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Alida Airaghi

Recensioni letterarie, testi editi

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RECENSIONI

Home page RECENSIONI (Pagina 66)
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RECENSIONI

HUERLIMANN

THOMAS HÜRLIMANN, NEL PARCO – GARZANTI, MILANO 1992

Un nuovo autore svizzero, Thomas Hürlimann, nativo di Zug ma vissuto tra Zurigo e Berlino, già noto sia per importanti lavori teatrali, sia per una raccolta di racconti (La ticinese) che gli era valsa dieci anni fa autorevoli riconoscimenti, ha pubblicato presso Garzanti la traduzione di un suo romanzo dell’ 89,  Nel parco. Romanzo di atmosfera, in cui accade poco più di niente: due anziani genitori – lui, ex militare di carriera; lei, moglie tenace e madre tradizionale – porgono giornalmente omaggio alla tomba dell’unico figlio maschio, morto di cancro prima di poter comparire in divisa davanti al padre. «Erano i genitori di un figlio morto. Erano sopravvissuti al loro discendente, al portatore del nome ed erede, che avrebbe dovuto continuare nel futuro il casato. Questo era un controsenso della natura. A esso, un po’ per cordoglio, un po’ per penitenza, veniva pagato un tacito tributo mediante la quotidiana visita al cimitero».

La morte del ragazzo, nato dopo sei femmine, sembra rendere più profondo e definitivo il baratro che da tempo si era aperto tra marito e moglie: primo, insidioso segnale di rottura è il dissidio tra i due sul tipo di stele funeraria da porre sulla sepoltura. E’ la moglie, con femminile e prevaricante testardaggine, che riesce a realizzare il suo progetto di un monumento in granito. Il colonnello si adatta, adeguandosi anche al rito della visita giornaliera al cimitero, un parco elveticamente impeccabile nel suo curatissimo verde, ma altrettanto macabro nel memento calvinista riservato ai visitatori: «Quello che voi siete, eravamo noi. Quello che noi siamo, sarete voi». Docile nel seguire la consorte e nel condividerne il cordoglio, l’anziano militare mantiene però una quasi infantile autonomia nell’imporre a queste visite uno stile soldatesco, ormai patetico: «Il colonnello dava l’ordine di partenza, direzione tomba»; «Lassù gli riusciva proprio tutto. Lì era il fronte, lì il vecchio soldato era nel suo elemento». E ben presto trova una motivazione più urgente dell’omaggio al figlio per giustificare la sua adesione al rito quotidiano: tra le tombe sbuca un gatto randagio, «un essere smagrito, ossuto, tremolante» che lui prende a nutrire di nascosto dalla moglie. E mentre lei è dedita a lavori di giardinaggio o di pulizia della tomba, il colonnello si distrae in grottesche operazioni tattiche di «rifornimento» all’animale, che subito assume un rilievo allegorico, trasformandosi nella proiezione dell’unica forma di vita in quella città dei morti.

«Comparve da Emilio Hagedorn, infarto cardiaco, un’ombra che lambì il marmo chiaro, qualche attimo dopo sgusciò intorno all’acquasantiera del commilitone Kessler, una faccenda di prostata con complicazioni laterali…Allora lo vide, stava arrivando, allarme rosso. Altri tre minuti… e avrebbe raggiunto la carnosa copertura di fogliame sopra la tomba dei Siegenthaler, lui cancro allo stomaco, lei all’intestino». Il sostentamento della bestiola costa al colonnello tempo ed energia, in primo luogo per procurare e conservare la razione giornaliera di carne senza dare nell’occhio (e allora, visite improvvise e ingiustificate al supermercato, riserve di cibo negli armadi di casa o nelle tasche dei vestiti fuori stagione), con il susseguirsi di situazioni imbarazzanti, che allarmano la moglie e tutto il parentado. Ma il vecchio è ancora un soldato: «semel miles, semper miles», e continua imperterrito nelle sue operazioni di rifornimento, studiando nuove tattiche e aggiornandosi su riviste di strategia militare per aggirare il nemico ottenendo lo scopo prefisso. In un crescendo di allucinazioni e frenesie, il gatto diventa alleato e insieme obiettivo strategico: «Il figlio? No, pensava il colonnello. Lo conduceva alla tomba il dovere. Lui, il vecchio soldato a riposo, nella vecchiaia era diventato l’ufficiale di sussistenza di un animale randagio». La moglie non capisce, soffre, si sente schernita nella sua sofferenza di madre, e teme nel marito una forma di demenza senile.

