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FO

ALESSANDRO FO, MANCANZE – EINAUDI, TORINO 2014

Quali siano le mancanze cui allude il titolo di questo delicato libro di Alessandro Fo, possiamo solo ipotizzare da vaghe tracce disseminate qua e là nel testo: forse i «Reliqua desiderantur», scritta posta in calce ai tre capitoli di cui si compone il volume (e allora ci viene in soccorso il latino, materia d’insegnamento dell’autore all’Università di Siena, in cui eccelle come traduttore egregio di Virgilio, Catullo, Apuleio, Rutilio Namaziano…). «Il resto manca», ciò che si è perduto rimane tra i desideri inespressi o irrealizzati. Come, forse, l’identificazione totalizzante con la poesia quando essa esprima e sveli «nella più favorevole posa, momenti alti, significativi (per assenza o per incuria di osservatore) negletti, dell’esistenza di cose e persone». Così, prosasticamente, il poeta chiarisce nelle esaurienti note finali. E ancora, più poeticamente, in versi in cui indica la mancanza come «insufficienza», «nostalgia di amorosa visione», «sera / priva d’angeli o di affetti». La poesia, nelle intenzioni dichiarate e spesso ribadite dell’autore, serve proprio a recuperare dolcezza, sensibilità, attenzione verso ogni aspetto della vita che ci circonda, facendoci crescere in consapevolezza e generosità, aprendoci a una visione meno materiale e scontata dell’esistenza. Alessandro Fo uomo di fede, più per una particolare e ormai in disuso disposizione dell’animo che per un’adesione (che pure esiste, si avverte concretamente salda tra le righe) al cattolicesimo. Una sorta di aspirazione quasi francescana al rispetto per ogni forma del vivere («scuotendo per i passeri / la tovaglia in balcone», «il lastricato / è cosparso di chiocciole. / Le schiaccio / involontariamente, / e mi dispiaccio / di sterminare vite, / anche minuscole», «mentre resto intento a una sua vena / (come fa a funzionare? / chi l’ha mossa e la fa così pulsare?)»). Muovendo da un doloroso evento biografico, come l’incidente stradale occorso alla moglie Francesca, o la morte del padre per tumore, il poeta inizia un suo percorso di conversione e rivelazione, una vera ascensione spirituale, che lo spinge a recuperare gli aspetti più tradizionali della nostra religione (le parabole evangeliche, la recita delle preghiere, la frequentazione della Messa…), e ad adottare un nuovo sguardo, più sorgivo, con cui affrontare l’esterno, nel tentativo di «accostarsi al divino non dalla devozione o dalla riflessione teologica, ma da quaggiù, sorprendendone infinitesimali particelle in questa realtà». Questa scoperta del divino nella bellezza, nella tenerezza, nella discrezione non compete infatti esclusivamente al sentire religioso, eppure ha in sé qualcosa che rimane magicamente epifanico. Alessandro Fo lo intuisce, con assoluta e commossa riconoscenza, nella musica, ad esempio. Soprattutto in Chopin, a cui dedica tutta la seconda sezione del volume: ritrovando nel suo compositore d’elezione («Ariel del pianoforte», «ponte arcobaleno», «un Virgilio polacco», «gioco di carezza e di abbandono») una sorta di alter ego, una corrispondenza alla sua stessa gentilezza, scandita nei preludi, nei valzer e negli studi più amati. Bellezza come dono imprevisto e imprevedibile, talvolta immeritato, che si concretizza nell’eleganza di sottili figure femminili incontrate per strada («L’infinita bellezza del creato / si rifrange in singole creature») e narrate recuperando stilemi stilnovistici (««Così vo cercand’io fra opachi effetti, / donna, quanto è possibile in altrui…»). Nell’ultimo capitolo del libro sono gli Angeli portatori di «una dimensione / di una metafisica dolcezza»: angeli carnali e insieme disincarnati, che si mescolano a noi nella vita quotidiana, figure salvifiche e illuminanti, in cui il poeta si imbatte sui banchi di una chiesa in una semideserta funzione infrasettimanale, o nelle stazioni, o in solitarie passeggiate senesi. Ragazze spaurite o trasgressive, anziane eleganti, preti indiani, archeologi in piscina, bambine incantate, giovani donne down, figure rese riconoscibili da «un’andatura appena un po’ sospesa / fra la fluidità e l’esitazione», che sembrano destinate da sempre al «mondo dei gentili», con lo scopo di riscattare la banalità, la sofferenza, la trascuratezza. A queste apparizioni miracolose il poeta pare voler accomunarsi, offrendo al lettore un ritratto di sé consapevolmente e orgogliosamente diverso da quello del letterato da salotto («Amo i versi, e altre schegge / di libri e vite», «Ero abbastanza felice, stavo bene / con i miei cari e le cose belle e vere / dentro i miei libri», «Amo la dissolvenza di me, della mia scia»). Nella volontà non tanto di proporre ai lettori soluzioni di vita, risposte fideistiche, quanto di suggerire trame, «filamenti che in modi anche eccentrici collegano punti, disposti chissà dove ‘a piacere’ oltre la nostra percezione». Alla poesia, quindi, Alessandro Fo demanda questo dovere di illuminare e salvare «le mancanze»: a questi suoi versi che sanno unire tradizione classica e ritmi più narrativi, fedeltà alla metrica dei settenari e gusto delle ripetizioni (unico artificio retorico, cui si affida più frequentemente che alla rima). Convinto della necessità di un messaggio espresso in contenuti – mai polemici, mai ironici, mai dissacranti – più che in velleitari sperimentalismi formali. Poesia che sappia saldare lo iato tra cielo e terra, eternità e tempo, Creatore e creature: «ispira diffidenza la poesia, / non convince la delicatezza, / poca gente è all’altezza dell’affetto, / quasi niente è il rispetto dell’amore». Alle mancanze, nostre e di tutti, essa può forse offrire una risposta.

