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RECENSIONI

FINI

MASSIMO FINI, CATILINA – MARSILIO, VENEZIA 2016

Chi è stato davvero Catilina? Quali gli scopi della sua famosa congiura? In questo volume Massimo Fini ci offre una delle sue originali biografie, autentiche rivisitazioni critiche di personaggi troppo facilmente liquidati dalla storiografia tradizionale. A chiunque abbia studiato, al liceo o all’università, storia romana, il nome di Catilina riporta subito alla mente l’apostrofe con cui Cicerone gli si rivolse dagli scranni del senato: «Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?». Questo recente saggio di Massimo Fini, pubblicato da Marsilio, ci offre l’opportunità di conoscere più a fondo – e in pagine vivaci, non boriosamente accademiche -questo personaggio, che l’autore introduce subito come autore della «prima, anche se fallita, rivoluzione della Storia». Letterariamente, sono stati lo stesso Cicerone, e con lui Sallustio, a ragguagliarci sulla vita e sulle imprese di Catilina; servendosi delle loro testimonianze, e di quelle più frammentarie di Plutarco, Svetonio, Dione Cassio, Fini ragguaglia il lettore sugli essenziali dati biografici del suo protagonista.

Nato a Roma nel 108 a.C. da una famiglia patrizia, era «alto, asciutto, atletico, nevrile», dotato di «una spavalderia, un’audacia, un coraggio spinti fino alla temerarietà»; aveva fama di grande seduttore, e venne addirittura accusato di aver violato una Vestale, tale Fabia, cognata di Cicerone, che forse proprio da allora gli giurò inimicizia eterna. Fu combattente fedele accanto a Lucio Silla, e tra i trenta e i quarant’anni percorse tutto il cursus honorum, da questore a edile a pretore, senza approfittare di particolari appoggi politici o finanziari. Tentò tre volte di venire eletto console, tra il 66 e il 64 a.C., ma venne sempre fermato dalla feroce ostilità dell’oligarchia aristocratica, che riuscì a impedire la sua nomina attraverso escamotages legali e processi truffaldini messi in atto non solo dal nemico di sempre, Cicerone (diversissimo da lui per «temperamento, abitudini, attitudini, carattere, concezione della vita»), ma anche da falsi amici e alleati ingannevoli, quali Crasso e Giulio Cesare.

Al primo di questi oppositori, Massimo Fini dedica un divertente secondo capitolo, senza nascondere l’antipatia quasi nauseata che gli provoca la figura dell’oratore («politicante di terz’ordine, maneggione e intrigante… di una viltà, fisica e morale, patologica e caricaturale… Per il carattere ameboide, incerto, molle, svirilizzato Cicerone assomiglia ad Aldo Moro, è una specie di protodemocristiano. Per vanità e trombonaggine ricorda invece Spadolini, ma uno Spadolini disonesto e moralmente corrotto»). Crasso e Cesare vengono invece definiti «due opportunisti», che dapprima illusero Catilina del loro appoggio, per poi negarglielo nel momento cruciale del suo attacco al potere, spaventati dal radicalismo rivoluzionario del suo programma sociale. Che si delineava in alcuni punti focali: fine dei privilegi aristocratici, riforma istituzionale in senso democratico, legge agraria, cancellazione parziale dei debiti. Un programma decisamente rivoluzionario, che raccoglieva gli entusiasmi della plebe (soprattutto quella rurale, impoverita dai latifondisti), degli artigiani impoveriti e indebitati, degli schiavi, delle donne escluse dai diritti politici, dei giovani galvanizzati dall’idea di un riscatto economico e sociale dei ceti emarginati e dal richiamo ai nobili valori di integrità morale dell’antica Roma.

Gli ultimi capitoli del volume di Massimo Fini sono dedicati ai mesi febbrili e tragici del 63 a.C., tra settembre e dicembre, in cui Catilina decise di organizzare la sua congiura contro lo Stato passando all’azione violenta, tra assassini programmati e falliti, insurrezioni mancate, tradimenti, lettere anonime, denunce, arresti, esecuzioni capitali di alcuni congiurati: avvenimenti tutti commentati dalle quattro famose arringhe ciceroniane in Senato. Fino alla conclusione inevitabile e sanguinosa, con la battaglia combattuta nei pressi di Pistoia tra i 3000 ribelli e i 18000 dell’esercito romano, sigillata dalla morte eroica di Catilina, a cui anche l’ostile Sallustio rese omaggio con queste parole: «Venne trovato lungi dai suoi fra i cadaveri dei nemici; respirava ancora un poco ma gli si leggeva sul volto la stessa espressione di indomita fierezza che aveva da vivo».

 

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www.sololibri.net/Catilina-Massimo-Fini-145826.html    21 gennaio 2017

 

 

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FINZI

GILBERTO FINZI, DIARIO DEL GIORNO PRIMA – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

