscito postumo, animato soprattutto da un intento satirico nei confronti dei lacchè che popolavano la Corte francese, nutrendo ambizioni economiche e di potere, e macchiandosi di varie colpe, tradimenti, meschinità, sotterfugi, adulazioni e adescamenti puri di ottenere i loro scopi.

“Cortigiani vil razza dannata”, canta Rigoletto, esprimendo così una verità universale ed eterna, che riguarda tutte le anticamere di tutti i palazzi, i parlamenti, le basiliche del mondo. d’Holbach esprime tutto il suo disprezzo verso la cortigianeria in maniera intelligentemente subdola, offrendo ironicamente i suoi consigli su come strisciare al cospetto dei potenti.

Eccone un florilegio, nella traduzione di Emanuela Schiano di Pepe:

“L’uomo di Corte è senz’ombra di dubbio il prodotto più bizzarro di cui dispone la specie umana. Si tratta di un animale anfibio, che spesso assomma in sé ogni sorta di contraddizione… Infatti un cortigiano è a volte insolente e a volte vile; può dar prova della più squallida avarizia e della più insaziabile avidità così come di un’estrema magnanimità, di una grande audacia come di una codardia vergognosa, di un’impertinente arroganza e della correttezza più calcolata… Il cortigiano ben educato deve avere uno stomaco tanto forte da digerire tutti gli affronti che il suo padrone vorrà infliggergli… Per vivere a corte è necessario un dominio assoluto dei muscoli facciali, al fine di ricevere senza batter ciglio le peggiori mortificazioni…  Il cortigiano deve ingegnarsi per essere affabile, affettuoso ed educato con tutti coloro che possono aiutarlo o nuocergli; deve mostrarsi arrogante soltanto con chi non gli serve a niente…  Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale, ma solamente quella del padrone o del ministro… Un buon cortigiano non deve mai avere ragione, non è in nessun caso autorizzato ad essere più brillante del suo padrone… deve tenere ben presente che il Sovrano e più in generale l’uomo che sta al comando non ha mai torto. […] La nobile arte del cortigiano, l’oggetto essenziale della sua cura, consiste nel tenersi informato sulle passioni e i vizi del padrone… Gli piacciono le donne? Bisogna procurargliene. È devoto? Bisogna diventarlo o fare l’ipocrita. È di temperamento ombroso? Bisogna instillargli sospetti riguardo a tutti coloro che lo circondano… La vita del cortigiano è un perpetuo impegno”.

 

© Riproduzione riservata       3 febbraio 2020

https://www.sololibri.net/Saggio-sull-arte-di-strisciare-Thiry-d-Holbach.html

 

 

RECENSIONI

DABISHEVCI

DONIKA DABISHEVCI, LA TUA ROBINJA – ENSEMBLE EDIZIONI, ROMA 2017 (e-book)

Donika Dabishevci è una poetessa kosovara nata nel 1980 a Pristina. Laureata in letteratura albanese, nel 2013 ha conseguito un dottorato all’Università di Tirana. Autrice di tre raccolte poetiche, lavora oggi come docente universitaria nella sua città natale. La tua robinja, a cura di Gëzim Hajdari, raccoglie 47 poesie erotiche scritte nel dialetto gegë dell’Albania del Nord: la casa editrice romana Ensemble ha pubblicato questo suo primo libro in italiano, con testo a fronte.

Nei suoi versi Donika celebra l’amore fisico vissuto con prepotenza e assoluta veridicità, senza scadere mai in una terminologia volgare, ma assorbendo atmosfere classiche e orientali. C’è, ad esempio, tutta l’eredità di Saffo in questo componimento: “Sento il tuo profumo, il mio corpo trema, la mia anima sussulta, non tardare a venire, la mia anima si spezzerà se non mi raggiungerai, più forte della morte è il mio desiderio per te”, e suggestioni arabeggianti affiorano nella vaghezza di questi altri versi: “Voglio essere un frutto maturo del tuo giardino, un frutto radioso che gioisce di cadere nelle tue mani al volo, il tuo morso brezza e coltello nel cuore”.

Il dono di sé all’amato diventa preghiera e insieme imperativo, voce di donna che non conosce esitazioni o pudori nel darsi, celebrazione di vita e vagheggiamento di morte, in una danza folle di Eros e Thanatos, come suggerisce il prefatore: “Non vedi le mie labbra rosse? Appaga la mia sete”, “Ti donerò respiro, ti donerò anima, ti donerò vita, a te, che tacci come un sasso, io, creatura di luce”.