«Caffè Michelangiolo», aprile 2014

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FOA

ANNA FOA, GIORDANO BRUNO – IL MULINO, BOLOGNA 1998

Il Giordano Bruno di Anna Foa, pubblicato più di vent’anni fa e ristampato nel 2015, mantiene ancora oggi freschezza e appetibilità di lettura per chi volesse avvicinarsi all’affascinante e controversa figura del filosofo di Nola in maniera non specificamente accademica. L’autrice introduce il suo racconto con la descrizione del monumento eretto in Campo de’ Fiori a Roma nel giugno del 1889, che ritrae il frate eretico “avvolto nel saio domenicano, un libro socchiuso fra le mani, il cappuccio abbassato sul volto, pensieroso e raccolto”. La statua, opera di Ettore Ferrari, fu posizionata, dopo molte polemiche, proprio nella piazza in cui Giordano Bruno era stato arso vivo tre secoli prima, il 17 febbraio del 1600, dopo la condanna dell’Inquisizione approvata dalla Chiesa di Clemente VIII e del Cardinale Bellarmino. La stessa Chiesa che a fine ’800 si oppose anche alla celebrazione laica del filosofo, continuando a vedere in lui “il simbolo di una modernità aborrita e combattuta”. Anna Foa partendo proprio dalle dispute sorte tra l’area cattolica e quella liberale-massonica riguardo all’opportunità di dedicare un monumento a Bruno, ripercorre tutta la travagliata esistenza del pensatore campano, ricostruendone l’evoluzione filosofica e teologica, le resistenze, i dissensi, e gli entusiasmi suscitati dalle sue teorie, i numerosi processi, fino alla condanna finale e alla morte.

Giordano Bruno era nato a Nola nel 1548, da famiglia umile; a quindici anni entrò come novizio nel convento di San Domenico a Napoli, scontrandosi presto con i suoi superiori a causa sia del suo temperamento, collerico e sprezzante, sia per le sue provocatorie affermazioni contro il devozionismo e il culto dei Santi e della Vergine. Lasciato l’abito monacale nel 1576, iniziò una serie di peregrinazioni attraverso l’Italia e l’Europa (Ginevra, Lione, Tolosa, Parigi, Londra, Wittenberg, Praga, Francoforte), pubblicando scritti fortemente critici nei riguardi della dottrina cattolica e calvinista, e insegnando filosofia presso diverse università. Ovunque andasse, lasciava dietro di sé una scia di diatribe e scandali, anche per la sua condotta libertina e sfrontata. Rientrato in Italia, nel 1592 si stabilì a Venezia, ospite del giovane patrizio Giovanni Mocenigo, che divenuto suo allievo, dopo pochi mesi lo denunciò all’Inquisizione per eresia. Le accuse che portarono Bruno ad essere processato prima in Veneto e poi a Roma dal Santo Uffizio riguardavano sia le sue teorie religiose e filosofiche (apostasia, irriverenza, critiche a dogmi, magia ed esoterismo, panteismo, dottrina della molteplicità di mondi eterni, ecc.), sia il rapporto con le gerarchie ecclesiastiche, i viaggi in paesi stranieri anticattolici, il suo comportamento dissoluto. Dopo una serie di processi, imprigionamenti, torture, Giordano Bruno fu condannato al rogo, i suoi libri messi all’Indice e bruciati. Prima dell’esecuzione, rivolse ai giudici una frase rimasta leggendaria: “Tremate più voi nel pronunziare questa sentenza che io nell’ascoltarla”.

La vicenda esistenziale del frate eretico è stata molto indagata e discussa: ciò che suscita più interesse nel saggio di Anna Foa è invece l’approfondimento di temi particolari riguardanti la sua figura intellettuale. In particolare, l’utilizzo e il recupero del profilo di Bruno da parte della cultura risorgimentale e laica, interessata a edificare un’immagine autonoma e originale del pensiero italiano rispetto a quello egemonico europeo, da accompagnare alla realizzazione dello stato unitario, costruendo un ponte ideologico che dal rinascimento si collegasse alla filosofia di matrice hegeliana (da Spaventa a Croce a Gentile), diventata poi dominante nella prima metà del ’900. Giordano Bruno, quindi, non solo “precursore del libero pensiero e martire dell’intolleranza cattolica”, ma anche iniziatore di una filosofia moderna, in grado di affrancare la cultura del nostro paese “dalle pastoie del dogma religioso”, e forse anche ideatore di un’utopia politica che favorisse l’instaurazione della pace religiosa in un’Europa cristianamente unificata.

 

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https://www.sololibri.net/Giordano-Bruno-Anna-Foa.html     4 febbraio 2019

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FONTANELLA

LUIGI FONTANELLA, L’ADOLESCENZA E LA NOTTE – PASSIGLI, FIRENZE 2015

Luigi Fontanella(1943), autore prolifico di poesia e narrativa, divide la sua vita tra l’insegnamento universitario a New York e Firenze, e in questa città ha pubblicato questo volume di versi, composto da «due sezioni antitetiche e complementari allo stesso tempo», come lui stesso sottolinea nella nota finale. In effetti i temi delle poesie si rincorrono e intersecano nei due capitoli che danno il titolo al volume (il primo dedicato all’adolescenza vissuta a Salerno, e il secondo a una sorta di pacata meditazione sulla notte): rimpianto, confronto tra passato e presente, riflessione sul significato ultimo dell’esistenza.

