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RECENSIONI

DARWISH

MAHMUD DARWISH, NON SCUSARTI PER QUEL CHE HAI FATTO – CROCETTI, MILANO 2024

Con testo arabo a fronte, l’editore Crocetti pubblica Non scusarti per quel che hai fatto, raccolta di versi del poeta palestinese Mahmud Darwish (1941-2008). Darwish, nato in un villaggio dell’alta Galilea, alla costituzione dello stato di Israele dovette rifugiarsi con la famiglia in Libano, tornando successivamente nella sua terra nella condizione di profugo e clandestino. Per il suo attivismo politico fu più volte incarcerato e condannato agli arresti domiciliari, quindi esiliato in vari stati europei e in Egitto, in Libano e a Tunisi. Fece parte del consiglio esecutivo dell’OLP dal 1987 al 1993. Rientrato in Palestina dopo gli accordi di Oslo (1993), visse tra Ramallah, in Cisgiordania, e Amman, in Giordania. I suoi versi, conosciuti e amati in tutto il mondo e tradotti in più di venti lingue, sono stati musicati da alcuni tra i maggiori compositori arabi. Considerato il poeta nazionale della Palestina, alla sua morte, avvenuta a Houston (Texas) dopo un’operazione al cuore, l’Autorità Palestinese proclamò tre giorni di lutto nazionale, e ai funerali di stato, a Ramallah, parteciparono decine di migliaia di persone.

La raccolta da poco edita da Crocetti risale al 2004, e rappresenta una summa dei temi e dei toni di tutta la precedente produzione di Darwish. Nonostante il nome “Palestina” sia citato una sola volta, l’amore per il suo paese viene manifestato costantemente, non solo nell’allusione (più malinconica che indignata) alla sopraffazione politica subita, ma soprattutto nell’accorata nostalgia per le persone e le cose perdute nei lunghi anni di esilio, e nella descrizione dei paesaggi. L’attenzione è rivolta ai colori e ai profumi della vegetazione (ulivi, anemoni, rose, sambuchi), a ciò che si muove nell’aria (uccelli e nuvole, che rievocano immagini impalpabili di sogni, di angeli e cherubini), agli animali sempre simbolo di naturale innocenza (cavalli, colombi, gazzelle, farfalle), agli oggetti che hanno segnato l’attività quotidiana della sua famiglia (“l’eco delle cose parla attraverso la mia bocca”).

Ma anche le città arabe in cui il poeta è arrivato “come un gabbiano” sono presenti con i loro rumori, le musiche e la vivacità dei traffici urbani, le amicizie e gli amori incontrati: Tunisi, Beirut, Baghdad, Damasco, Il Cairo, Gerusalemme: “A Gerusalemme, intendo dentro le antiche mura, / cammino da un tempo all’altro // … Tutta questa luce mi appartiene. / Cammino. Divento più leggero. / Volo e mi trasfiguro”.

Memoria e oblio sono i due poli entro cui ruota la riflessione del poeta: volontà doverosa di ricordare e testimoniare, consapevolezza della caducità del tempo che tutto dissolve. Nella poesia che dà il titolo al libro, il lungo elenco dei ricordi viene riproposto dal soggetto recitante nel presente al mutato “io” che li aveva vissuti nel passato: “Non scusarti per quel che hai fatto, mi dico in segreto. / Al mio altro ‘io’ dico: // eccoli, i tuoi ricordi, tutti visibili: / la noia di mezzogiorno nella sonnolenza di un gatto / la cresta del gallo / la fragranza di salvia / il caffè della madre / la stuoia e i cuscini”.

Persistente è la memoria di altri celebri poeti – come Neruda e Ritsos, l’iracheno al-Sayyāb, il curdo Salīm Barakāt o il siriano Abū Tammām –, ma altrettanto costante è la consapevolezza della fugacità dell’esistenza, dell’impossibilità di rimanere vivi nella storia privata e collettiva del proprio paese: “Tutto quel che hai intorno è dimenticanza”, “Sarai dimenticato, come se non fossi mai stato. / Sarai dimenticato come la morte violenta di un uccello, / come una chiesa abbandonata, / come un amore passeggero / e come una rosa nella notte… sarai dimenticato”. Lo spaesamento individuale, la dissoluzione dell’io, la stanchezza dell’età che avanza (“Ho la saggezza del condannato a morte”, “voglio una morte in giardino / niente di più e niente di meno!”) sono senz’altro fattori di inquietudine personale, ma riflettono anche i timori e le incertezze di un intero popolo. Il sopruso patito dalla Palestina ha per il poeta valenza universale, diventa il male sofferto da ogni vittima a causa della ferocia del potere, in tutti gli ambiti in cui viene esercitato. Nell’ode Al nostro paese (definito “vicino alla parola di Dio, minuscolo come un seme di sesamo, povero come le ali di un gallo cedrone, bottino di guerra”), si avverte la tragica profezia dello sterminio che oggi sta vivendo Gaza: “Il nostro paese, nella sua notte insanguinata, / è un gioiello che brilla per le distanze più lontane / e illumina ciò che è al di fuori di lui… / Quanto a noi, dentro, / soffochiamo ogni giorno di più!”

Nonostante la sofferenza dell’esiliato, del prigioniero, del testimone di una guerra che insanguina e distrugge da decenni la Palestina, Mahmud Darwish pronuncia ancora parole di speranza, ancora incoraggia la sua gente alla resistenza, e si dice fiducioso in un futuro di pace: “Un altro giorno verrà, un giorno femmineo, / alla metafora trasparente, compiuto, / diamantino, di visita nuziale, soleggiato, / fluido, allegro. Nessuno sentirà / alcun bisogno di suicidio o di migrazione… // Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta”.