Gilberto Finzi ha dedicato lunghi e operosi anni alla letteratura in qualità di docente, critico e consulente editoriale, distinguendosi inoltre in modo particolare come poeta impegnato nella ricerca linguistica e sperimentale: ha pubblicato numerosi volumi di versi con le maggiori case editrici italiane, è stato tradotto all’estero, antologizzato, premiato, discusso e celebrato.
Raggiunta la ragguardevole età degli ottantacinque anni, ha deciso di dedicare a se stesso l’omaggio di una pubblicazione, presso le eleganti edizioni Nomos, di una sessantina di poesie scritte nell’arco di pochi mesi, «versi insoliti e inattesi… poesie non liriche, umane, forse irripetibili», tutte incardinate intorno al tema, sofferto e desolante, della senilità: l’età «monstre».
Ovviamente, il fil rouge che lega la maggior parte dei versi (che l’autore stesso definisce, forse con eccessiva severità autocritica, «un insolito mix di metafisica, ricordo, fatti qualunque, sogni… il tutto condito da un linguaggio prosastico e ben poco lirico») è quello della memoria («ieri o ierlaltro, / un secolo addietro»»). Quindi la nativa Mantova, con Piazza Sordello percorsa da turbe di studenti vocianti; i sogni di gioventù irrealizzati (la Parigi-Dakar così spesso vagheggiata); la maestra elementare («Severa crocchia alla nuca, / mano tremula e odore di caffè»); le donne amate, le polemiche letterarie; gli scrittori più ammirati e studiati: Dante, Foscolo, gli Scapigliati, Ungaretti e Quasimodo, i francesi… Ricordi di una vita, che ora appaiono annebbiati e talvolta privi di significanza: «Vengono e vanno gli zero colorati, / i fosfeni, gli inganni di tutto il passato». Ma la meditazione sul tempo che passa riguarda anche lo spettrale presente, fatto di isolamento («La solitudine si svela al mattino / con le ossa che dolgono»), di visite mediche («Ho preso il numeretto, / ho fatto il prelievo, ho dato, / sono in attesa del verdetto»), di disfacimento fisico («lo scadimento dei muscoli, degli arti, / le orbite profonde degli occhi / luciferini, le petecchie / nella pelle infisse come chiodi»). E la vanità dei gesti e dei pensieri, la noia di ore che non passano mai e non si sa come riempire («vivere ormai significa fingere / fingere fingere / che si è vivi», «Uscire, non uscire. / Andare, non andare. / Camminare, forse?»). Anche meditare sulla realtà della morte non aiuta più, e i filosofi tante volte interrogati ed esplorati non sembrano avere più risposte da suggerire: «È quando / non riesci ad allacciarti / le stringhe della scarpe che comprendi». Allora la domanda più insistente riguarda il momento della fine, che si spera improvvisa, indolore e notturna: «Sento il cuore che batte. / Insiste. / Anche questa notte è passata. / Non è successo», e che si tende ad esorcizzare con qualche ironia: «In bagno no, prego, sono tanti i modi, / il luoghi, i destini, non questo / mi tocchi e mi sorprenda, / in bagno, solo, no!» Se il futuro non può riservare sorprese («enigmatica anima finita/ in attesa, in attesa…»), Gilberto Finzi sa però mantenersi poeta fino in fondo, e continua a credere nel miracolo dell’istante da penetrare con ammirata gratitudine: «Molto mi preme / questo attimo, lasciarmelo / vuol dire vivere».

 

«criticaletteraria», 18 marzo 2014

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FIORE

ELIO FIORE, L’OPERA POETICA – ARES, MILANO 2016

L’intera opera poetica di Elio Fiore (Roma, 1935-2002) è stata pubblicata dall’editore milanese Ares in una raffinata ed esaustiva antologia (comprendente testi editi e inediti, biografia, note e contributi critici), curata con appassionata competenza da Silvia Cavalli e introdotta da un’affettuosa prefazione di Alessandro Zaccuri, amico ed estimatore del poeta.
Elio Fiore è stato poeta cristiano quanto pochi altri: cristiano di una fede sorgiva e ingenua, entusiasta e comunicativa. Una fede universale, che abbracciava sia il paganesimo classico, sia il profetismo ebraico, la mistica medievale come la rasserenante meditazione delle religioni orientali: tutti aspetti di un novello e fraterno umanesimo capace di superare confini e ideologie, alla ricerca di una trascendenza illuminata, di una spiritualità capace solo di clemenza, perdono, lode, ringraziamento. Ma, accompagnato dalla grazia del suo nome che ne indicava quasi il destino, Elio Fiore ha conosciuto nella sua esistenza (segnata da povertà, malattia psichica, lavori umili, esclusione sociale) anche il dono quotidiano e assiduo della frequentazione poetica, cioè di una passione febbrile e sempre meravigliata per la poesia. Passione che lo ha portato non solo a una conoscenza approfondita dei maggiori autori della letteratura universale, ma soprattutto alla volontà di coltivare personalmente, concretamente, l’amicizia e l’incontro con tutti i più famosi poeti e intellettuali del suo tempo.
Nell’intero volume si rincorrono infatti, come destinatari di dediche e missive, come recensori, ospiti,corrispondenti epistolari, i nomi importanti di Ungaretti, Montale, Bo, Luzi, Bertolucci, Erba, Raboni, Rafael Alberti, Alfonso Gatto, Liliana Cavani, Carlo Maria Martini, Gianfranco Ravasi, insieme a decine di altri nomi, di persone meno note o del tutto sconosciute: vicini di casa, compagni di lavoro, donne, parenti, religiosi, bambini. Proprio ai bambini il poeta Elio si sente non solo affettuosamente vicino, ma addirittura accomunato da una manifesta innocenza, dal solare e innegabile candore del proprio modo di essere e di scrivere: «I bambini hanno bisogno / di scale, di corde per saltare, / di sfere per misurare il cielo. .. // I bambini hanno bisogno / di prati verdi, del sorriso di Dio. / I bambini hanno bisogno di te,  / uomo,  / per ricordarti di essere stato bambino;
Sogno che tutti i bambini non moriranno più. / (ogni minuto nel mondo 32 bambini / muoiono per fame, lo sapevate?)».