In «una specie di ipertempo», come suggerisce il prefatore Paolo Lagazzi, la biografia privata si fa percorso comune di tutti, al di là di ogni contingenza personale: e il tratto unificante del volume rimane quello stilistico, nella lingua composta e piana, priva di artefici retorici, con un tono narrativo che accondiscende a un ritmo interno di musicalità discreta.
La memoria, quindi, come elemento strutturante della prima sezione: le partite di calcio sudate nel cortile e nel «rustico campetto / sotto casa», la colonia estiva con i suoi rigorosi appelli mattinieri, i «piccoli baci concentrici» con le compagne di scuola (e i nomi citati sono veritieri: Anna Pierro, Elvira Forte, Renata Ferri…). Però è una memoria selettiva e poco obiettiva, che tende a rielaborare con commozione e nostalgia i momenti più felici dell’adolescenza ««assoluta ed eterna», sapendo che «Il tempo è in quel concentrato assoluto, / fermo e preciso, come / il tiro secco in porta», ma anche che ogni amarcord «è un film che posso modificare / a mio piacimento».
C’è tuttavia in Fontanella una consapevole rassegnazione a un futuro prevedibile e deludente («Avrai i tuoi anni / le tue disgrazie le tue diaspore / le tue speranze»), e il desiderio di una pace ritrovata, di meta raggiunta, di meritata serenità («Dormire, / insonnarsi d’oblio»).
Allora la notte, materna e consolatrice, diventa un approdo e una conquista: «ecco, rifletto sognando, sempre / così dovrebbe esser e il mondo / senza astio e senza invidia»; «Riconoscimi, Notte. / Avvolgimi»; «Acquietarsi infine / sottrarsi almeno per un breve intervallo / da ogni male»; «Recuperando, nel pensiero o nel sogno, gli amori e le amicizie, i libri letti e le avventure vissute, perché «Vibra nella notte l’anima del mondo».

 

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www.sololibri.net/L-adolescenza-e-la-notte-Luigi.html     27 febbraio 2016

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FORCADES

TERESA FORCADES, PER AMORE DELLA GIUSTIZIA. DOROTHY DAY E SIMONE WEIL – CASTELVECCHI, ROMA 2021

Si può essere contemporaneamente monaca benedettina di clausura, teologa, medico, scrittrice, femminista? Evidentemente sì, e lo dimostra la coraggiosa esistenza fuori dagli schemi di Teresa Forcades, nata a Barcellona nel 1966, laureata in Medicina e Teologia con dottorato e post-dottorato a New York, Harvard e Berlino, fondatrice del movimento indipendentista catalano Process costituent. Suor Teresa nei libri e in seguitissimi interventi sui social si occupa di politica, psicanalisi, clericalismo e ruolo della donna nella Chiesa, patriarcato e vita di coppia, sessualità. Soprattutto riferendosi alle sue posizioni anticonformiste su quest’ultimo tema (omosessualità, transessualità, aborto, utero in affitto, pornografia), Michela Murgia l’ha definita “personalità carismatica di rara intensità, di una spiazzante capacità dialettica e di una determinazione assertiva che ne fanno l’infrazione vivente di tutti gli stereotipi dell’immaginario collettivo sulle suore di clausura”.

Nel secondo volume edito da Castelvecchi (qualche anno fa “Siamo tutti diversi! Una prospettiva queer” aveva creato scandalo tra le gerarchie vaticane) traccia un ammirato ritratto di due figure femminili fondamentali nella teologia novecentesca: l’americana Dorothy Day e la francese Simone Weil, mettendone in luce affinità e differenze, e sottolineandone nel contempo la comune combinazione di impegno politico ed esperienza mistica, altruismo e coerenza esistenziale, concretizzata nel lavoro per la giustizia sociale e nella condivisione della vita degli ultimi. Entrambe si ergono a difesa dell’inviolabile libertà di coscienza individuale, al di là di ogni direttiva confessionale o partitica.

Diverse nell’estrazione sociale, Dorothy Day (New York, 1897-1980) e Simone Weil (Parigi, 1909-Ashford, 1943) ebbero però un percorso simile nella ricerca di autenticità riguardo alle scelte spirituali e alla decisa presa di posizione in favore delle classi lavoratrici. Tutt’e due mosse nell’infanzia da un’accentuata sensibilità verso il cristianesimo, nel corso dell’adolescenza si dichiararono atee e anticlericali, recuperando solo in età adulta un rapporto di adesione convinta al cattolicesimo. La famiglia di Dorothy Day era di tradizione anglicana e quella di Simone Weil ebraica, la prima di estrazione piccolo borghese, la seconda colta e abbiente.

Dorothy visse una giovinezza inquieta, con continui trasferimenti, rapporti sentimentali e sessuali trasgressivi, dipendenza da droghe e alcol. Ebbe una figlia, Tamar, da una relazione con un pensatore ateo e anarchico che per coerenza non volle sposare, quindi convisse a lungo con un predicatore visionario, Peter Maurin, insieme a cui nel 1933 fondò il periodico «Catholic Worker», organo dell’omonima comunità ispirata al radicalismo della parola evangelica, rimanendone alla guida per cinquant’anni. Suoi obiettivi erano la diffusione della dottrina sociale cattolica, e un tenace proselitismo in favore dei movimenti non-violenti, pacifisti, antirazzisti, femministi. Arrestata sette volte per aver organizzato e partecipato a scioperi e manifestazioni non autorizzate, si occupò generosamente fino alla morte dell’accoglienza dei senzatetto e degli emarginati, accettando di rimanere all’interno dell’istituzione cattolica, pur in maniera conflittuale, con il preciso intento di migliorarla.

Culturalmente più raffinata, spiritualmente ricercata ed elitaria, Simone Weil, rifiutandosi di aderire all’ebraismo dei familiari, visse la sua prossimità al cristianesimo in modo più cerebrale, soprattutto in base a valutazioni intellettuali, senza tuttavia arrivare mai a farsi battezzare, poiché non condivideva le rigide e illiberali teorie della Chiesa cattolica in ambito socio-politico e dottrinale. La sua ansia di verità, il suo rifiuto di ogni compromesso ideologico la rese per tutta la vita “una persona fuori contesto, fastidiosa,     non omologata”, fieramente ostile all’inserimento in qualsiasi gruppo o partito, politico e religioso. Decisa a condividere la sorte disagiata delle classi subalterne, lavorò come operaia in diverse fabbriche e come stagionale nelle campagne. Abbracciò poi la lotta politica antifranchista e antinazista andando a combattere in Spagna nel 1936. La sua natura eminentemente meditativa le fece vivere esperienze di estasi profonda, in un’unione mistica con la figura di Gesù, espressa profeticamente in pagine di rara bellezza.