La sua poesia, così limpida e corale, rivela i caratteri di molte composizioni mediorientali: la descrittività attenta e partecipe, il tono colloquiale, la modulazione musicale percepibile anche attraverso la traduzione grazie alle formule ripetute come in una litania religiosa, la totale assenza di sperimentalismi linguistici, la non equivocabilità del messaggio, che – a differenza della contemporanea poesia occidentale – non lascia spazio a interpretazioni fuorvianti del lettore. La pacatezza formale delle composizioni di Darwish offre uno spiraglio all’utopia di una conciliazione tra le popolazioni di una terra tormentata.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», I marzo 2024

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DAUMAL

RENÉ DAUMAL, IL ROVESCIO DELLA TESTA – ADELPHI, MILANO 2025

Nato nel 1908 nelle Ardenne, René Daumal nel 1925 si trasferì a Parigi, dove studiò filosofia, soprattutto nei suoi fondamenti teologici e orientali. Nella sua breve vita fondò la rivista Le Grand Jeu, in polemica con i surrealisti; pubblicò poesie, racconti, traduzioni e il romanzo-saggio Il Monte Analogo, rimasto incompiuto. Morì di una malattia polmonare nel 1944. In Italia, tutte le sue opere sono pubblicate dalla casa editrice Adelphi, a cura di Claudio Rugafiori.

L’ultimo volume uscito nella collana “Piccola Biblioteca” si intitola Il rovescio della testa, e raccoglie dodici brevi scritti eterogenei: parabole, racconti, schizzi, interventi critici, tutti accomunati da uno stile giocoso, talvolta sarcastico e provocatorio, spesso aforistico, nell’affrontare lo stesso tema di base, cioè il rapporto che l’essere umano instaura con la verità.

A partire dal brano di apertura, in cui tre personaggi simbolici (L’Assetato, l’Innamorato e l’Ottico) si interrogano su cosa produca nell’uomo l’idea di meraviglia, individuandone il contrassegno nella figura della Portatrice d’acqua, di cui ciascuno di loro offre una interpretazione particolare: l’acqua, la donna, la brocca sono ugualmente fonti inesauribili di stupore e necessario appagamento. L’acqua perché estingue la sete, la donna perché è la metà dell’uomo, la brocca perché contiene le immagini del mondo. Nessuno può dire niente sulla verità, perché ognuno è molteplice e “governato talvolta dal cervello, talvolta dallo stomaco, talvolta dal cuore”, quindi mai univoco nelle sue espressioni.

Sparsi nel volume sono altri apologhi divertenti, come quello del signor Curato che nell’ora di catechismo interroga la classe su cosa sia Dio. Alle risposte tradizional dei ragazzini (è Padre, è puro Spirito, è il Creatore ecc.) reagisce con sfuriate e punizioni, premiando invece il più somaro di loro che incredibilmente afferma “Dio è una sberla”. C’è poi un grande mago in grado di eseguire straordinari prodigi per guidare l’umanità (“ah! se avesse voluto!”), che per non opporsi ai voleri della Provvidenza muore povero e abbandonato, senza rivelare a nessuno –nemmeno a se stesso –, il proprio potere divinatorio.

Chi dice la verità, e cos’è la verità? Lo chiedeva Pilato a Cristo, nella domanda che Nietzsche definì l’unica ad avere valore nella storia umana. Sulla relatività del vero e di ciò che si definisce reale, Daumal insiste con verve polemica. Né la filosofia, né la teologia, né la politica possono dare risposte certe. Solo lo scavo interiore, e la raggiunta conoscenza di sé, possono illuminare nella ricerca del vero: “L’uomo che pensa è il violento nemico di ogni fede imposta, di ogni dogma, di ogni tirannia. È per essenza Rivoluzionario. Tu parli di Verità. Ma chi parla in te? Cerca dunque te stesso prima di tutto: ma ecco! il sentiero si allunga all’infinito, non smetti mai di cercarti. E cercarsi è la stessa cosa che cercare la Verità… Si può essere solo nella misura in cui si rinuncia a ciò che si crede di essere”.

Bisognerebbe inventare una “macchina per decervellare”, capace di svuotare la testa da tanto ciarpame inutile, e rendere il pensiero di nuovo pulito, originario, sincero. “Cosa impedisce all’uomo di restare semplicemente al centro di se stesso e di vivere misurandosi con il mondo esterno attraverso il mondo interno di cui è re?” Sono le varie ideologie, i falsi miti, le madri Chiese, la cultura occidentale che, separando la razionalità dalla fisicità, hanno distrutto ciò che negli esseri umani era semplicemente naturale: “Ciò che vi è di più morto nella testa opprime e sfrutta ciò che vi è di più vivo nei piedi… Il problema è riconciliare la testa con il resto dell’uomo”. La testa infatti è fatta dalla faccia, che guarda all’esterno e non è capace di osservarsi dentro, e dal cranio, situato in una posizione posteriore e cieca, che pretende di capire senza vedere: forse è il caso di rovesciare la testa, e cambiare atteggiamento.