«Lei amava le sere presso la tomba, lì era felice. Quello che diceva era preghiera, e quello che faceva le si trasformava tra le mani in metafora…Un dio malvagio le aveva rubato il figlio, ora un gatto da cimitero le rubava il marito: il suo cuore si chiuse in una morsa di gelo». Intorno alla coppia, sempre più smarrita e incapace di sfogare il proprio strazio, le figlie sciamanti, i generi indifferenti, i nipoti capricciosi, e soprattutto l’imponenza triste della grande villa sul lago, un parco deserto e denso di ricordi, presenze minacciose nel loro silenzio. E’ un disagio inespresso e inesprimibile, quello che mura i gesti dei due vecchi in triste incomunicabilità, reso più drammatico da un paesaggio immobile e inespressivo, da una cultura nevrotica e superficiale, dalla neve che tutto livella, ma su cui ancora compaiono, incancellabili e vincenti, le orme del gatto, tracce di un’animalità che è vita. Molto critico nei riguardi della società in cui è cresciuto, strozzata da mode intellettuali che a volte assumono volti riconoscibili (da quello junghiano a quello antroposofico), Hürlimann è crudelmente pessimista anche nelle pagine finali del romanzo, forse un po’ affrettate e volutamente conclusive, rispetto al lento dipanarsi della vicenda. E crudelmente patetiche sono comunque la pazzia del colonnello, che beve il suo whisky col biberon, e la confusione mentale della moglie, intenta a cercare sul lungolago, ogni sera, la sposa adatta per il figlio morto.

 

«L’Arena», 13 febbraio 1992

aggiornato il 24 Dicembre 202230 Maggio 2015
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RECENSIONI

HUERTA

EFRAÍN HUERTA, POEMINIMI – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2024

Il messicano Efraín Huerta (1914-1982), è stato l’inventore di un particolare genere letterario, i Poeminimi, composizioni brevissime che hanno come caratteri essenziali condensazione, sintesi, precisione, ironia, memorabilità. La colta ed empatica postfazione di Stefano Strazzabosco mette in luce la particolarità di questi “versicoli virali, insieme fulminanti, passionali e cinici”, capaci di creare un fulminante cortocircuito irriverente e caustico nei riguardi dei vizi pubblici e privati di un’epoca, di una nazione, e dello stesso loro autore.

Ironico e autoironico, Huerta sapeva prendersi in giro, in particolare nel suo ruolo pubblico di intellettuale e scrittore:

Minaccia: “Beati / I poeti / Poveri / Perché / Di essi / Sarà / / Il regno / Dei / Suoli”; Ahi Poeta: “Prima / Di tutto: / Mi compiace / Enormissimamente / Di essere / Un buon / Poeta / Di seconda classe / Del / Terzo / Mondo”; Handicap: “Non posso / Smettere Di / Scrivere / Perché / Se mi fermo / Mi raggiungo”; Maximinima: “Solo / A forza / di poesia / Si smette / Di essere / Poeti / per forza”.

Altrettanto frequente era nei suoi versi l’ammiccamento erotico o la sfrontata dichiarazione d’amore per la bottiglia:

Imprendotoriale: “Il mio amore / Per te / Per lei / Per voi / Per l’(e) altra (e) / È un / Frutto diretto / Della più pura / Iniziativa Privata”; Immenso dramma: “Tutte / Le donne / Che amo / Sono sposate / Persino la mia!”; Miss Himalaya: “È vero / Amore mio / I tuoi seni / Sono il / Petto del / Mondo”; Ordinamento: “Non / Bere / Domani / Quello che / Puoi / Bere / Oggi”; Galileica: “E / Pur / Si / Beve!”