Il volume, che nella sezione conclusiva riporta una puntuale cronologia biografica delle due donne, raffrontata specularmente, si concentra su alcuni nuclei fondamentali della loro esistenza, che le videro partecipi di uguali scelte ideologiche e professionali: il valore riconosciuto al lavoro manuale portò sia Dorothy sia Simone a sfidare il duro mondo dell’industria; la fede nella giustizia retributiva e il rifiuto dei privilegi di classe le convinse a prese di posizione radicali, a fianco dei più poveri e degli sfruttati per cambiare l’ordine economico capitalista; l’assunzione orgogliosa della propria femminilità le indusse a optare per una vita indipendente dal ruolo riconosciuto e garantito di moglie. Infine l’amore per Dio e per Cristo le persuase a condividere un cammino a fianco della Chiesa cattolica, lontano comunque dall’ufficialità vaticana.

Accanto a queste due donne colte, risolute e combattive si pone orgogliosamente la persona di Teresa Forcades, come loro fedele all’insegnamento di Cristo, e come loro impegnata nell’ascolto dei bisogni umani e nella ricerca speculativa: Simone Weil, la filosofa, e Dorothy Day, l’attivista, “donne eccezionali, molto diverse l’una dall’altra ma che,  tuttavia, presentano percorsi paralleli convergenti in molti punti e un’ispirazione comune che è quella che ha dato il titolo a questo li bro: Per amore della giustizia”.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 25 novembre 2021

RECENSIONI

FOREST

PHILIPPE FOREST, UN DESTINO DI FELICITÀ – ROSENBERG & SELLIER, TORINO 2019

 

Rileggere Arthur Rimbaud, e interpretarlo attraverso un’ottica non puramente ermeneutica ma di invenzione narrativa, secondo la scansione alfabetica tipica dell’abecedario. Lo fa Philippe Forest, critico letterario e cinematografico francese (Parigi 1962), che da oltre un ventennio esplora la relazione esistente tra il genere romanzesco e la realtà, contaminando analisi testuale, invenzione e autobiografia.

Forest indaga gioie e dolori, conquiste e fallimenti esistenziali propri e altrui, usando come fonte ispiratrice versi e aforismi rimbaudiani, i più noti e citati (Io è un altro; È sicurissimo, è oracolo quello che dico; M’incaponisco spaventosamente ad adorare la libertà libera; Bisogna essere assolutamente moderni; Scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini; Che cos’è il mio nulla, in confronto allo stupore che vi attende?). Non solo Rimbaud, comunque: molti sono gli autori di riferimento che Forest cita, a supporto e approfondimento delle sue riflessioni: Aragon, Bataille, Breton, Baudelaire, Eliot, Yeats, Mallarmé, Borges, Nietzsche, Verne, Mishima, l’amato Kierkegaard…

Ma è soprattutto il poeta adolescente dagli occhi celesti e interroganti, il visionario fieramente ribelle e inquieto, ad affascinarlo: “Ogni volta che sento di perdere fiducia nelle parole, apro volentieri Rimbaud, come se consultassi un oracolo, e mi fermo su frasi di cui non capisco niente e che, di colpo, prendono l’aspetto di una profezia alla quale io resto libero di dare il valore che preferisco. Sono certo che dice la verità. Sono certo anche che la verità che dice dipende unicamente dal senso che le do io”.

La parola, quindi. È proprio sul mistero dell’espressione umana che Philippe Forest pone l’accento in queste sue divagazioni, letterarie e filosofiche. Già da bambino si meravigliava del legame capace di unire le cose ai nomi, quando prima ancora di iniziare la scuola aveva imparato a leggere da solo, suscitando irritazione nella maestra e uno stupore intimorito nella mamma. La magia delle vocali colorate sui cartelloni al muro dell’asilo era già stata espressa un secolo prima da Rimbaud “A nero, E bianco, I rosso, U verde, O blu: vocali. Io dirò un giorno le vostre nascite latenti”.

Alfabeti, quaderni, sussidiari, un mondo da scoprire e inventare: “Quel bambino ero io, allevato tra i libri, e che forse li preferivo alla vita, convinto che valevano più di lei perché ne svelavano il senso”. Ecco come si snocciola l’abecedario di Forest; alfabeto, biblioteca, curiosità, dolore. E poi gloria, nulla, politica, sesso, zero.

La biblioteca tante volte frequentata ha lo stesso odore di quella universale raccontata da Borges: una Babele di lingue e significati da penetrare e di cui arricchirsi: “La storia di ogni individuo ripete quella dell’Umanità intera: dal giardino dell’Eden alla torre di Babele. Dapprima, Dio accorda all’uomo la facoltà di dare alle cose il loro vero nome. Poi subito gliela ritira per umiliare il suo orgoglio, moltiplicando le parlate in modo che una grande confusione si estenda sul mondo che ha creato. Le lingue separano gli uomini. Soprattutto: li separano da una realtà che non sanno più con che nome chiamare”.

La curiosità è l’ansia che ci spinge a seguir virtute e canoscenza: “La curiosità: il desiderio di sapere che cosa c’era prima, che cosa ci sarà poi. Come se la vita fosse un libro aperto nel bel mezzo di una storia già iniziata e destinata a continuare, di cui si ignora praticamente tutto, e non si capisce quasi niente. Perché del libro della vita, non si ha mai sotto gli occhi altro che la pagina del presente”.

Philippe Forest alterna note autobiografiche (lo straziante ricordo della sua bambina morta di cancro a tre anni, la lunga permanenza in Giappone per arricchire il proprio pensiero di nuovi orizzonti, il rapporto con il sesso e il mondo femminile, l’interesse per la fisica quantistica) con la ricerca di nuove modalità narrative, in grado di utilizzare fonti di scrittura esterne, citazioni, memorie, elementi diaristici, in uno stile che si mantiene costantemente lieve ed elegante.