Non l’intellettuale, non il religioso, non lo scienziato, non il condottiero potranno mai attingere alla verità, perché presumono di poter circoscrivere l’esistenza al sapere, rifiutando il dubbio, l’errore, il pressappoco. In tal modo non arriveranno mai a conoscere se stessi. Solo il Poeta può farlo, perché “è sommamente chiaro che la sua parola, sotto il senso unico, offre una pluralità, o meglio una totalità, di significati”. E sulla Poesia, come unica possibilità di attingere al vero, Daumal afferma con severità che essa non può definirsi solamente ispirazione, o improvvisazione e spontaneità. Deve rispettare regole, canoni precisi, tradizione, dominando l’elemento personale (l’invenzione e l’espressione) e   acquisendo uno stile non solo estetico, ma anche etico: “lo stile è l’aspetto non personale della bellezza”.  Attraverso lo scavo nel silenzio e il recupero della parola poetica “dalle infinite risonanze” l’umanità potrà sconfiggere le menzogne che hanno corrotto la sua natura più limpida e pura.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 5 febbraio 2025

 

 

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DAZAI

OSAMU DAZAI, IL SOLE SI SPEGNE – FELTRINELLI, MILANO 2009

Questo intenso e tragico romanzo fu scritto da Osamu Dazai nel 1947, un anno prima del suo suicidio avvenuto per annegamento, a Tokyo, dopo tre tentativi falliti in anni precedenti. Dazai aveva allora trentanove anni, trascorsi per lo più nella dissolutezza di un vita sconvolta da alcol e droghe, ma soprattutto da insopprimibili sensi di colpa, frustrazioni, fallimenti professionali e sentimentali. Rampollo di una ricca e potente famiglia giapponese, fu testimone del decadimento sociale e culturale del suo paese durante la seconda guerra mondiale, patito con il sentimento umiliante della sconfitta disonorevole e dell’inarrestabile declino della classe aristocratica.
Il sole si spegne (Feltrinelli, 2009) narra proprio questo disperato perdersi di una famiglia benestante, dei suoi valori, della sua nobiltà interiore: attraverso la povertà, la malattia e l’abbrutimento dei suoi membri. Tutti e tre i protagonisti riflettono in parte la biografia tormentata dell’autore. La madre, dolcissima e raffinata, costretta a vendere la casa e a indebitarsi dopo la morte del marito, ma capace di mantenere intatto l’amore per i due deludenti figli. La giovane e ingenua Kazuko, che vive in adorazione di madre e fratello al punto da degradarsi e consumarsi fisicamente e moralmente per loro (tenerissimo e commovente l’addio ad entrambi), consegnandosi a un amore impuro per un vecchio e depravato artista, da cui però decide di avere un bambino nel nome di una sua personale ribellione etica in favore della vita. Il disperato fratello Naoji, incapace di crescere sia nel suo ceto aristocratico sia tra la gente del popolo, che finirà per uccidersi dopo aver dilapidato in droga ed eccessi il patrimonio familiare. Pagine, queste di Dazai, che mantengono l’incanto della migliore letteratura nipponica del dopoguerra: l’attenzione per la natura, il rispetto per la purezza dei sentimenti, l’adesione quasi ossessiva alla fedeltà nei rapporti familiari.
E l’accettazione malinconica della propria fragilità.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Il-sole-si-spegne-Osamu-Daza.html    10 gennaio 2016

RECENSIONI

DAZAI

OSAMU DAZAI, LO SQUALIFICATO – FELTRINELLI, MILANO 2017

Di Osamu Dazai SoloLibri ha già ospitato una mia recensione al romanzo Il sole si spegne, che l’autore nipponico aveva scritto nel 1947, un anno prima di suicidarsi, a trentanove anni. La vita del giovane e fragile scrittore era stata tormentata dai difficili rapporti con la famiglia, (soprattutto con lo stimato e influente padre, proprietario terriero benestante e impegnato uomo politico), dalla tubercolosi, dall’abuso di droghe e alcol, da fallimenti professionali e delusioni sentimentali che ne incisero profondamente la psiche, provocandogli frustrazioni e sensi di colpa tali da indurlo più volte a tentare di uccidersi. Questo secondo romanzo, ripubblicato recentemente da Feltrinelli, uscì nel 1948, pochi mesi prima del suo suicidio compiuto per annegamento con l’ultima delle numerose amanti: la stessa modalità di morte era stata messa in atto, precedentemente, con una giovane cameriera che non era riuscita a salvarsi.

Molti dei tragici episodi che costellarono l’esistenza di Osamu sono raccontati in questo volume, Lo squalificato, suddiviso in tre sezioni relative all’infanzia, alla giovinezza e alla maturità del protagonista, un alter ego dell’autore chiamato Yozo. Dazai-Yozo bambino (cresciuto tra molti fratelli – tutti studiosi, educati, promettenti – in una casa elegante del Giappone settentrionale, curato da una zelante servitù, sotto l’occhio austero e incapace di tenerezza dei genitori), per attirare attenzione e simpatia si ingegna in “pagliacciate” in grado di divertire familiari, insegnanti e compagni di scuola: imitazioni, travestimenti, battute salaci, buffonerie di ogni genere. «Fintanto che potrò farli ridere, non importa in qual modo, tutto andrà liscio. Purché ne sia capace, è probabile che gli esseri umani non badino troppo se rimango estraneo alle loro vite».