Risuonano evidenti anche echi catulliani, non solo del celeberrimo Odi et amo (“Ti amo e ti odio”), ma anche dell’emozione divorante che impedisce qualsiasi altro appagamento fisico “ho perso il sonno, inseguo nella notte le rosse orme dei sogni”, “L’anima mi duole, nella mia pelle spine, non dormo”. La fisicità esplicita del desiderio ricorda in alcune espressioni la nostra Alda Merini (“Vieni, prendimi, toccami, amami, fammi impazzire, entra dove sai entrare”, “Sei il mio signore senza le briglia, e io fremo di desiderio, non temo nulla in questa vita vuota, toccami, niente parole”, “Voglio che tu sia maschio, senza veli sul corpo, che mi scavi a fondo, giunco incendiato che si scioglie nelle mie acque”, “Il mio fuoco trasformerà in cenere e fiamme ogni tuo desiderio, sono pronta a incendiarti, come una belva feroce e docile ti donerò segni di ferite”).

Solo dagli anni ’90 in Albania i letterati hanno potuto esprimere più liberamente e senza censure la loro sensualità: durante la dittatura di Enver Hoxha erano vietati i temi più schiettamente biografici e individualisti, o altri di ispirazione metafisica e spirituale, ritenuti espressione della morale e dell’estetica borghese dell’Occidente capitalista; gli autori venivano esortati a essere “l’occhio, l’orecchio e la voce della classe proletaria”, secondo un famoso slogan del Partito Comunista.

Donika descrive se stessa come dispensatrice di luce, di vitalità, di gioia, di fronte al suo uomo spesso irrigidito in un inerte timore o nell’egoistica indifferenza che lo rende insensibile e codardo. Entrambi si salveranno solo lasciandosi trasformare nella bellezza eterna degli elementi naturali, foglie-erba-fiori-nuvole-ruscelli, e fondendosi con il tutto: “Luna e sole diverrò”, “Un giorno, tu e io, non ci saremo in questo verde, ci dissolveremo nel vuoto del tempo. Tu diverrai una palude, io una lava vulcanica, tu, un torrente infuriato, io una scia di luce di arcobaleni e pioggia”. Il titolo stesso della raccolta si riferisce alla leggenda che riteneva Robinia una fanciulla-trofeo per i guerrieri vittoriosi in guerra: (“Sono la tua robinja folle di te mio signore”). Di una tale esaltazione amorosa, anche le divinità saranno gelose, secondo la più classica delle tradizioni mitologiche: “che dio possa vedermi crepando di invidia e morire per la disperazione. Oi, oi, oi…”.

 

© Riproduzione riservata     https://www.sololibri.net/La-tua-robinja-Dabishevci.html     11 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DABROWSKA

KRYSTYNA DĄBROWSKA, LA FACCIA DEL MIO VICINO  – VALIGIE ROSSE, VECCHIANO (PI), 2017

La poetessa polacca Krystyna Dąbrowska (1979) ha pubblicato diverse raccolte di poesie, tradotte in molte lingue e insignite di prestigiosi riconoscimenti. Con questo volume ha vinto il premio Valigie Rosse 2017, ed è appunto l’omonima casa editrice toscana che l’ha pubblicato, con una approfondita introduzione del curatore Leonardo Masi.

Masi nel sottolineare la vitalità della poesia novecentesca in Polonia (ricordando i tre celebrati maestri Miłosz, Herbert e Szymborska, e i più recenti Zagajewski e Lipska), evidenzia come la nuova generazione – aprendosi anche a un più coraggioso sperimentalismo e all’assimilazione di influenze soprattutto statunitensi – si stia caratterizzando per un deciso rinnovamento semantico e un’acquisizione di stili più audaci e originali. Tra i giovani poeti, proprio Krystina Dąbrowska si è messa in luce per la semplicità della sua scrittura, vivace e ironica, attenta alle persone, curiosa verso ogni avventura del cuore e del pensiero, estranea alla metafisica e alla profondità meditativa: una scrittura energica, in movimento, immersa nel quotidiano. La sua poesia, così legata alla visualità, è debitrice a una formazione artistica di tutto rispetto: Krystyna, esperta di pittura, viaggiatrice e fotografa, si è laureata all’Accademia delle Belle Arti di Varsavia, e proprio nel ritratto ha trovato il suo particolare accento interpretativo.

«Variazioni sul tema dello sguardo, di uno sguardo declinato in tanti modi diversi», commenta Leonardo Masi: «Da che punto guardare per vederti? / Da vicino o da lontano? E da che tempo? / Se mi allontano per inquadrarti / dalla testa ai piedi, come una tela sul cavalletto, / sento che sei tu a prendermi, / a cambiarmi, aggiungere e togliere colore».