Tutti provvisti di titoli, spesso sarcastici o fuorvianti, i Poeminimi trovano la loro specificità nell’allusività (non sempre subito avvertibile), nella deformazione, sostituzione o nello slittamento morfologico del testo. Secondo una dichiarazione dello stesso autore, il loro segreto è la capacità di “dislocare e alterare”, creando così alternativamente nei lettori attesa, sorpresa, divertimento. Pur attraverso lo scherno e la derisione, un richiamo etico si avverte nella polemica sofferta nei riguardi della politica trasformista e corrotta. Da stalinista mai pentito, negli anni ’60 Efraín Huerta si erge ad accusatore delle violenze antipopolari che provocano stragi nel suo paese, delle pesanti ingerenze degli Stati Uniti, dei regimi dittatoriali che di impongono nel sangue in tutta l’America Latina.

Sterile: “Teorico / Di tutto / Militante / Di niente”; Sconcerto: “I miei / Vecchi / Maestri / Di marxismo / Non li posso / Capire: / Alcuni sono / In prigione / Altri sono / Al / Potere”; Di classi: “Non c’è / Peggior / Lotta / Di quella / Che / Non s’è / Fatta”; Pinochet: “Ah / Maledetto!/ Tutto / Lo pagherai / Con la / Stessa / Moneda”; Sinistra parafrasi: “ Odio / L’odore / Dei marines / Che bombardano / E se ne vanno / Un bombardamento / in ogni porto / I marines / Bombardano / E se ne vanno”.

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 22 settembre 2024

 

 

 

 

aggiornato il 21 Settembre 202421 Settembre 2024
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RECENSIONI

HUGHES

LANGSTON HUGHES, QUEER NEGRO BLUES – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2023

Queer Negro Blues è il primo libro uscito in Italia interamente dedicato alle due raccolte giovanili di Langston Hughes, edite tra il 1926 e il 1927 (The Weary Blues e Fine Clothes to the Jews), accolte positivamente dal pubblico statunitense, ma criticate dalla stampa afroamericana a causa della eccessiva veridicità con cui affrontavano aspetti della cultura nera ritenuti censurabili.

Hughes, nato nel 1901 a Joplin, nel Missouri, trascorse l’infanzia nel Midwest e in Kansas con la madre e la nonna, trasferendosi dopo il diploma in Messico presso il padre, con cui ebbe sempre rapporti conflittuali. Scrittore precoce di poesie, reportage, saggi e romanzi, appassionato viaggiatore ed esploratore di paesi africani, asiatici ed europei, già negli anni’20 aveva stretto intensi rapporti con esponenti della Harlem Renaissance, mettendosi in luce per il suo impegno politico e sociale, vicino alle posizioni comuniste della International Labour Defense, soprattutto dopo i suoi soggiorni a Cuba e ad Haiti. Gli esordi letterari del poeta coincisero con il periodo d’oro del modernismo, aperto dalle opere fondamentali di Eliot, Pound, Marianne Moore, Crane, Wallace Stevens, William Carlos Williams: autori attenti soprattutto a una rivoluzione formale della scrittura in versi. Contemporaneamente però si imponeva, a New York e più specificamente ad Harlem, un movimento radicalmente rivoluzionario, deciso ad affrontare temi fino ad allora poco trattati in poesia, come il razzismo, i diritti civili, la libertà di espressione, l’uguaglianza sessuale, lo sfruttamento dei lavoratori, il rifiuto dei valori della middle-class bianca. La fiera assunzione della propria “negritudine”, come appartenenza a un popolo di ex-schiavi, lavoratori sfruttati, vittime di soprusi e torture, viene proclamata in diverse poesie, già dall’iniziale Proem (“I am a Negro: // Black as the night is black, / Black like the depths of my Africa”), e ancora in The Negro Speaks of Rivers, A Black Pierrot, e nella famosissima Epilogo (“Io, anche io, canto l’America. / Io sono il fratello, quello più scuro. / Mi mandano a mangiare in cucina / Quando viene gente, / Ma io rido, / Mangio bene, / E cresco forte”), o nell’accorata protesta rivolta a The White Ones (“O, potenti bianchi, / Perché mi torturate?). Ma giustamente non reprime l’indignazione verso i neri che sfruttano, picchiano e violentano le donne, le abbandonano gravide, inducendole alla prostituzione o al suicidio; offre loro la sua voce, pietosa e solidale, raccontandone in ballate d’amore il destino tragico e rassegnato.