Gli anni del liceo e dell’università, trascorsi in vari collegi, presso lontani parenti o in squallide stanzette in subaffitto, non fanno che rinsaldarlo nella convinzione di essere un fallito, inadatto alla vita sociale, disorientato emotivamente e ideologicamente: una delusione per se stesso e per il mondo intero. «Tutto ciò che io sento, sono gli attacchi d’apprensione e terrore all’idea di essere l’unico individuo assolutamente diverso dagli altri. Mi è quasi impossibile conversare col prossimo». Trova scampo alla disperazione nell’alcol, nella droga, negli psicofarmaci e nella frequentazione di prostitute. Si abbrutisce in compagnia di amici viziosi e inconcludenti, che lo inducono ad abbandonare gli studi universitari per dedicarsi dapprima alla politica con un gruppo di esagitati marxisti, poi al disegno, senza tuttavia trovare soddisfazione e successo in alcuna delle attività intraprese. Conteso dalle donne a causa del suo fascino da “bello e dannato”, non riesce mai a innamorarsi; si sposa, diventa padre, viene ingaggiato come vignettista da riviste di quart’ordine. Poi, scoprendosi tradito anche dalla moglie, fugge di casa, diventa morfinomane ed è internato in una clinica per malattie mentali. L’epilogo della vicenda è riassunto in poche, sconfortate, parole: «Tutto passa. Questa è la sola e l’unica cosa che a pare mio s’avvicini alla verità, nella società degli esseri umani, dove ho dimorato sin oggi come in un inferno rovente».

Lo squalificato conobbe un notevole successo in Giappone e in Europa, essendo partecipe sia della composta tradizione letteraria nipponica sia delle influenze della cultura occidentale novecentesca più innovativa. In questa edizione, è introdotto da un saggio alquanto insulso del critico americano Donald Keene, che divaga con supponenza sulla questione dell’originalità della scrittura giapponese, chiedendosi se essa debba mantenersi fedele al passato o adeguarsi alle mode contemporanee.

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/Lo-squalificato-Osamu-Dazai.html         25 settembre 2017

 

 

RECENSIONI

DE ALBERTI

ANDREA DE ALBERTI, DALL’INTERNO DELLA SPECIE – EINAUDI, TORINO 2017

Andrea De Alberti (Pavia 1974) ha pubblicato tre libri di versi prima di approdare alla collana bianca di Einaudi, ma è sostanzialmente un nome nuovo per il pubblico della poesia italiana. Lavora in un ristorante della sua città, e probabilmente questo raffrontarsi quotidiano con un mondo che non sia esclusivamente quello letterario e culturale lo ha aiutato in una ricerca formale e contenutistica più originale rispetto alla performance poetica attuale. Già il titolo della raccolta contiene due sostantivi-spie che ci invitano a tracciare un percorso interpretativo del testo: “interno” e “specie”. Infatti, la novità di questa scrittura (che forse mostra qualche debito nei confronti di una produzione più europea che italiana: Grünbein, tanto per azzardare un nome) consiste nel sapere coniugare un mondo affettivo privato al ciclo antropologico dell’evoluzione umana, riuscendo ad assorbire nell’universalità sovrapersonale di questo la particolarità intima di quello.

C’è quindi un padre («dove noi non capivamo tu ad occhi chiusi / come sempre ti orientavi»), una moglie, un figlio e un’infanzia («Non ti hanno mai comprato il motorino / perché facevi i compiti sdraiato per terra»). Ci sono versi che suggeriscono anche un severo autoritratto («Dentro ho una roggia prosciugata; Rimango quel poco iniettato in me stesso, / sfinito processo di una strana evoluzione»). Si citano nomi che appartengono alla cultura e all’immaginario collettivo (Jessica Lange, Salinger, Edgar Morin, Marvel, Ikea). Ma tutto questo viene in qualche modo risucchiato, minimizzato, ridotto quasi a una crudele insignificanza rispetto al trascorrere indifferente del tempo, scandito non più in ore e giorni, ma in secoli, millenni, ere. Messo di fronte allo schermo cosmico (descritto con esatta e asettica terminologia scientifica) l’io privato resta confusamente aggrappato a una sua personale e angosciante Grundfrage: «Alla fine come potremo definirci? / Esseri o prodotti di esistenze / a un minuto dall’abisso? / Qualcosa ci sostiene. / Non so se è il nostro scheletro comune, / o un’idea di essere all’interno di ogni specie»). Dai mammut agli oranghi, da Lucy alle recenti scoperte paleoantropologiche di Malapa, dai flussi migratori alla cementificazione edilizia, dalle volgarità mediatiche alle catastrofi naturali e belliche: ogni esistenza umana, animale e vegetale si ricompone nella poesia di Andrea De Alberti in un catalogo solidale e indulgente di immagini sovrapposte, in una vertigine di stupori e paure che accomunano nell’innocenza e nella colpa ogni specie, qualsiasi corpo di neonato con qualsiasi fossile, tutte le storie pubbliche e private che fluttuano sospese tra terra e cielo.

Le nostre vite non hanno quindi niente di speciale rispetto a quelle di qualsiasi essere vivente, e tuttavia rimangono assolutamente speciali e preziose: basta esserne consapevoli, rispettando “la pagina bianca” che ci è riservata dalla natura, evitando sopraffazioni ed esibizioni, proteggendo le nostre abitazioni, i nostri pensieri, i nostri cari (“Non lasciate i figli a casa” mi sembra la poesia più intensa e commovente del libro). Senza retorica o didascalismo, l’autore ci riporta all’interno della specie in versi pacati, lineari, onestamente concreti.

 

«Poesia» n. 325, aprile 2017

 

 

 

 

 

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DE ANGELIS

MILO DE ANGELIS, POESIA E DESTINO – CROCETTI, MILANO 2019

«Perché ristampare queste mie vecchie pagine? Perché da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro ‒ intatto, quasi intoccabile dal tempo ‒ e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre. Molti temi di “Poesia e destino” sono quelli che mi scuotono ancora oggi: la tragedia, l’eroismo, l’adolescenza, il mito, il gesto atletico. Ma il tono è un altro. Il tono è furente, perentorio, imperativo, dà sempre l’impressione di un ultimatum che io pongo a me stesso e a chi mi legge. È come se da lì a poco dovesse scaturire una sentenza senza appello, l’ultimo grado di un processo dove si gioca la condanna o la salvezza. E questo tono guerresco circola nel sangue di una sintassi verticale, scoscesa, rapidissima, piena di strappi e impennate. Ora non potrei nemmeno immaginare quella corsa sulle macchine volanti della parola». Così scrive Milo De Angelis nella nota introduttiva a Poesia e destino, una raccolta di contributi critici, frammenti narrativi, dichiarazioni di poetica, pubblicata da Cappelli nel 1982, e riproposta quest’anno da Crocetti.