Il guardare della poetessa si misura con il fuori da sé: nella metropolitana («Il lampo di uno specchietto. Come in un piccolo acquario / si presentano occhi, sopracciglia, bocche voraci. / Nella folla che spintona, una ragazza con mano sicura / traccia una linea sulla palpebra, si trucca le ciglia. // Giornata calda. Coppia di anziani, tesi, in silenzio, / con un nipote magrolino, tutto imbacuccato. / Nel vagone quasi vuoto stanno davanti alla porta / come se dovessero scendere tra un attimo. Ma vanno oltre»). A Gerusalemme, davanti al Muro del Pianto, dove i vecchi rabbini pregano su sedie di plastica bianche. Il ballerino di flamenco truccato da donna per ricordare la sorella uccisa durante la guerra. Due persone nel parco e due uccelli sugli alberi, diversi e uguali nell’essere indifferentemente coppie. Una venditrice di scope. O il bellissimo trittico dedicato al vicino di casa, «un professore / a cui è morta la moglie // … un signore impeccabile / che attraversa la sua vita ordinata / come ogni mattina attraversa il cortile».

Tante facce, in questi versi, e dietro le facce tante storie. Anche la storia di una Polonia ferita, divisa, straziata da persecuzioni e dittature, ma raccontata con inquadrature di sbieco, spiazzanti e pudiche, come in improvvisi flash di Polaroid recuperate da un ripostiglio. Allora l’omaggio a Henry Cartier-Bresson, «il tale con la Leica», è doveroso e riconoscente, perché il maestro fotografando «Era loro ed era a lato, girovagava, scrutava, / paziente, veloce, modesto e sfacciato // … Che conosceva la gente / lo si capiva da come ne mostrava l’assenza». Così si propone di fare Krystina, nei suoi versi, fissando facce e gesti, silenzi e urla, solitudini e affollamenti. Con un occhio che è il suo, e avvicinandola agli altri contemporaneamente la allontana, distanziandola anche da chi ama ed è amata: «Non so dire noi, a meno che noi / non sia quel trattino fra l’io e il tu / che conduce la scintilla e a volte / è il prolungamento di una linea».

AD UN INCROCIO

All’incrocio di due strade strette e trafficate / ‒ una ripida come cascata / si rovescia impetuosa nella corrente dell’altra ‒ / stanche e affamati facciamo una sosta. // Nella vetrina luminosa di un bar, il padrone / scuote la saliera come un aspersorio / sul cartoccio con le melanzane / e i fiori di zucca caldi in pastella. // Cornucopia croccante! Ci sediamo davanti al bar / sugli sgabelli come trampoli fra la spazzatura / e guardiamo la gente. Donne sugli scooter / nella folla di pedoni, coi bimbi penzoloni come scimmie, // un branco di ragazzine alla caccia serale, / gli ombelichi all’aria, come mirini all’erta. // Emigranti: africani, slanciati come alberi / (la gente del posto al confronto sono cespugli tozzi) // e donne del Pakistan che con la fiacca negli occhi, / portano il silenzio nel clamore. Ad un incrocio / la gioia che si incontrano i nostri sguardi, / si biforcano e convergono, distanti e intrecciati. // Tu vedi gli strati, le tribù, / io pesco le singole facce, / come se insieme dipingessimo un quadro. / E in questi quadri abbiamo una casa in comune.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 18 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DAGERMAN