 

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Un-destino-di-felicita-Forest.html

2 aprile 2020

 

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FORLANI

FRANCESCO FORLANI, PARIGI, SENZA PASSARE DAL VIA – LATERZA, BARI 2013

«I miei erano molto preoccupati, in quel 21 giugno del ’91, perché non avevo un lavoro, non parlavo la lingua e non eravamo ricchi di famiglia. Io mi ricordo soltanto che ero partito con la valigia da mimo, di cartone puro, che scendendo dal treno si era rotta, aperta in due, come se quei milleduecentonovantuno chilometri se li fosse fatti tutti da sola».

Non è l’amarcord di un tradizionale emigrato che dal nostro sud abbia cercato lavoro e successo all’estero, ma la rievocazione antiretorica che Francesco Forlani fa della sua partenza da Caserta, dopo la laurea in filosofia, per raggiungere Parigi: città-mito in cui ha cercato riparo e consolazione, soprattutto intellettuale, al sorgere del ventennio berlusconiano, e dove saltuariamente risiede tuttora. I trentatré capitoli in cui si suddivide questo vivacissimo e coinvolgente romanzo sono scanditi logisticamente secondo i suoi spostamenti (abitativi-lavorativi-trasgressivi-esistenziali) nei vari arrondissements della metropoli francese. Quindi dalla sua abitazione in un sottotetto «pittoresco e basso» (con travi a vista, cesso che si ottura in continuazione, invasione di blatte e una seducente vicina tentatrice), condivisa con l’amico scrittore Massimo Rizzante, il giovane e vulcanico Francesco si muove inquieto e perennemente affamato – di cibo, letture, sesso, amori, incontri – nei vari quartieri parigini, circondato da un universo cosmopolita di personaggi dalle occupazioni più varie: librai, cuochi, poeti, jazzisti, grafici, manovali. Sulle orme di altri celeberrimi stranieri che avevano fatto della città la loro patria (Cioran, Hemingway, Cvetaeva, Modigliani, Henry Miller, Anaïs Nin…), questa banda squattrinata insegue il sogno di fondare una rivista letteraria,  La bête étrangère, e il miraggio di un riconoscimento non solo culturale, ma vivaddio magari anche economico. Tra lezioni private di italiano, performances teatrali, occupazioni saltuarie e spesso umilianti, i protagonisti del libro trascorrono il loro tempo in avventure varie, pigiati nei metrò o sfidati da estremisti di destra a colpi di forchetta in un ristorante, in lavanderie a gettone o in musei e biblioteche, negli uffici finanziari dell’Unesco o al cimitero di Père-Lachaise, sui boulevards o nei parchi lussureggianti del centro. In una Parigi in cui però scoppiano anche le bombe, e si viene costretti a passare la notte in un commissariato per schiamazzi, o ancora si accompagna una ragazzina italiana in ospedale perché si sottoponga a una inutile e crudele terapia di chemio. Cementati da un’amicizia solidale e incrollabile, da un’utopistica fede nell’arte e nella letteratura come panacea dalla fatica di vivere, i personaggi di Forlani abitano questo «immaginario Monopoli parigino»» senza passare dal via, ma anche senza arrivare mai a una meta definitiva. E se i genitori dell’autore lo raggiungono, intimoriti e orgogliosi, nella metropoli trovandolo «sciupato», ecco che torna la tentazione ricorrente di un rientro alla base, di una sistemazione più tranquilla e appagante (tentazione a cui cede l’amico più caro, Massimo, lasciando Francesco nel baratro di una sconsolata solitudine). Ma è più giusto e poetico resistere, rimanere attaccati a un desiderio di libertà e sradicamento da confortanti abitudini borghesi: «Chiunque cerca chiunque e, quando l’ha trovato, il vento lo riporta dovunque», creando dalla propria esperienza una suggestiva e scoppiettante mappa letteraria, ad uso e consumo di lettori curiosi e non conformisti.

 

«incroci on line», 14 maggio 2015

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FORLANI

FRANCESCO FORLANI, PENULTIMI – MIRAGGI, TORINO 2019

 

Un libro composito, questo di Francesco Forlani, fatto di versi stampati in tondo e in corsivo, di prosa e interstizi meditativi, di haiku; intervallato da fotografie scattate con il cellulare dallo stesso autore, presumibilmente dalla metropolitana (interrata e sopraelevata) che è l’ambiente da cui, su cui e per cui il testo è stato pensato e scritto. “Pensato” come omaggio ai Penultimi, suoi inconsapevoli e meritevoli protagonisti: un omaggio malinconico, grato e rimordente. “Scritto” in un italiano colto ma nello stesso tempo popolare, striato di francese e di napoletano: le tre lingue e le tre anime dell’autore.

Francesco Forlani è infatti nato a Caserta, si è laureato in filosofia a Napoli, ha insegnato a Torino, è emigrato a Parigi dove tuttora risiede, professore in una scuola della banlieu. Poeta, narratore, saggista, consulente editoriale, traduttore, redattore di blog letterari, vulcanico performer e cabarettista, in questo volume si è ritagliato un suo spazio di riflessione, amara e insieme indignata., sulle vite degli altri, sulla sua che li osserva, sul mondo in cui è inserito pur con dignitosa estraneità. Da due anni si imbarca ogni mattina alle 5,40 sulla linea 6 della metro parigina, «nella tratta che da Nation va a Montparnasse» per raggiungere l’istituto in cui insegna: con lui una massa indistinta di persone, presenze assenti e intercambiabili: i penultimi, appunto, non proprio gli ultimi nella scala sociale. Un lavoro ce l’hanno, e lo raggiungono all’alba di ogni giorno feriale, rassegnati a una routine malpagata, ripetitiva, spersonalizzante: «Se ne stanno seduti i penultimi / alle cinque e mezza del mattino / tutti occupati i sedili sulla banchina / prima che il primo treno del giorno / salpi e porti per mari di moquettes / e vetri negli uffici le donne delle pulizie / o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani / senza più nulla chiedere né altro domandare».