L’infanzia del mondo, la docilità dell’anima, la purezza dei sentimenti, la lievità dei gesti, l’onestà del dettato poetico è ciò che secondo l’autore può salvare l’essere umano, mondandolo da ogni meschinità e colpa, avvicinandolo alla bellezza del creato e alla bontà di Dio: «Signore, il celeste ascolto dei cori / l’eternità la gloria dei tuoi cieli, / e il grano che ondeggia la pianura, / raggiungeranno la vita di ogni uomo. / Anche legati e torturati, oltre le sbarre / la luce porterà la luce del tuo canto…; Vita ti prometto d’essere fedele / alle tue leggi cupe e lievi, morte / paradossale e gioie vita accoglierò…; Nella trattoria sul piccolo porto, / mangio pesce fresco e bevo vino…;
Un poeta non può morire. / Me lo ha insegnato la spiga di Cristo, / la sua giusta vendemmia tra i ricchi e i poveri. / Assassini, ascoltate: un poeta non muore».

La voce trasparente e generosa di Elio Fiore, anche nelle sue riconosciute incertezze stilistiche e negli squilibri formali, mantiene la freschezza stupefatta e priva di sotterfugi delle anime candide: di lui che si vanta dell’elegante cappotto grigio lasciatogli in eredità da Eugenio Montale, di lui che arrossisce se per strada lo riconoscono come poeta, di lui che torna bambino abbracciato alla madre sotto i bombardamenti nel luglio del ’43, miracolato e offerto alla misericordia della Madonna.
Una voce solitaria, dimenticata, a cui oggi il ricco volume de L’ opera poetica rende la dovuta risonanza.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/L-opera-poetica-Elio-Fiore.html          15 giugno 2016

RECENSIONI

FIORE

VINCENZO FIORE, EMIL CIORAN – NULLA DIE, PIAZZA ARMERINA 2018

Nel 2018 la casa editrice siciliana Nulla Die ha pubblicato il volume di Vincenzo Fiore Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia. Vincenzo Fiore (Solofra, 1993) è un giovane filosofo e romanziere, collaboratore di riviste e quotidiani, membro del Progetto di ricerca internazionale dedicato a Emil Cioran. A buon diritto, e con assoluta competenza e passione, ha firmato questo esaustivo saggio, ricchissimo di note, corredato da una bibliografia e da un’appendice riportante una lettera autografa del filosofo romeno, tre ritratti fotografici e un articolo della giornalista venezuelana Carol Prunhuber.

Il libro si compone di tre capitoli, il primo dei quali ripercorre l’esistenza di Cioran dalla nascita in Transilvania nel 1911 alla morte a Parigi nel 1995: interessantissimo perché oltre a informare il lettore in maniera dettagliata su ogni avvenimento pubblico e privato della sua travagliata esistenza, garantisce puntualmente la veridicità dei fatti con testimonianze ricavate da lettere, interviste, brani tratti dalla sua produzione libraria e da interventi critici dei molti studiosi che di lui si sono occupati.
La parallela distribuzione tra notizie biografiche e il pensiero di Cioran è supportata proprio da un’affermazione del filosofo: “Tutto ciò che ho affrontato, tutto ciò di cui ho discorso per tutto il tempo della mia vita, è indissociabile da ciò che ho vissuto. Non ho inventato nulla, sono stato soltanto il segretario delle mie sensazioni… In fondo, tutti i miei libri sono autobiografici, ma di un’autobiografia mascherata”.

Nato a Rasinari, un villaggio di cinquemila abitanti situato nei Carpazi, Emil Cioran era il secondogenito di una famiglia istruita benché di modeste condizioni economiche. Il padre era prete ortodosso, e venne arrestato dalle autorità ungheresi insieme alla moglie con l’accusa di separatismo. L’infanzia di Emil fu quindi tormentata, tra separazioni e frequenti trasferimenti, e continuamente ossessionata dall’idea della morte, soprattutto a causa della sua acuta sensibilità, portata all’introspezione e alla malinconia. “Tanta febbre, tanta estasi e tanta follia”, ebbe a scrivere ricordando i suoi turbamenti giovanili, lo smarrimento di fronte agli avvenimenti politici, la sofferenza continua per l’insonnia, lo studio esaltato di argomenti religiosi – in particolare sul misticismo medievale -, di musica, di lingue straniere. Laureatosi nel 1932 con una tesi sull’intuizionismo di Bergson, l’anno successivo pubblicò il suo primo libro in lingua romena, Al culmine della disperazione, che metteva in luce la sua angoscia per la futilità della vita, il totale nonsenso di ogni attività quotidiana, la corruzione morale dell’essere umano. In quegli anni giovanili, si avvicinò a posizioni reazionarie e antisemite, convinto che l’ascesa al potere di Hitler potesse risvegliare la Romania dallo stato di abbrutimento politico ed etico in cui si era assopita per secoli, grazie a una sorta di trasfigurazione che dovesse favorire l’avvento di una “nuova umanità”. Tali posizioni ideologiche furono poi rinnegate dal filosofo con vergogna e pentimento, soprattutto dopo il suo volontario esilio in Francia a partire dal 1940.

Da questa data in poi, l’esistenza di Cioran non conobbe eventi biografici particolarmente traumatici, essendo totalmente dedicata alla riflessione filosofica e alla scrittura. Nel 1942 conobbe Simone Boué, giovane insegnante che rimase al suo fianco per tutta la vita, con cui alla fine della guerra si stabilì definitivamente a Parigi con lo statuto di apolide, adottando la lingua francese nella comunicazione quotidiana e in ogni scritto. Ritornato sulle posizioni teoretiche della sua giovinezza, addirittura radicalizzate, diede avvio a una personale crociata intellettuale contro il cristianesimo, la filosofia classica e le ideologie contemporanee. Con uno stile che lo assimilava a Nietzsche, non scrisse trattati sistematici, servendosi invece di aforismi e frammenti di prosa, rifiutando sia ogni rigida strutturazione sia qualsiasi artificio linguistico. Nel negare autenticità ai filosofi dogmatici e agli accademici, Cioran affermava che esistono solo due grandi questioni gnoseologiche: come sopportare la vita e come sopportare se stessi. L’unica pratica filosofica esercitabile era per lui lo scetticismo, come de-fascinazione, eliminazione di tutte le ideologie e astrazioni concettuali, in favore del vissuto rispetto alla teoria. Gli obiettivi polemici che il filosofo si pose furono quelli della negazione della Provvidenza e di un Dio creatore e benefico (Il funesto demiurgo, 1969), il contrasto al fanatismo ideologico e al totalitarismo, lo scandalo della nascita, ancora più dolorosamente negativa della morte (L’inconveniente di essere nati, 1973). Il totale pessimismo del suo pensiero lo avrebbe probabilmente condotto al suicidio già in giovane età, se non avesse trovato nella scrittura una partica auto-terapeutica che serviva a differire l’idea punitiva della fine volontaria.