Il poeta milanese ammette l’attuale ammorbidimento teorico (e forse anche ideologico), in parallelo con quello stilistico-formale della sua scrittura: più tormentati, oscuri, franti i versi giovanili di Millimetri, più meditati e indulgenti quelli della maturità. Eppure, con la loro rabbiosa focosità queste prose degli anni ’80 (anni ribollenti di inquietudini, eccessi, trasgressioni) continuano a incuriosire e affascinare il lettore di oggi, pur nella loro esibita intemperanza, aggressiva ostentazione.

Il volume si divide in tre sezioni: nella prima sono raccolti articoli di critica letteraria, la seconda riflette sul tema dell’impresa e dell’azione eroica individuale, la terza attraversa l’universo del pensiero indiano, con le sue seduzioni e ansie di assoluto. La parte iniziale (Compleanni, quasi a suggerire rievocazioni da rispettare e celebrare) ci presenta una ventina di interventi che spaziano dagli omaggi ai poeti più amati – Novalis, Hoffman, Rimbaud, Cvetaeva, Campana, Celan, Barbu, ‒ alla rilettura dei miti greci, dalle considerazioni su diverse espressioni dell’esistere alle pieghe/piaghe delle moderne mode culturali: sempre privilegiando ciò che, innalzandosi dalla piattezza del reale, lo divora e lo rigetta. Meglio il silenzio piuttosto che la parola abusata, quindi; meglio gli abissi che la superficie; meglio la tragedia che la farsa, il delirio che il conformismo mentale. Il silenzio non ha un passato da nascondere, né un futuro da attendere; l’astrologia è simulazione fantastica e divinazione; le sostanze psicotrope potenziano il verbo; la poesia non deve svenarsi in elegia ma, assorbita la potenza concettuale del Logos, sfigurarla in immagine. Questa visionarietà fremente dell’autore si traduce in una prosa secca, basata su un lessico inventivo e disorientante, in giudizi trancianti e alteri («gli aloni del dormiveglia» in De Libero e Quasimodo, «l’occhio da guardone» di Penna, la «linea giornalistica» di Vergani-Ravegnani), in sintonia con l’idea principe di una letteratura assoluta, di un’arte che pretende l’inabissamento o il volo, di una poesia che si fa destino, oppure non è.

Nella sua intensa e ammirata postfazione, Lorenzo Chiuchiù scrive: «Per De Angelis la bellezza getta l’esistenza sulla soglia di un pericolo, conduce l’anima dove l’irrevocabile sembra ricapitolare nell’istante il senso o lo scacco delle vite… La poesia è l’espressione di questa legge che incombe e irrompe nelle vite e alla quale, senza esitazioni, si risponde alzandosi in piedi: rifiutando la genuflessione e senza millantare ascensioni».

Feroce nel suo odio per la calligrafia, l’estetismo, l’intrattenimento, la compassione, la commozione, la retorica, Milo De Angelis esprime nel secondo capitolo del libro la sua adesione convinta e spietata a ogni atto di resistenza e di eroismo, gratuito e non corruttibile. Con tonalità apocalittiche e incandescenti, con accenti nietzschiani e wagneriani, chiarisce cosa sia L’Impresa: «… intelligenza che si ghermisce mentre si alza e sa indignarsi con chi le chiede di essere clemente».

Chi invoca comprensione, e verrà invece calpestato? Gli arbitri, gli accattoni, i compagni di villeggiatura, gli abbronzati, gli amanti soddisfatti, gli inermi, i fratelli, i benefattori (“letamaio di aureole”). «L’impresa d’altronde è sempre quella: una pura vittoria che non spartisce il bottino: lo getteremo ai gatti ed essi fuggiranno. Rimangono solo i corpi dei bambini vili, nella polvere, a reclamare la loro parte, come dei gufi che hanno paura della notte». L’eroe si ciba di «mercenari, damigelle, fedifraghi», urlando la sua ira contro il tiepidume: «Nasce una collera, la quale afferma senza addentellati: collera che non può essere appresa e non tenterà mai di giungere alla ferita addizionando le ammaccature. Essa, frontalmente, annienta. Senza ammonimento, senza presentare gli ambasciatori… Questa collera dunque non conosce persecuzioni né angherie: amando se stessa, non risparmia e non si risparmia… Essa, imperterrita, continua a cancellare creature con sereno accanimento: non erano colpevoli e dunque non saranno riconoscenti». È parola di fuoco, quella espressa dalla poesia, non destinata a placare o a sanare. «…una parola monsonica spazzerà via la minutaglia senza mercanteggiare. Nulla sarà più medicabile. Questo è il silenzio. Nulla di morigerato, nessun mozzicone. L’impresa è imminente e gli imputati sono da un’altra parte, nel loro guardaroba o nel loro guazzabuglio».