Il poeta li osserva, nei copricapi di lana degli uomini, nei foulard delle donne, negli occhi socchiusi per il sonno interrotto e nelle labbra che si muovono in cantilene o preghiere: appartengono a razze e religioni diverse, sono esseri umani come lui, compagni di ventura e sventura, ma forse non altrettanto capaci di introspezione e di valutazione sul destino che altri hanno confezionato per loro: «E ce ne stiamo attaccati studenti ed operai / come le lancette / di un orologio che segni / l’esatta metà del giorno / (e della notte) / c’est l’heure! c’est l’heure!» La Parigi della democrazia e dell’insurrezione ‒ Liberté, Égalité, Fraternité ‒ , si offre nel suo squallore quotidiano al giudizio sconfortato e agro dell’intellettuale, che sa comunque più e meglio dei suoi compagni di viaggio cercare scampo nella bellezza residua della luna seminascosta tra le nubi, del cielo ancora grigio, di una ragazza-runner ansante sul marciapiede, o nel profumo di colonia che improvviso invade lo scompartimento, riaccendendo memorie familiari.

In una posizione di privilegio, l’autore possiede gli strumenti culturali per interrogarsi su cosa sia diventato il vivere in comunità, oggi, nelle metropoli di tutto il mondo, pagando uno scampolo di welfare con la mancanza di rapporti umani e di felicità individuale. Lo fa in uno degli inserti in prosa del libro («Quando è cominciato tutto questo? Quando è iniziato l’assedio che ci stringe in una morsa che rende irrespirabile l’aria del tempo e che strozza l’anima… »), rispondendosi da solo: «Ed è strano e insieme meraviglioso che proprio in quell’attimo di scoramento senti rinascere dentro un soffio di vita nova, il gorgoglìo, la misura della tua forza, sapere che più inespugnabile è il diritto meno la forza potrà e che basta il pensiero di queste cose e quelle a far sollevare lo sguardo, a osservare meglio di fuori sporgerti per scoprire che quelli che sembravano i tratti ingrugnati del nemico sono solo il riflesso del tuo stesso volto nell’acquitrino di cinta e che un solo rimedio al fronte interno vale a quel punto, liberare il portale, calare il ponte, issarsi a riveder le stelle e respirare forte e dire vita, ehi vita mia, urlare, grazie».

Grazie alla vita comunque, grazie ai penultimi, «sti pauvres christi, de christiani, au senso largo / car il y a aussi el muslim, le buddist lo istemmatore, / toti sti pasi, bon, stano toti amuchiati, entassés, / addunuchiate dans la grande salle des pas perdus», che chiedono poche cose alle cose, «a volte solo un segno, un cenno, / da parte a parte della vita », quando bastano «i tre boccioli di rosa sulla piattaforma, in pieno inverno / di piena neve, sussurrano courage, la primavera avanza ».

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Penultimi-Forlani.html         7 gennaio 2020

RECENSIONI

FORTINI

FRANCO FORTINI, I CONFINI DELLA POESIA – CASTELVECCHI, ROMA 2015

Di Franco Fortini (1917-1994), protagonista tra i maggiori della cultura novecentesca italiana, l’editore Castelvecchi propone due conferenze sulla poesia tenute nel 1978 e nel 1980 nelle università del Sussex e di Ginevra. Erano anni di pesante conflittualità sociale e politica, di vivaci polemiche intellettuali, di pulsioni utopistiche. Di tale tensione etica si nutrono i testi fortiniani, dei quali il primo (Sui confini della poesia) si interroga – nello spazio di pochi, lineari paragrafi – sul ruolo della poesia e dell’arte nella società, mentre il secondo (Metrica e biografia) si sofferma sui tratti peculiari della produzione in versi dell’autore stesso.
Attualissime, pungenti e amare paiono le considerazioni delineate nel primo saggio, a partire dalla constatazione che la letteratura italiana ha lentamente virato verso posizioni antistoriche, individualistiche e di mercato, divaricandosi tra un «vitalismo neosurrealista» e un «formalismo esasperato», accentuando «una perdita di memoria del passato» e una «proliferazione produttiva dell’inutile». Nel suo rigoroso richiamo alle fonti del marxismo, e quindi a un’arte che sia anche educativa, e mantenga una valenza pedagogica, Fortini si rifà a Lukács, Horkheimer, Adorno. Pur riconoscendo che la poesia ha una dimensione conservatrice e conciliatrice, perché espressione di gratuità e privilegio (il cuore di un mondo senza cuore… Il sabato di un villaggio senza domenica), in una collettività sempre più reificata e indotta alla pura produzione e al consumo, Fortini sa che essa rimane uno dei rari luoghi integri, non invasi dalla sclerosi della prestazione. Aumenta la richiesta di una letteratura di successo, che rimane l’unica abbordabile dai ceti subalterni, e in grado di trasformarsi in esibizione e spettacolo: ma resta forse ancora la possibilità di un’arte più meditata formalmente, più consapevole del significante e non solo dei significati, attraverso cui «gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza».
Nel secondo intervento, Fortini racconta di sé adolescente, del suo avvicinamento alla poesia determinato dal desiderio di difendersi «dalla volgarità del quotidiano», «scavalcando» la storia ottusa degli anni fascisti. E di come poi abbia compreso quanto sia invece necessario rapportarsi col proprio tempo, perché «c’è qualcosa di più importante della più importante e sublime opera di poesia». Questa rigidità ideologica di fondo lo confermò nella necessità di produrre versi severamente vincolati a regole metriche: al punto da costringersi a lavorare per sei lunghi mesi a un’unica composizione (La poesia delle rose), continuamente rielaborata nelle sillabe e negli accenti, che finì per rivelarsi fallimentare, anzi addirittura «mostruosa»».
L’interesse di Fortini per la metrica indica l’estremo appassionato rispetto per la fattura del verso, per la sua morfologia, per gli aspetti più tecnici della scrittura: cosa che ha fatto di lui, sia come poeta sia come intellettuale, un «ospite ingrato» della nostra letteratura, oggetto di «esecuzioni sommarie e ordini di scuderia intese a tacitarne la voce», come ricorda nella sua intelligente prefazione Luca Lenzini.
E non poteva essere altrimenti, per chi aveva anzitempo diagnosticato «la fine del mandato sociale degli scrittori», affermando che «L’unico modo di resistere alla morte è quello di costituirsi entro un sistema, secondo un progetto e quindi con un’autoeducazione di cui le opere d’arte sono un esempio».