Il merito di Vincenzo Fiore è di aver saputo ricostruire, attraverso un linguaggio accessibile a tutti, lineare ed elegante, evoluzioni e involuzioni del pensiero di Cioran, appoggiandosi non solo alla propria appassionata interpretazione, ma anche alle numerose e approfondite analisi di critici non sempre benevoli verso le provocatorie e polemiche tesi dell’antifilosofico filosofo romeno.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net      16 novembre 2023

 

RECENSIONI

FIORI

UMBERTO FIORI, CHIARIMENTI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1996

Che al nome corrisponda la cosa, al segno il senso, alla forma il concetto; che parlare significhi comunicare qualcosa di oggettivo, non essere fraintesi, farsi capire: è probabilmente desiderio di tutti, destinato a venire disilluso dalla quotidianità e banalità del discorrere comune. La chiarezza espositiva costituisce in genere l’obiettivo primario della saggistica, molto meno della narrativa, meno che mai, poi, della poesia: la quale fa della finzione, della metafora, dello straniamento il carattere peculiare della sua scrittura. Tuttavia, esistono poeti “espositivi”, piani, che usano un linguaggio privo di artifici: fanno parte di una tradizione collaudata, secolare, dai realisti del ’200 a Saba. Poeti il cui tratto specifico non è il gioco letterario o il lavoro sulla lingua, bensì lo sguardo che rivolgono a ciò che hanno intorno e dentro di sé. Uno sguardo da clic fotografico, intento a illuminare particolari solitamente trascurati.

Uno di questi poeti, Umberto Fiori, ha intitolato Chiarimenti un suo volume di versi dominati dalla volontà di illuminare con ossessiva insistenza, disarmante caparbietà, alcuni aspetti del reale. Fiori si interroga, ad esempio, su Il discorso e la voce, sulle parole che usiamo e sono monche, inespressive, fuorvianti: “Sono pronte, le parole. / Gli stanno in faccia / e non dicono niente”. Sui discorsi che scambiamo tra amici, e rimangono vuoti e futili, quando non addirittura offensivi, aggressivi: “Sempre un dunque ti aspetti / da quelle quattro chiacchiere, / una stretta finale, un chiarimento. / Invece, niente: a parte quando “era inutile, / non potevamo intenderci su niente. / Aveva poco senso tu dici, / loro travisano”, “Anche stasera / ognuno ha detto la sua / senza che poi nessuno, / alla fine, / riuscisse a chiarire niente. / Ma solo chi ha parlato veramente / può veramente essere frainteso”, “Dirsi quelle due cose, / con le persone, / più ci si tiene più / sembra impossibile. / A volte si sta lì davanti a loro / come i parenti al cimitero / coi fiori in mano / davanti ai marmi, alle foto”.

Questa situazione di incomunicabilità diventa disagio esistenziale, incapacità di riferirsi non solo agli altri, ma anche a se stessi: “E intanto se lo sente, il mondo, / proprio qui, / sulla punta della lingua. / Una cosa su tre / fa un verso, gli manca il termine. / Zitto, però, non ci sa stare”. Se le parole tradiscono, deludendo chi le ascolta e chi le dice, anche i pensieri e i gesti non corrispondono mai alle intenzioni, la realtà esteriore rimane incompresa e incomprensibile, non definibile, non riportabile a coordinate precise: “A soffi, a onde, / il vuoto ti viene addosso. / Sentila che ti scappa tra le gambe / e ti saluta, la verità”, “Così ce ne andiamo in giro / nei bar, sui tram: ognuno un santo mistero / messo in piazza, un esempio / che nessuno può seguire”, “Giù, giù, sul fondo / si va, dove le cose / ‒ tutte – sarebbe uguale / se non ci fossero mai state”.

Chi scrive rimane stranito, estraneo, incapace di definirsi in un ruolo preciso: “Si sta col cielo, qui, / e con la terra, / come per strada i piatti / col frigo e le piante grasse / per un trasloco”, “Sentivo, ora, che loro – alle mie spalle ‒ / erano fatti della pasta del mondo, / solida, chiara. E io, di niente”, “Tre case / stanno là, sopra il ponte, / belle come un saluto. / Solo a loro io bado / qui, con le mani in mano, / con l’occhio del pastore / che da lontano conta le sue capre”.

Averlo, l’occhio del pastore, concreto, fattivo, e capire le cose, sapersele spiegare nella loro semplicità. Riuscire a chiarire ciò che esiste sarebbe, secondo Umberto Fiori, il dovere (un imperativo filosofico, quasi) del poeta. È un assunto contrario a quanto scriveva Giorgio Caproni, che non nel chiarimento, bensì nel confondimento indicava la missione di chi scrive versi: “Imbrogliare le carte, / far perdere la partita. / È il compito del poeta? / Lo scopo della sua vita?”.