STIG DAGERMAN, L’UOMO CHE NON VOLEVA PIANGERE – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2014

Dello scrittore Stig Dagerman, definito dai critici “il Camus svedese”, morto suicida a trentun anni nel 1954, le edizioni pistoiesi Via del Vento hanno pubblicato già due racconti. Quest’ultimo, inedito in Italia, è stato tradotto e curato da Marco Alessandrini, che nell’acuta postfazione, analizza “l’irredimibile faglia di una geologia assolutamente interiore”, “il conflitto tra fame di amore e incapacità di assimilarlo” dello sfortunato autore, il suo perenne e angoscioso vacillare tra aggressività e delusione, fuga e impegno, vulnerabilità e ribellione. Il racconto qui presentato, dall’incalzante ritmo narrativo quasi cinematografico, vive di un’atmosfera claustrofobica di tipo kafkiana: e dal maestro praghese sembra aver assorbito sia il persecutorio e ingiustificato senso di colpa che lo anima, sia il feroce sarcasmo. In un’ambientazione che continuamente oscilla tra incubo e soffocante, delirante realtà, il protagonista ci appare sia vittima innocente di un’ottusa persecuzione, sia ironico vendicatore sul conformismo sociale. Il signor Storm è un innocuo e puntuale contabile in una stimata ditta i cui contorni lavorativi rimangono nel vago: viene chiamato a rispondere, in una sorta di severo processo aziendale, della gravissima colpa di non aver versato nemmeno una lacrima in occasione della morte della più famosa e amata attrice nazionale. In effetti, mentre colleghi e superiori si lasciavano andare a moti di disperazione, singhiozzando e abbracciandosi a vicenda, Storm non era riuscito a piangere. Segnato a dito come persona gelida e indifferente, viene chiamato a rispondere di questa sua riprovevole aridità di cuore. Resiste ad accuse ed interrogatori, a pressioni incalzanti, addirittura accennando un involontario e disdicevole sorriso. Cede solo alla fine di un’estenuante requisitoria, finalmente sciogliendosi in un pianto liberatore: i cui reali e più banali motivi vengono travisati dalla stupidità zelante di chi lo circonda.

IBS, 11 settembre 2014

RECENSIONI

DALL’AGLIO

FABRIZIO DALL’AGLIO, COLORI – PASSIGLI, FIRENZE 2014

Nell’affettuosa e approfondita postfazione al volume di versi Colori e altri colori di Fabrizio Dall’Aglio, Paolo Lagazzi ripercorre tutta la parabola del poeta reggiano, a partire dalla prima raccolta, uscita nel 1984, fino a quest’ultima: e riscontra in essa una coerenza di fondo, pur nella diversità di temi e toni, derivante dal temperamento dell’autore, da una sua «strana leggerezza…svagata nonchalance: …una refrattarietà radicale, primaria a ogni retorica, a tutte le trappole dell’ideologia, della rigidezza o del pensiero unico»».

Un’uguale «sotterranea, irriducibile dolcezza» ritroviamo in quest’ultimo volume di Dall’Aglio, tutto giocato sulle note della nostalgia, di una tenerezza che si abbandona allo sguardo indulgente su cose, persone, ricordi, natura. La prima sezione, intitolata “Colori”, ricorda certo le sfumature di alcuni versi di Bertolucci (come suggerisce Lagazzi), ma forse ancora di più la delicata serenità di Carlo Betocchi, dei suoi cieli azzurri, dei tetti rossi, delle estati gialle, nelle pennellate impressionistiche e ariose di alcuni versi: «Ma forse ci fu un giorno / che il cortile / gridò di bianco / come un filare steso di lenzuola».

L’infanzia del poeta si riaffaccia vivida nelle poesie dedicate al piccolo borgo di Macigno, poco lontano da Canossa, di cui ricorda la vecchia casa nel verde («Sono arrivati gli alberi. Li ho visti / abbracciarsi sotto il campo di casa / stringersi tra le balle di fieno»), e nell’unica struggente prosa (Il fiume), animata dalle acque del torrente Crostolo, dal greto attraversato coi sandali di gomma, in cerca di pesci, tra i mulinelli della corrente, le alghe e i rovi dei cigli. Acqua che diventa metafora del cambiamento, e del tempo che scorre implacabile, allontanandoci dal nucleo primigenio della nostra storia personale.

E proprio il tempo è protagonista dell’ultima sezione del libro, forse la più riuscita, di Dediche ad amici presenti o lontani, alla moglie, a poeti noti o emergenti, sempre alla ricerca di una memoria comune o accomunante, di un momento prezioso e condiviso a cui aggrapparsi, da non lasciar sfuggire: «Gente. Persone. Qualcuna si è affrettata / nel tempo in cui / il passato continuava / a passare. Qualcuna è già sparita», «Il tempo non ha fretta, oggi. / Veste un pigro mantello a ruota / da cui sporge un giorno già lontano, / la sua carcassa vuota», «Ti ricordi il secolo? / Mi pare che vestisse in uniforme / con rosse spalline». «È morto il tempo, te ne sei accorto? / Agonizzava già da qualche giorno, / forse da mesi o anni».

Quali colori hanno quindi i ricordi, nella poesia di Fabrizio Dall’Aglio? Non certo bigi o funerei, piuttosto luminosi di una qualche nuova speranza da cui attingere gioia, gratitudine, forza, come in questi bei versi: «Indietro, indietro, là, era la forza, / nel culmine di me che cancellavo / per nascere di nuovo – la mia svolta, / il termine del tempo dell’attesa».

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Coloriealtricolori-Fabrizio.html     26 marzo 2016

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