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/I-confini-della-poesia-Franco.html     12 febbraio 2016

RECENSIONI

FOSSE

JON FOSSE, MATTINO E SERA – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2019

Di Jon Fosse, scrittore e drammaturgo norvegese nato nel 1959, sono stati pubblicati in italiano diversi volumi, con buon successo di vendite e di critica. L’ultimo apparso, Mattino e sera, è un racconto lungo, sospeso in un’atmosfera onirica, scritto con uno stile fluido, privo di interruzioni, leggibilissimo nella sua precisa e stringata adesione al corso dei pensieri dei protagonisti.

Scandito in due parti, racconta il mattino e la sera di Johannes, figlio del pescatore Olai, nipote del nonno pescatore di cui porta il nome, e lui stesso pescatore, marito di Erna da cui ha avuto sette figli. La narrazione si apre con la sua nascita, atteso figlio maschio arrivato dopo un’unica altra figlia ormai adolescente. Il padre Olai, seduto al tavolo della cucina, segue con trepidazione il parto non facile della moglie Marta, sussultando spaventato a ogni urlo di dolore che arriva dal letto di lei, e perdendosi in riflessioni sul senso e la bellezza della vita:

“E adesso perché c’è questo silenzio dentro la camera? c’è qualcosa che non va? ma non gli sembrava che ci fosse niente di strano quando la vecchia levatrice Anna era venuta in cucina per prendere altra acqua calda, no? non aveva notato nulla nella vecchia levatrice Anna che rivelasse che qualcosa non andava come doveva, no, pensa Olai e di colpo si sente più tranquillo, sì, di colpo riesce pure a sentirsi quasi felice, eh sì come cambia tutto, da non crederci, pensa Olai, adesso un maschietto, il piccolo Johannes, vedrà la luce del mondo perché è cresciuto grande sano e bello nell’oscurità e nel calore della pancia di Marta, dal non esistere assolutamente si è trasformato in un essere umano, un bambino, sì, dentro la pancia di Marta si sono formate le dita delle mani, dei piedi e il viso, lì dentro si sono plasmati anche gli occhi e il cervello e magari ha anche qualche capello, e adesso, mentre la mamma Marta urla di dolore, verrà alla luce in questo mondo freddo dove sarà solo, separato da Marta, separato da tutti gli altri, sarà solo sempre solo e poi, quando verrà il momento, quando sarà la sua ora, si dissolverà e si trasformerà in nulla e ritornerà là da dove viene, dal nulla e al nulla, questo è il corso della vita, per esseri umani, animali, uccelli, pesci, case, recipienti, per tutto quello che esiste, sì, pensa Olai e poi c’è ancora molto di più, pensa, perché anche se si può pensarla così, dal nulla e al nulla, in realtà non è neppure questo, è molto di più, ma che cos’è allora tutto il resto? il cielo blu, gli alberi a cui spuntano le foglie?”.

Questo è dunque il mattino di Johannes, e le meditazioni del padre saranno le stesse che accompagneranno lui per tutto il corso della sua semplice e buona esistenza, fino appunto al buio della notte, raggiunto in tarda età. La seconda parte del racconto ci presenta quindi Johannes ormai vecchio e vedovo, solo nella sua casa in una “giornata plumbea, fatta di pioggia e pioggerellina fine, folate di vento e cielo grigio, freddo umido e mezzo gelo”. Svegliandosi all’alba, si sente stranamente anchilosato e incapace di muoversi, ma subito dopo è preso da una inconsueta leggerezza, fisica e mentale, che lo induce a ripetere con facilità i gesti quotidiani di sempre. Sale quindi in soffitta a ispezionare gli attrezzi da pesca e tutti i vecchi oggetti ammassati confusamente, e li trova diversi dal solito, “diventati dorati e pesanti, come se pesassero molto di più del loro peso reale e allo stesso tempo fossero privi di peso”. Esce poi di casa, dirigendosi verso la costa sassosa del paese di Vågen, per dare un’occhiata alla sua barca a remi lì ormeggiata, quando scorge venirgli incontro l’amico più caro, smagrito e con i capelli lunghi e radi: Peter, morto da molti anni, con cui aveva diviso bevute, confidenze e giornate di pesca. Concreto nei gesti e nella voce, eppure avvolto in un’aria inconsistente. I due si perdono in chiacchiere, rievocando vicende passate e conoscenti del paese, scomparsi da anni. Ogni cosa, intorno, assume sembianze sfocate, “tutto è come cambiato e al tempo stesso è tutto come sempre, tutto è come prima e tutto è diverso”. Il mare, i granchi nei cesti, l’esca gettata in acqua che galleggia in superficie, sembrano a Johannes presagi di qualcosa che non riesce a comprendere.

Con la lievità di un’ombra, torna verso casa, ed è già il crepuscolo: sua moglie Erna lo aspetta per il caffè (ma non era morta? si chiede confuso): parlano un po’, e lui fuma una sigaretta. Poi si stende sul letto aspettando che la figlia minore Signe, affettuosa e amabile, venga a trovarlo come fa di solito. E Signe arriva, infatti, trafelata perché non ha sentito il padre per tutto il giorno, e perché vede le finestre buie, e non ode rumori. “Entra in soggiorno e poi nella camera e lì vede papà Johannes sdraiato sul letto e ha un’aria tranquilla, quasi come se stesse dormendo, pensa Signe e gli prende la mano, quasi come quando ero una bambina, pensa Signe e sente fremere dietro gli occhi e gli occhi si riempiono di lacrime”, rendendosi conto che il vecchio e rude padre ha raggiunto serenamente la sua sera.