 

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Chiarimenti-Fiori.html      19 marzo 2020

 

 

RECENSIONI

FIORILLO

CARMINE FIORILLO, MASCHERE DI TECNODEMOCRAZIA – PETITE PLAISANCE, PISTOIA 2015

I due saggi qui riuniti offrono al lettore, sulla scia delle indicazioni filosofiche di Heidegger, Severino e Baudrillard, una animosa e motivata critica dell’oggi, della sua progressiva disumanizzazione, del suo arrendersi al dominio economico e ideologico del potere. Prendendo le mosse da un’acuta interpretazione del mito di Narciso, Carmine Fiorillo analizza come la soggettivazione innamorata di sé precluda il riconoscimento dell’altro e il confronto con la realtà, immobilizzando il narcisista in una fragile e sempre negativa autoreferenzialità, incapace di empatia e contemporaneamente dipendente da un’illusione di onnipotenza. Tale abbaglio si riflette nell’egemonia contemporanea della tecnica, certa di poter abolire dolore, malattia e morte creando artificialmente un ambiente di asettica perfezione, in cui tuttavia l’individuo perde sia la capacità di interagire con gli altri, sia la sua peculiare insostituibilità, convinto a rinunciare a rapporti affettivi più profondi e a valori quali la saggezza e la solidarietà, considerati desueti e inutili. «L’uso costante dell’apparato tecnico riduce le condotte personali a comportamenti standardizzati dal funzionamento delle macchine e dalle procedure richieste dalla rete delle connessioni tecniche, cosicché l’individuo diventa nel suo agire un esemplare del tutto intercambiabile». In questo aggrapparsi individuale al «flusso del nulla», in cui riveste più importanza ciò che si ha e si può mostrare di ciò che si è, l’umanità si de-realizza, adeguandosi a un modello sociale mercantile, assumendo comportamenti concretistici, concentrati su una fattività esteriore e su pratiche contingenti, che difendano da un’esplorazione dell’interiorità e da relazioni interpersonali più autentiche e profonde. La sola reazione possibile è quindi la riscoperta delle emozioni, «un po’ di volontario anacronismo», e il rifiuto di collaborare al meccanismo economico di un potere fagocitante, appiattito sul profitto e sul successo.

IBS, 11 maggio 2017

 

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FISHER

MARK FISHER, IL MILIONARIO – BOMPIANI, MILANO 2017

Il Milionario, pubblicato a Londra nel 1997, e da noi nel 2001, per essere riproposto da Bompiani lo scorso anno, ha venduto nel mondo più di due milioni di copie, ed è stato tradotto in una trentina di lingue. Un best seller planetario, quindi, che deve la sua fama non solo allo stile semplice, accattivante, didascalico in cui è scritto, ma soprattutto al messaggio positivo e incoraggiante di cui si fa tramite. Il sottotitolo recita infatti “Chi fa ciò che ama è come un re”, sull’esempio di molta manualistica – soprattutto statunitense – di self help, di propedeutica all’autostima e al miglioramento del sé, lontana da qualsiasi approfondimento psicanalitico o indagine socio-politica, e vicina invece ai più blandi suggerimenti sul vivere bene che ci impartiscono quotidianamente i media.

L’autore, Mark Fisher (1953-2017) nato a Montreal ma vissuto a Londra, era un vulcanico intellettuale, critico musicale, docente universitario, blogger e acclamato conferenziere.

Il Milionario si presenta, sia formalmente sia nell’obiettivo didattico, come una fiaba a lieto fine. Racconta la storia di un giovane pubblicitario, squattrinato e privo di particolari doti fisiche, culturali, caratteriali, che insegue il sogno di diventare ricco, anzi ricchissimo. Questo è l’incipit del romanzo: «C’era una volta un giovanotto che voleva diventare ricco. Perché era nato povero. E soffriva della propria povertà. Come di una malattia».

Come in ogni favola che si rispetti, il ragazzo si imbatte inaspettatamente in un mentore messianico, (il milionario, appunto): vecchio saggio che lo ospita nel suo castello e gli impartisce alcuni fondamentali insegnamenti, che sembrano ricalcare il programma berlusconiano del successo: “volere è potere”. Attraverso alcuni semplici esempi comportamentali, l’anziano capitalista trasforma l’ingenuo e sprovveduto giovane in un uomo consapevole delle proprie potenzialità, e destinato a vincere in ogni settore dell’esistenza, e soprattutto su se stesso. Sostanzialmente, i suggerimenti fornitigli sono quasi banali: praticare gentilezza, pazienza, generosità, precisione, parsimonia, semplicità, ottimismo, ambizione, fiducia nel caso, concentrazione, utilizzo di un linguaggio appropriato e di un vestiario elegante… Ma soprattutto l’esercizio dell’introspezione attiva, della solidarietà con il prossimo e dell’affidamento a Dio. Un vademecum facilmente applicabile da chiunque, che inevitabilmente porterà al potere economico, alla serenità affettiva, alla benevolenza di tutti e verso tutti.

 

 

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https://www.sololibri.net/Il-milionario-Mark-Fisher.html           6 febbraio 2018

 

 

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FITZGERALD

FRANCIS SCOTT FITZGERALD, PRIMO MAGGIO – GARZANTI, MILANO 2021

Questo racconto di Francis Scott Fitzgerald, ambientato nella New York degli anni Venti, rivela tutte le caratteristiche principali della scrittura dell’autore statunitense: veloce, brillante, caustico come l’ambiente che descrive, eppure anche amaramente consapevole delle ingiustizie sociali e delle inquietudini politiche che agitavano l’epoca rappresentata.

La metropoli americana del primo dopoguerra era invasa da truppe di reduci desiderosi di riappropriarsi della loro vita interrotta dal conflitto mondiale, e di recuperare il ruolo economico perduto. La crisi industriale aveva creato masse di disoccupati che reagivano alla perdita del lavoro con manifestazioni violente e ribellioni sindacali, fomentando disordini spesso sedati con la forza dall’esercito: al panico che serpeggiava tra la piccola borghesia e gli operai, corrispondeva invece nelle classi più abbienti. un clima di esaltazione e di ritrovata fiducia nel futuro.