Il curatore dell’antologia Alessandro Brusa si interroga sul modo più opportuno di tradurre il termine “nero”: coloured, black, negro, usati dal poeta in maniera intercambiabile. “Negro” è certamente il termine più storicamente attestato e utilizzato, ma anche il più legato a un’idea di razza pregna di luoghi comuni e pregiudizi. Hueghes se ne riappropria aggressivamente, per stigmatizzare ogni discriminazione basata sul colore della pelle. Negli anni ’70 il termine “black” assunse un significato più politicizzato, da parte degli attivisti che si battevano per i diritti degli afroamericani (il Black Panther Party, e gli slogan Black Power o Black is Beautiful). Parallelamente, la traduzione in  italiano privilegiava la scelta della parola “nero”, pur mantenendosi fedele al termine “negro” nella volontà di denuncia e ribellione degli autori.

Hughes aveva un rapporto intenso e diretto con la cultura popolare di massa, e i suoi testi si orientavano preferibilmente verso la descrizione di vagabondi, marinai, prostitute, ballerine, lavapiatti, biscazzieri e serve. Lo stile da lui adottato aderiva strettamente ai nuovi contenuti proposti, inserendo termini lessicali desunti dallo slang della sua gente, dai dialoghi smozzicati dei bar e dei night club, con l’introduzione di ritmi musicali del tutto inediti, derivati dal jazz e dal blues. Se quest’ultimo si esprimeva vocalmente, con intonazioni malinconiche e di scoraggiamento, il jazz invece era strumentale e più aggressivo, e il poeta tendeva a imitarne nei versi il ritmo sincopato, veloce, attraverso una scrittura ruvida, improvvisata e spontanea. All’epoca, nei locali newyorkesi come il Cotton Club o il Savoy Ballroom, muovevano i primi passi Duke Ellington e Louis Armstrong, suscitando curiosità ed entusiasmo. Sono numerose le poesie presenti in questa antologia dedicate alla nuova musica di Harlem, agli scantinati e alle sale in cui si esibivano gli artisti neri: Blues stanco, Jazzonia, Negro Dancers, Young singer, Night Club ad Harlem, Fantasia Blues, Harlem Night Song, Po’ Boy Blues…

I versi tendono a riprodurne graficamente e cacofonicamente i moduli ritmici: “Fighi ragazzi neri in un cabaret. / Jazz-bad, jazz-band, / Suona, suONA, SUONA!”, “Il mio brav’uomo mi ha lasciato, / Babe, se n’è andato via. / Ora è quel blues triste che resta / Notte e giorno in quest’agonia. // Hey! Hey! / Stanco, Stanco, / Dolore, pena”, “Il ritmo della vita / È un ritmo jazz, / Tesoro. / Gli dei ridono di noi”, “Dai su, lanciamoci nel ballo! / Skee-de-dad! De-dad! / Doo-doo-doo!”.

La Harlem Renaissance in cui il giovane poeta e intellettuale Langston Hughes era immerso bruciava di rabbia black, musica, alcol e sesso non normativo. Sull’omosessualità del poeta si rincorrevano voci e illazioni, mai tuttavia confermate nelle sue autobiografie, anche se nel 1961 nel racconto Blessed Assurance veniva affrontato il difficile rapporto, in una famiglia di colore, tra un padre e il figlio gay. Molte composizioni sono dedicate a seni e gambe femminili, e quelle esplicitamente amorose sembrano riferirsi romanticamente a un oggetto indefinito, suggerendo possibili interpretazioni ambigue quanto al genere, nel tentativo di celare il desiderio omosessuale attraverso le figure dei loving comrades (amicizie affettuose): “Oh, tesoro mio lontano! / Ah, mia amata, lontana!”, “Amavo il mio amico. / Lui è andato via da me. / Non c’è nient’altro da dire”.

Altre, più esplicitamente, parlano di ragazzi amati o da amare, con esplicite dediche a ignoti: “Dai su, marinaio, / Uscito dal mare. / Andiamo, dolcezza! / Con me devi venire”.