 

© Riproduzione riservata              «SoloLibri», 30 luglio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FOSSE

JON FOSSE, ASCOLTERÒ GLI ANGELI ARRIVARE – CROCETTI, MILANO 2024

Nella motivazione del Premio Nobel assegnato a Jon Fosse nel 2023, leggiamo: “per i suoi drammi e la prosa innovativi che danno voce all’indicibile”. Nato nel 1959 a Haugesund, Fosse crebbe a Strandebarm, un piccolo villaggio adagiato lungo il maestoso fiordo Hardanger, in una famiglia di fede pietista. L’intera sua opera rimane ancorata al Vestland, la costa orientale della Norvegia, al suo clima freddo e grigio, ai paesaggi incontaminati, al mare e alle campagne aperte, alla vegetazione.

Se la sua produzione più nota è quella narrativa e teatrale, anche alla poesia sono stati riservati spazi creativi che hanno accompagnato costantemente la sua scrittura, a partire dal 1986 fino al 2016, con un totale di nove raccolte. L’editore Crocetti ha pertanto ritenuto opportuno illuminare questo suo lato creativo rimasto un po’ in ombra, soprattutto in Italia, pubblicando un’antologia di liriche con il titolo Ascolterò gli angeli arrivare.

Secondo Andrea Romanzi, che scrive un’intensa prefazione al libro ricostruendo le varie fasi della carriera letteraria di Fosse, l’autore norvegese ha sempre insistito nell’esperienza paradossale e faticosa di voler “comunicare l’incomunicabile”. Incomunicabile e indicibile si possono intuire solo uscendo da sé, sospendendo il proprio io in una dimensione trascendentale, capace di attivare risonanze emotive non rilevabili razionalmente, che vengono fatte emergere da insondabili alterità. Presenze angeliche, forse? Jon Fosse ci spera, o meglio, ci crede.

La sua versificazione, nel corso di decenni, non è mutata nella forma: rimane scarna, priva di punteggiatura, franta in continue pause sottolineate da spazi bianchi, segnata dalla ripetizione costante di parole o intere frasi. Invece è cambiata molto nei contenuti, che si scorporizzano, smaterializzandosi in atmosfere oniriche, non sempre rasserenanti, sospese in una progressiva riduzione di significati.

Nelle prime raccolte, fino all’inizio del nuovo secolo, prevalgono le memorie dell’infanzia, visualizzate concretamente in immagini oggettive di cose, ambienti, facce, gesti con una prevalenza di particolari realistici e di un linguaggio quotidiano che spesso mima i refrain delle canzoni: “Mia madre ha / il vento in secchi di plastica arancioni. Lava / il pavimento con movimenti esperti. Mio padre / tiene la testa sotto il braccio e fischietta / alle stelle”, “Fiori morti in un vaso sbeccato / sul davanzale della finestra. Mosche / morte contro vernice bianca sfogliata // Una donna anziana è seduta su una sedia da campeggio / e lavora a maglia, con indosso un grembiule a fiori // Un motore fuoribordo sfreccia tra le grida dei gabbiani”, “Cammina e cammina / e tutti i morti sono con noi / anche i morti camminano e camminano / dentro di noi / cammina e cammina”.

Assolutamente diverso è il clima in cui si muovono le poesie più recenti, che vedono l’autore interrogarsi sulla propria funzione e addirittura sulla stessa esistenza, sua e del mondo, mentre la realtà intorno sfuma, sottraendosi a ogni rappresentazione fattuale: “se sono io che scrivo / allora c’è un io che, ogni singola volta, è diverso, perché / nei movimenti della scrittura c’è sempre / un io che scrive e questo io / non sono io oppure forse sono io / ma questo io è così diverso di volta in volta / da non poter essere io”, “È così che penso // E poi penso / che / quando io sono / e quando non sono / allora sono qui / e allora non sono qui / E finora non sono stato qui”.

Prevale la lingua dell’inconscio, che segnala un’ incapacità espressiva, una mancanza di fiducia nella possibilità di farsi capire: domina allora l’indicibile rimarcato dai giurati del Nobel, il tentativo di raccontare l’assenza, l’ombra, il silenzio, ciò che rimane doppo la morte, l’impalpabile presenza dei defunti o di messaggeri incorporei: “Camminano // Sanno qualcosa / e non possono dire agli altri che cosa sanno //  Camminano / e si fermano raramente // Chi sono / nessuno può dirlo / ma camminano / e camminano”, “tutto era semplicemente presente / chiaro e luminoso / come un giorno senza notte / come una vita senza sonno”, “Nella vita ha conosciuto la morte / e nella morte ha conosciuto l’eterno / sorrideva mentre noi piangevamo / e poi non c’era più // l’anima bella è adesso un cielo”.

L’immagine del camminare verso l’ignoto, che tuttavia si prefigura luminoso, viene ribadita ossessivamente (“E camminiamo / fieri / nell’oscurità reciproca / luminosi come angeli / in ognuno di noi un angelo doppio / immobile nella sua scissione / ed evidente / come luce nera”), in una auspicabile trasformazione, o levitazione, spirituale: “Ma gli angeli mi traggono ogni giorno fuori / dalla mia pietrificazione / nello splendore e nella pietrificazione / Il mio movimento / non è minaccioso / La gioia è senza gioia // Per tutto posso ringraziare gli angeli”.

Se queste composizioni non raggiungono il livello espressivo e stilistico della produzione in prosa di Jon Fosse, tuttavia aiutano il lettore a meglio comprendere il suo mondo interiore, e bene ha fatto dunque Crocetti ad antologizzarle per il pubblico italiano.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 20 marzo 2025

 

 

 

 

 

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