Primo maggio, pubblicato nel 1920, si apre appunto sulla contrapposizione evidente delle due anime esistenti nella popolazione newyorkese durante quella che fu in seguito definita “età del jazz”, grazie proprio alla narrativa di Fitzgerald. Da una parte l’entusiasmo della vittoria animava riti festaioli e celebrazioni ufficiali (“Una guerra s’era fatta e s’era vinta, e la patria dei vincitori era un tripudio di archi di trionfo, una pioggia di fiori sgargianti, bianchi, rossi e rosati… Non s’era mai visto tanto splendore nella grande città…”), dall’altra “una folla da civili, cenciosi e un po’ sfatti dall’alcol… brutti, malnutriti, sprovvisti di tutto… gettati alla deriva come legni sin dalla nascita”, si fronteggiavano tra rivendicazioni socialiste e posizioni esasperatamente patriottiche e belliciste, provocando tumulti e colluttazioni.

In quel primo maggio del 2019 molti personaggi e molte vicende si muovevano intorno alle reception, ai bar e alle stanze di alcuni hotel di lusso (Biltmore, Delmonico, Commodore, Childs’), tra la Quinta e la Cinquantanovesima Strada. Due ventiquattrenni laureati a Yale, Gordon Sterrett – tornato dalla guerra depresso e immiserito -, e Philip Dean – elegante e viziato rampollo di una famiglia facoltosa, impersonano i due caratteri giovanili prevalenti nella società americana.

Gordon, innamorato dell’affascinante compagna di università Edith Bradin (“di una bellezza totale, infinitamente delicata, assolutamente perfetta”) chiede a Philip di aiutarlo a liquidare con trecento dollari un’altra ragazza che lo tormenta e ricatta, pretendendo da lui l’ufficializzazione del rapporto. Il rifiuto dell’amico ricco di soccorrere il collega povero innesca una serie di situazioni paradossali, che raggiungono il culmine durante una festa da ballo in onore degli ex studenti di Yale.

Tra alcol, scazzottate, corteggiamenti, gelosie e personaggi equivoci infiltrati tra gli ospiti, Gordon e Edith si incontrano dopo molto tempo, rimanendo però reciprocamente delusi. La festa degenera, spostandosi e dilagando in strada, dove un gruppo di rivoltosi assalta la sede di un giornale riformista, diretto dal fratello di Edith. I disordini si concludono tragicamente, con un morto e alcuni arresti. Altrettanto tragica sarà la scelta di Gordon di sottrarsi a un destino professionalmente e sentimentalmente fallimentare.

© Riproduzione riservata  SoloLibri.net            14 luglio 2021

 

 

RECENSIONI

FITZGERALD

FRANCIS SCOTT FITZGERALD, SOGNI D’INVERNO – FELTRINELLI, MILANO 2021

Feltrinelli ha pubblicato nella brillante collana Zoom un nuovo ebook di Francis Scott Fitzgerald (1896-1940): Sogni d’inverno. Brillante e sagace, questa collana, perché i racconti propone sono veloci, letterariamente non impegnativi, però scritti con eleganza e accuratezza: che di questi tempi non è cosa da poco. Permettono una lettura rapida e mai soporifera, da affrontare in mezz’ora, magari sul treno, o in una pausa di lavoro, o prima di andare a dormire, a un costo minimo, o addirittura nullo per gli abbonati a Kindle unlimited.

Fitzgerald è tra gli autori più gettonati, proprio per la qualità della sua scrittura, scorrevole e ironica, e per i temi che affronta: i rapporti di coppia e l’ambiente sociale americano dei ruggenti anni ’20. Sempre piacevolmente spigliato nel ritrarre i personaggi, in questo testo troviamo un’attenzione più marcata e suggestiva nelle descrizioni naturali, ricche di metafore: “In autunno, quando le giornate diventavano frizzanti e grigie e il lungo inverno del Minnesota calava come il coperchio bianco di una scatola…”, “nella brutta stagione lo offendeva vedere i terreni in forzato abbandono, afflitti da passeri arruffati… Quando saliva sulle colline, il vento soffiava freddo come l’infelicità”, “osservò le onde accavallarsi al docile soffio del vento, la melassa d’argento alla luce della luna piena settembrina. Poi la luna avvicinò un dito alle labbra e il lago divenne una pozza d’acqua limpida, pallida e silenziosa”.

Protagonista della novella è Dexter Green, un ragazzo nato in una modesta famiglia di negozianti, che riesce a riscattare le sue origini attraverso una carriera imprenditoriale di successo. A quattordici anni fa il caddie (portabastoni) in un lussuoso campo da golf di Sherry Island per trenta dollari al mese, e un pomeriggio rimane folgorato dall’incontro con una splendida e capricciosa undicenne, Judy Jones, al cui tono sprezzante e imperioso si ribella, rifiutandosi di mettersi al suo servizio. Questa disobbedienza inaugura per Dexter una serie di altre numerose resistenze al corso degli eventi che segneranno non solo il suo percorso professionale, ma anche quello sentimentale.