Nella terra desertica e muta che L’impresa ha creato intorno a sé, si aprono tuttavia percorsi primitivi e vergini, Tre vie indiane che Milo De Angelis esplora nell’ultima sezione del volume, puntellata da letture, voci, episodi di antico sapore orientale. L’approfondita conoscenza dei testi sacri dell’induismo (Bhagavadgītā, Brahmasūtra, Ṛgveda, Yoga Sūtra, Viveka-Cuda-Mani, Mahābhārata…), e la meditazione sugli insegnamenti dei maestri, ha portato l’autore a penetrare i concetti fondamentali della religione induista (trasmigrazione, nirvana, riparazione nella rinascita, risveglio, Karman), che ritrova nella sensibilità di alcune grandi figure della storia e dell’arte mondiale di ogni tempo (da Pia de’ Tolomei a Gaugin, dal Principe Miskin a Pär Lagerkvist),  recuperati anche in vari incontri e scambi meditativi avuti  nel 1980, e trascritti in una sorta di diario dialogato.

Sempre con l’obiettivo di riscoprire ed evidenziare quanto la parola – la parola poetica, dell’inconscio e dello scavo interiore ‒ abbia il potere di modificare il destino di un individuo e di una collettività».

 

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 5 settembre 2019

RECENSIONI

DE ANGELIS

VANONI-PAOLI-DE ANGELIS, NOI DUE, UNA LUNGA STORIA – MONDADORI, MILANO 2004

Nati entrambi nel settembre del 1934, a distanza di poche ore uno dall’altra, lei a Milano (figlia di un industriale farmaceutico), lui a Monfalcone (in una famiglia della buona borghesia, con un padre ingegnere navale), Ornella Vanoni e Gino Paoli si raccontano in questo bel volume curato dal musicologo Enrico De Angelis. La coppia più glamour della nostra canzone ha segnato con le sue alterne vicende sentimentali un lungo periodo della storia italiana, puntellandola con una produzione musicale di grande rilievo e successo, perseguito sia separatamente sia in comune.

De Angelis, giornalista e storico della canzone, a lungo responsabile artistico del Club Tenco, ha saggiamente suddiviso il volume in una sequenza di decenni, dagli anni ’50 (infanzia e giovinezza dei protagonisti) al nuovo millennio, permettendo così al lettore di seguire parallelamente lo sviluppo delle vicende esistenziali dei due, nei loro incontri, collaborazioni, separazioni e ricongiungimenti affettivi e professionali.

Il primo capitolo ci presenta un’Ornella adolescente inquieta, studentessa di lingue in esclusivi college svizzeri e inglesi, quindi ventenne reclutata da Giorgio Strehler come attrice e cantante al Piccolo Teatro di Milano. Alla tormentata e osteggiata storia d’amore con il Maestro, chiusa per decisione di lei (“sono un’abbandonica”), fece seguito la notorietà raggiunta con le canzoni della “mala”, il matrimonio con l’impresario Lucio Ardenzi, l’unica maternità. Negli stessi anni, Gino trascorreva la giovinezza in Liguria, circondato da amici insofferenti di vincoli e conformismi: si chiamavano Tenco, Lauzi, Bindi, Reverberi, Calabrese, ed erano come lui appassionati di jazz, rock’n’roll, chansonnier francesi. Con loro si trasferì a Milano, poi tornò a Genova, si sposò ed ebbe il primo figlio.

Sollecitati dalle domande di De Angelis, che ne commenta con partecipe simpatia anche i tic verbali e gestuali, i due artisti parlano di sé soffermandosi con ironia sulle proprie paure, vanità e illusioni. Ovviamente chi legge tende a interessarsi soprattutto alle circostanze del loro incontro e innamoramento, avvenuto nel 1960 nelle sale di registrazione della casa discografica Ricordi, a Milano. Allora erano entrambi sposati, ma il reciproco colpo di fulmine produsse immediatamente l’ incantevole frutto creativo di Senza fine, che Gino improvvisò al pianoforte osservando le “mani grandi” di Ornella. Quel primo lampo di seduzione corrisposta sfociò subito in una relazione intensa e impaziente, intessuta di gelosie e di sospetti, ma anche di una profonda intesa artistica, di una sincera stima intellettuale e di una radicata amicizia, destinata a durare negli anni, cementandosi in una fertile collaborazione discografica e teatrale. Nelle interviste intrecciate, De Angelis invita sia Vanoni sia Paoli a illustrare le canzoni più famose, indicandone nascita e diffusione, trionfi e cadute: così il lettore viene a conoscenza di aneddoti riguardanti la realizzazione de La gatta, Il cielo in una stanza, Sapore di sale e Io ti darò di più, L’appuntamento, Tristezza; li esorta a esprimere opinioni sulla politica, sul mondo dello spettacolo, sulle letture preferite, sui grandi amori (Stefania Sandrelli e Paola Penzo per lui, Danilo Sabatini e Oliviero Prunas per lei), i numerosi flirt e la vita sentimentale attuale. I due non si sottraggono ad alcuna provocazione, anzi orgogliosamente sottolineano quanto le loro scelte di vita e ideologiche abbiano sfidato l’ipocrisia dei benpensanti.