I due giovani si incontrano di nuovo una decina di anni più tardi, quando lui, ormai laureato e proprietario di una serie di remunerative lavanderie, scorge Judy nuotare sensuale e bellissima nel lago vicino allo stesso campo da golf che li aveva visti insieme per la prima volta: “Le sue braccia, color noce, si muovevano sinuose tra le monotone increspature platino; prima emergeva il gomito, poi l’avambraccio spingeva all’indietro scandito dallo scroscio d’acqua, per riemergere e affondare di nuovo aprendosi un varco”. La ragazza avvia uno sfrontato corteggiamento, e lo invita a cena a casa sua. Da banale flirt estivo, il rapporto tra i due si fa man mano più stringente. Judy rivela una personalità spregiudicata, passionale ed egocentrica; Dexter, conquistato dal fascino di lei, si lascia irretire, desideroso di un coinvolgimento sempre maggiore e sempre negato. Dopo un anno di sofferenza e di tradimenti patiti in silenzio, decide di lasciarla (“Lei lo aveva trattato con interesse, con incoraggiamento, con cattiveria, con indifferenza, con disprezzo”), e si fidanza con la più responsabile, tranquilla e solida Irene Scheerer. “Sapeva che Irene non sarebbe stata altro che una tenda tirata alle sue spalle, una mano tra luccicanti tazze da tè, una voce che chiama i figli…”, eppure con lei si sente più sicuro di sé e di un sereno futuro da costruire.

Proprio alla vigilia delle nozze, tuttavia, si ripresenta Judy, sfrontata e infelice, che implora Dexter di sposarla. Rotto il fidanzamento con Irene, Dexter si ritrova ancora stregato, illuso e infine di nuovo abbandonato dall’inquieta e implacabile seduttrice. Partito volontario per la guerra “per liberarsi dalle ragnatele di un groviglio di emozioni”, al suo ritorno in una luccicante New York come businessman, troverà la sua vendetta venendo casualmente a conoscenza dell’esistenza infelice in cui si dibatteva la donna che era riuscita a ferirlo di più, facendolo innamorare come non gli sarebbe più successo.

 

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7 ottobre 2021

 

 

 

RECENSIONI

FLAUBERT

GUSTAVE FLAUBERT, LETTERE D’AMORE A LOUISE COLET – SE, MILANO 2018

Chissà se André Gide diceva la verità, quando scrisse, a proposito dell’epistolario flaubertiano “Se l’opera intera di Flaubert dovesse essere messa su un piatto della bilancia, la sola Corrispondenza, gettata sull’altro, la supererebbe; e se mi fosse permesso di conservare soltanto l’una o l’altra, io sceglierei quest’ultima”. È certo comunque che queste Lettere d’amore a Louise Colet, pubblicate dalle edizioni milanesi SE, sono di una bellezza struggente, di un’accesa intensità emotiva, oltreché di superba raffinatezza formale.

Gustave Flaubert (Rouen 1821-Croisset 1880), autore di capolavori universalmente riconosciuti, aveva ventiquattro anni e solo vaghe ambizioni letterarie, quando nell’estate del 1846 incontrò Louise Colet nell’atelier parigino dello scultore Pradier, dove si era recato per ordinare due busti funerari per il padre e la sorella morta di parto, e dove lei posava come modella. Trentaseienne, sposata e madre di una figlia, già amante del filosofo Victor Cousin e corteggiata da molti, animatrice di salotti culturali, scrittrice e poetessa affermata, Louise era bellissima. Capelli castani lunghi e morbidi, occhi di un azzurro cupo, collo e spalle armoniosamente disegnati, voce suadente e sorriso aperto, temperamento altero e impulsivo: così descriveva sé stessa e veniva descritta dagli ammiratori. L’attrazione reciproca tra Gustave e Louise sfociò subito in una relazione tempestosa, fatta di slanci e rimproveri, premure e accuse, sensualità irruente e improvvise freddezze, animata da un fitto scambio epistolare, prolungatosi per una decina d’anni e scandito in due fasi: la prima, accanita e sofferta, dal 1846 al 1848, la seconda dal 1851 al 1855, più riflessiva e incentrata su temi intellettuali e letterari.

Il volume qui presentato riporta esclusivamente le lettere del primo biennio, in cui i due amanti si concessero solo sei incontri, interrotti spesso da scenate di reciproca gelosia e puntigliose recriminazioni. Successivamente, Flaubert si regalò distrazioni, viaggi, e un lungo periodo di formazione esistenziale e culturale in Medio Oriente, in Grecia e in Italia. Tornato dall’esperienza esotica psicologicamente trasformato e deciso a dedicarsi in maniera esclusiva alla propria arte, nelle più sporadiche e distaccate missive a Louise manifestava le sue teorie estetiche, vantando soprattutto la sua dedizione al romanzo che lo consacrerà a una fama mondiale. Il progressivo allontanamento tra i due si rivelò inevitabile. Gustave era appassionato ma incostante, incapace di rinunciare alle proprie abitudini domestiche, agli affetti familiari e alle amicizie, alle frequentazioni letterarie, all’ossessione della scrittura coniugata a un’ambizione divorante. Louise, femminilmente più istintiva e generosa, incline al sospetto e possessiva, era però disposta a sacrificarsi nel quotidiano pur di salvare l’impeto del rapporto amoroso.

Le lettere di lei sono andate perdute, o più probabilmente sono state distrutte: dovevano essere febbrili e ulcerate come l’inquietudine che la struggeva. La sua vendetta dopo l’abbandono venne consegnata a due romanzi, in cui scherniva le grettezze e gli egoismi dell’amante, mentre Flaubert si servì più scaltramente della vicenda sentimentale e dell’esperienza epistolare nella composizione del suo chef d’oeuvre, Madame Bovary.Le frasi e i saluti di commiato vergati da Gustave indicano il fervore che lo animava nei primi mesi della corrispondenza: “Addio, addio. Tutte le tenerezze che vorrai”, “Addio, addio, poso la testa sui tuoi seni e ti guardo dal basso in alto come una madonna”, “Addio, ti bacio dove ti bacerò, là dove ho voluto. Vi ci metto la bocca, mi rotolo su di te, mille baci. Oh! dammene, dammene!”, “Tuo, dalla sera al mattino, dal mattino alla sera”, “Tuo, tuo corpo e anima”, “Ho ancora sete di te. Non sono sazio, sai! Addio, addio”, “Tuo che ami e che t’ama”, “Addio, tuo, su di te”, “Che il Dio dei sogni ti mandi da me”.Tanta passione inizia però a raffreddarsi già nel secondo anno della relazione, i baci diventano più casti e quasi fraterni, per poi ibernarsi del tutto nel saluto del biglietto conclusivo, quando da tempo i due si davano ormai del “Voi”: “Grazie del dono. Grazie dei bellissimi versi. Grazie del ricordo. Vostro.” (Flaubert non si firmava, forse per prudenza verso lo stato coniugale dell’amante).Le lettere scritte quotidianamente nei primi mesi seguiti al loro incontro, indicano quanto intenso e radicato fosse il trasporto del giovane verso l’affascinante dama parigina: è divertente notare come i messaggi reciproci venissero recapitati in giornata, nonostante la distanza tra Croisset, in Normandia ‒ dove lui risiedeva con la madre, il fratello, il cognato e due nipotine ‒, e la capitale dove viveva lei con marito e figlia. Incredibilmente, così Gustave raccomandava a Louise: “quando mi scriverai la domenica, impostala presto; sai che gli uffici chiudono alle due”. Qual era il valore di queste pagine per Flaubert? Quasi feticistico; le conservava in un cassetto come reliquie, insieme al fazzoletto, alle pantofoline, a una ciocca di capelli dell’amata: “le rileggo, le tocco. Una lettera è come un bacio, l’ultima è sempre la migliore. Quella di stamattina è qui. Fra la mia ultima frase e questa non ancora finita me la sono riletta per rivederti più da vicino e sentire più forte il profumo di te. Penso alla posa che devi avere mentre scrivi e ai lunghi sguardi vaghi che getti voltando le pagine. È sotto quella lampada che ha fatto luce ai nostri primi baci, e su quella tavola su cui scrivi i tuoi versi. Accendila la sera la tua lampada d’alabastro, guardane la luce bianca e pallida ricordando la sera in cui ci siamo amati”.Le manifestazioni di affetto sincero, di ammirazione, di desiderio fisico si alternano con considerazioni più generali sulla vita domestica, sulla morale (“Non cerchiamo tutti quanti di soddisfare la nostra natura secondo i nostri diversi istinti?”), o con valutazioni sull’arte (“Fra tutte le menzogne è ancora la meno menzognera”), sulla letteratura (“Non bisogna sempre credere che il sentimento sia tutto, nelle arti non è nulla senza la forma”), sulla propria scrittura (“Mi sono sempre proibito di mettere qualcosa di personale nelle mie opere, eppure ve ne ho messo molto. Ho sempre cercato di non rimpicciolire l’Arte per soddisfare una personalità isolata. Ho scritto pagine tenerissime senza amore, e pagine incandescenti, senza alcun fuoco nel sangue”, “Il grottesco triste ha per me un fascino inaudito. Esso corrisponde agli intimi bisogni della mia natura buffonescamente amara”).Rimane comunque preponderante in chi legge l’interesse per il vincolo che legava i due personaggi, la dedizione incondizionata di lei, e la difesa dell’indipendenza di lui, talvolta giustificata dall’esigenza di non lasciare sola l’anziana madre, più spesso (al di là di ogni appassionata dichiarazione d’amore) dalla consapevolezza del proprio ineliminabile egoismo, dell’allergia ai legami soffocanti, di un’orgogliosa autosufficienza emotiva.In una delle ultime lettere, seguita a un violento litigio, Gustave scriveva: “Avrei voluto amarti come mi amavi tu, ho lottato invano contro la fatalità della mia natura, niente, niente. Il cardo non è buono che per gli asini, tanto peggio per quelli che vi si sdraiano sopra come si fa su un prato… Io che amo sopra ogni cosa la pace e il riposo non ho trovato in te che il turbamento, burrasche, lacrime o collera… Hai voluto, tu, trar sangue da una pietra. Hai scalfito la pietra e ti sei fatta sanguinare le dita. Hai voluto far camminare un paralitico, il suo peso è ricaduto tutto su di te ed è diventato ancor più paralitico. No, non c’è acredine, né collera, né odio, ma un profondo e triste convincimento… C’è sempre una devozione pronta e, se la parola non ti ferisce, una smisurata gratitudine. Mi chiedi che almeno i nostri ricordi mi riportino qualcosa; ebbene, come la prima sera un casto bacio sulla fronte. Addio, immagina che sia partito per un lungo viaggio. – Ancora addio, incontra qualcuno più degno, per dartelo andrei a cercarlo in capo al mondo. Sii felice”.Poco prima del silenzio definitivo, Louise confida a Gustave – che non vedeva da molto tempo – una notizia inaspettata, probabilmente quella di una nuova gravidanza. Flaubert reagisce con educata comprensione ma sostanziale indifferenza: “Qualunque cosa accada contate sempre su di me. Anche quando non ci scrivessimo più, anche quando non ci vedessimo più, ci sarà sempre fra di noi un legame che non si cancellerà, un passato di cui sopravviveranno le conseguenze”.

Se Sartre nella sua severa biografia flaubertiana L’idiota della famiglia ebbe a definire l’odiosamato autore dell’epistolario “un incurabile nevrotico”, al lettore contemporaneo rimane invece l’impressione di aver disigillato attraverso queste pagine la natura scorticata di due anime sprofondate in un baratro di rancore e incomprensione mentre tentavano di raggiungere la vetta dell’intensità amorosa, pretendendo troppo da sé stesse e dal sentimento illusorio e spietato che le aveva unite.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 20 giugno 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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