Il volume è corredato da una ricca galleria fotografica, che ci offre splendide immagini pubbliche e private di Ornella e Gino, ritratti insieme o individualmente, in varie epoche e atteggiamenti della loro esistenza, circondati da amici e parenti, o in pose artistiche di repertorio: una storia della musica leggera italiana che da cinquant’anni continua a coinvolgerci ed emozionarci.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Noi-due-una-lunga-storia-Vanoni-Paoli-De-Angelis. html    17 settembre 2019

 

 

RECENSIONI

DE ANGELIS

MILO DE ANGELIS, LINEA INTERA, LINEA SPEZZATA – MONDADORI, MILANO 2021

Milo De Angelis (Milano, 1951), uno dei più noti e importanti poeti italiani, saggista, critico letterario e traduttore, conferma in questo ultimo volume mondadoriano le sue qualità di visionario investigatore dell’inconscio e di funambolico inventore di immagini, sapientemente sciolte in una versificazione che negli ultimi anni si è rivelata capace di duttili trasformazioni. La prima produzione di De Angelis (Somiglianze, 1976; Millimetri, 1983; Distante un padre, 1989), che l’aveva giustamente segnalato come dissacrante innovatore, si era infatti contraddistinta per una vena simbolista di difficile interpretazione, assolutamente estranea alla tradizione poetica italiana del dopoguerra, indifferente sia allo sperimentalismo sia all’impegno ideologico: la frammentarietà e la disarticolazione dei versi, la loro oscurità semantica, gli avevano valso l’accusa da parte di alcuni commentatori di elitarismo criptico e oracolare.

Negli anni duemila, la scrittura deangelisiana ha assunto forme più distese e narrative, in cui i temi della sofferenza e della morte, pur illuminati da improvvise epifanie di esaltata adesione alla vita e da sfumature di tenerezza, sono diventati prevalenti e quasi ossessivi, in una perenne ambivalenza tra accettazione e rifiuto, rigore e delirio, incubo e liberazione. In questo nuovo libro, Linea intera, linea spezzata (già dal cantabile novenario del titolo, con l’anafora allusiva a una regolarità drammaticamente infranta) il poeta si concede a una confidente apertura sentimentale, rinunciando sia ad arroccarsi in ermetismi difensivi, sia a trasgressive violazioni formali. Ne sono già avvisaglia i versi dolcissimi (nella loro armoniosa musicalità e nel riverbero di una recuperata e fragile adolescenza) riportati sulla quarta di copertina: “E allora facciamo silenzio, mio piccolo amore, slacciamo / i sandali, togliamo il braccialetto di cuoio: / chiuderemo la porta e scenderemo, scenderemo / con i nostri pochissimi anni nell’occulto che ci chiama, / mentre il pavimento prende il colore della notte, / scenderemo noi due, scenderemo noi soli, perderemo / la vita”.

La Milano dell’infanzia e degli anni giovanili fa da sfondo brumoso alle prime due sezioni del volume, una Milano rivissuta nei suoi tram e negli ambienti frequentati allora (edifici scolastici, sale di biliardo e di bowling, lunapark, campetti sportivi, piscine, cinemini periferici), e oggi contemplata di notte (“la notte che ti scruta e ti attende” è momento privilegiato nella poetica dell’autore), in sguardi che abbracciano dall’alto elementi architettonici di contrasto, o girovagando “con i passi del fuggiasco” tra le risaie della Barona e i grattacieli, bar malfamati e chiese romaniche. Affiora la consapevolezza, in un terrore che spesso sfocia nell’incubo, dell’inessenzialità e trascurabilità delle vite comuni (“dell’infinita moltitudine in cui sei immerso anche tu”), a cui si può sfuggire solo aggrappandosi alla concretezza di un vissuto personale, privato, che sappia illudere della propria unicità.

Notte, paura, ricordo, silenzio, morte/morti sono i termini più ricorrenti nei versi di Linea intera, linea spezzata, e assediano il poeta in un delirio di visioni allucinatorie, di spettri o minacciose figure fiabesche (“senti ardere le sinapsi, entri nel dedalo / delle piccole convulsioni”), a cui nemmeno la dolcezza della memoria sembra offrire salvezza. Anche gli incontri con persone amate e perdute si risolvono spesso in rivisitazioni dolorose, angustiate da rimorsi, sensi di colpa, nostalgie feroci. Nella terza sezione, Dialoghi con le ore contate, il sentimento pressante della precarietà dell’esistenza, e il rimpianto di un passato irrecuperabile, spinge il poeta a un’angosciosa discesa nell’Ade dei trapassati (“e allora scendo, scendo di più, / scendo fino in fondo, scendo ancora”), per abbracciare tra tante altre ombre il fratello Puia, il primo allenatore di calcio, un riflessivo amico piemontese, il critico Alberico Sala, un compagno sessantottino della Statale, un’invincibile nuotatrice, spinto dal doveroso compito di ricordarli, questi fantasmi di un mitico passato, non solo mentalmente, ma scolpendoli sulla pagina, ripagati così di colpevoli disattenzioni lontane.

La morte citata così spesso in varie declinazioni, incombe allegorica anche nelle clausole finali di molte composizioni, imponendo un tombale e disperato mutismo: “per l’ultima volta”, “iniziò la lunga notte silenziosa”, “tutto è silenzioso per sempre”, “sembrava un saluto ma è un addio”, “alla fine divampò la solitudine”. In modo rassicurante e carezzevole, o all’opposto di fissazione ossessiva, imitando la ripetizione di formule e ritornelli infantili, l’uso della reiterazione di vocaboli o di intere frasi all’interno di una composizione – in anafore legate o distanziate –, è la figura retorica più ricorrente in De Angelis (non è di questa terra… non è di questa terra; devi restare, devi restare; scorderai, / scorderai; lui non è tornato, lui non è tornato; si aggirano… si aggirano; non c’è nessuno, non c’è nessuno non c’è nessuno; vergogna vergogna vergogna; ecc.). Altrettanto frequente è il discorso diretto, a cercare interlocutori immediati, e coinvolti con un “tu” vocativo in un colloquio che in realtà cela la malinconica consapevolezza dell’inesorabile monologo.

L’ultimo capitolo della raccolta, Aurora con rasoio, si carica in maniera inattesa di una consistenza ideologica ed esistenziale assolutamente e finalmente consapevole, nel confessare la dipendenza dalla droga, la disarmonia con il mondo esterno vissuta con strazio e frustrazione, la ricorrente tentazione del suicidio, in chi si scopre “clown e martire di un dolore ereditato”, imputato al tribunale dei “giudici antichi” perché, incapace di adeguarsi, vedeva troppo, sentiva troppo, soffriva troppo. Di tutti gli esclusi dall’innocenza e dalla felicità, di tutti i rasoiati nelle loro aurore, si chiamino Milo Daniele Peppino Gianni, la poesia raccoglie la ribellione, la paura e l’affanno, reclamando il dovuto risarcimento.

© Riproduzione riservata   «Gli Stati Generali», 28 gennaio 2021

 

 

RECENSIONI

DE BENEDETTI

PAOLO DE BENEDETTI, IL FILO D’ERBA – MORCELLIANA, BRESCIA 2012

Paolo De Benedetti, protagonista del dialogo ebraico-cristiano, è morto l’11 dicembre ad Asti, la città in cui era nato e viveva, a 89 anni. È stato docente di Giudaismo e di Antico Testamento in diverse facoltà teologiche, e divenne noto al grande pubblico soprattutto per la sua opera La teologia degli animali, dove uomo e animali sono posti sullo stesso piano rispetto alla possibilità di salvezza eterna.
In un libriccino pubblicato nel 2012, Il filo d’erba, Paolo De Benedetti, citando testi rabbinici (e Karl Barth, Giovanni Calvino, Martin Buber, Abraham Heschel, Dostoevskij) commentava, incalzato dalle domande di Gabriella Caramore, una novella scritta da Luigi Pirandello nel 1911.
Il protagonista di quel racconto, Tommasino Unzio, un giovane uomo vinto dalla vita e dalla cattiveria altrui, dopo aver abbandonato gli studi in seminario per “sete d’anima” e quindi di autenticità, viene preso «d’una tenerissima pietà per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco, senza sapere perché, in attesa del deperimento e della morte». «E cosa c’è di più indifeso, caduco, tenero d’un filo d’erba? “Il filo d’erba nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e via per sempre; mai più, quello; mai più!».

Per proteggere l’esistenza fragile di un filo d’erba Tommasino muore. E Paolo De Benedetti proclamava la nobiltà assoluta, e la necessità, di questa consapevole sintonia con tutto ciò che è vivo, quindi non solo con il mondo umano e animale, ma anche con quello vegetale. «Per lui il filo d’erba è ’prossimo’. E ha ragione, perché tutto ciò che esiste, che vediamo, che tocchiamo, è un ’tu’ per noi… le vie dell’incontro con il divino sono molteplici e in gran parte non coincidono con la fede… Il filo d’erba, nella sublime invenzione di Pirandello, è anch’esso un tu, in cui è presente Dio. È stato detto che Dio sta nel dettaglio… Quel filo d’erba è ’conosciuto’ da dio, altrimenti non esisterebbe…».

Tutto ciò che vive ’risponde’ alle domande dell’uomo e di Dio stesso; qualsiasi esistenza – anche la più deperibile – ha diritto alla resurrezione e all’immortalità.
Facendo eco alle tesi di Emanuele Severino, Paolo De Benedetti esprimeva questa aspirazione derisa da ogni paradigma scientifico: “pretendere da Dio – dico proprio pretendere – una restituzione di tutta la vita… su nuovi cieli e nuova terra… restituzione di tutto ciò che era vivo, come era vivo”.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Il-filo-d-erba-De-Benedetti.html   13 dicembre 2016

 

RECENSIONI

DE BENEDETTI

PAOLO DE BENEDETTI, LA MEMORIA DI DIO – LA COMPAGNIA DELLA STAMPA, BRESCIA 2012

Paolo De Benedetti, teologo e biblista, è uno dei massimi esperti contemporanei di ebraismo. Protagonista del dialogo interreligioso, “uomo di frontiera, di grande apertura intellettuale e di profonda spiritualità”, ha sempre caratterizzato la propria identità confessionale nei termini di “una presenza simultanea di categorie mentali e fedeltà ebraiche e alcune convinzioni cristiane, in combinazione instabile ma irrinunciabile”. In questo libriccino porge un discreto e devoto omaggio alla memoria di Dio, “ove il genitivo è oggettivo e insieme soggettivo: è la memoria di Dio nei confronti dell’uomo e dell’uomo nei confronti di Dio”. Il suo Signore viene umanizzato al punto da essere pensato con “tre organi fondamentali: l’orecchio per ascoltare, la bocca per istruirci e il naso per sentire i profumi che si levano dai sacrifici”. Memoria di Dio, quindi , ma anche memoria della storia ebraica, che a differenza di quella cristiana (il concetto greco-latino di historia viene da indagare) significa trasmissione attraverso le generazioni, recupero e riproduzione dei ricordi. Di qui l’importanza, per la cultura ebraica, delle ricostruzioni genealogiche, della preservazione dei nomi: “Noi dobbiamo sperare che Dio si ricordi dei nostri nomi, cioè accolga positivamente quello che siamo stati, che accolga il racconto”.  La memoria di Dio, se a volte si assopisce, deve essere risvegliata, in un dialogo continuo tra creatura e Creatore. E l’uomo deve ricordarsi di Dio, aiutandosi anche con l’osservazione attenta dei precetti, che sono un promemoria indispensabile per la fede, “per far diventare presente ciò che è già successo”. “Ricordarsi di Dio nel quotidiano, nelle cose modeste e umili ha un’importanza unica poiché, in un certo senso, significa aiutare Dio a stare accanto a noi”.

IBS, 5 luglio 2012