Nella prefazione, Alessandro Brusa evidenzia come fosse problematico ammettere la propria omosessualità quando già il colore della pelle si prestava a bersaglio di discriminazioni e angherie. Ma nella Harlem degli anni ’20 i balli in drag erano eventi sociali di grande richiamo per i turisti, celebrati nelle cronache dei giornali: il Rockland Palace Casino, ogni anno a marzo, ospitava l’Hamilton Club Lodge Ball, un evento in cui uomini ballavano con altri uomini e donne con altre donne. Nonostante questa fama esplicita e generalizzata di trasgressione, la critica letteraria posteriore oscurò la queerness rispetto alla blackness, ritenuta argomento più dirompente e socialmente rilevante.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 9 giugno 2023

 

 

 

 

 

aggiornato il 9 Giugno 20239 Giugno 2023
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RECENSIONI

IACCI, GALIMBERTI

PAOLO IACCI, UMBERTO GALIMBERTI, DIALOGO SUL LAVORO E LA FELICITÀ 

 EGEA, MILANO 2021

 

Il volume pubblicato da Egea. Dialogo sul lavoro e la felicità, è la trascrizione fedele di una conversazione tenuta tra Paolo Iacci, docente di Gestione delle risorse umane alla Statale di Milano, e il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti. L’editore ha deciso di lasciare inalterata l’originale versione orale per non togliere immediatezza al testo, che risulta infatti vivace e di godibile lettura, nonostante l’argomento trattato non sia dei più accessibili.

Al giorno d’oggi il lavoro, fondamentale ancoraggio alla vita reale, è diventato una chimera per molti: giovani che non lo trovano, laureati costretti a emigrare, personale qualificato espulso dalla catena produttiva, donne che non riescono ad accedere a un impiego. E tra chi ha conquistato un suo ruolo nel sistema, quanti sono i privilegiati che possono dire di amare il proprio mestiere, e quanti invece lo reputano una condanna, conseguenza della maledizione divina lanciata contro Adamo nel giardino dell’Eden?

Galimberti, rifacendosi alla cultura classica, prende in esame i due termini di felicità e di ozio. Per i greci l’eudaimonia si basava sull’armonia, l’equilibrio e la misura, acquisibili solo attraverso una profonda conoscenza e padronanza di sé, in accordo con il daimon interiore che è presente in ogni persona e ne guida le azioni. Nella società contemporanea, regolata dal mercato e basata sulle logiche di prestazione ed efficienza volte solo al profitto, l’obiettivo della felicità individuale, ottenuta con l’espressione e la realizzazione di ciò che siamo, viene subordinato al raggiungimento di altri traguardi (denaro, successo professionale, competizione esasperata), asserviti a ideali esteriori e futili.

L’otium dei latini coincideva con l’agire proprio degli uomini liberi, in opposizione al negotium, inteso come incombenza faticosa e costrittiva, e indicava lo spazio che ciascuno dovrebbe dedicare a se stesso, coltivando lo studio, le relazioni arricchenti, il perfezionamento del proprio carattere. Oggi per ozio si intende solamente lo svago, il riposo dalle fatiche lavorative, la distrazione offerta da diversivi superficiali.

Paolo Iacci considera l’essere umano come biologicamente   costruito per un’attività diretta a un fine, e ritiene che l’ozio, o   l’attività priva di scopo, provochi sofferenza e atrofia: l’idea del “lavoro ben fatto” è invece talmente radicata da spingere a perfezionare anche quello imposto, schiavistico. Il motto Arbeit macht frei, diabolicamente esibito all’ingresso del lager di Auschwitz, in cui si mirava in realtà all’annullamento della dignità e della vita dei prigionieri, era tuttavia assolutamente veritiero. Il lavoro rende liberi, ma i nazisti miravano a svilirlo e disprezzarlo, proprio perché atto “sovversivo” di sopravvivenza e di riscatto.

Alla valutazione positiva di Iacci, Galimberti oppone la constatazione che nella nostra età della tecnica non si viene valutati per il risultato dell’opera fornita, ma per la modalità con cui la si esegue; non si richiede adesione emotiva ma unicamente prestazioni all’altezza delle aspettative del mercato. Il modello economico adesso imperante piega la volontà dei singoli alla dura logica del rendimento e del profitto. Il lavoratore è sempre più dissociato dalla propria azione, poiché “l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, gli si contrappone come qualcosa di estraneo, come una potenza indi pendente da colui che lo produce”, secondo quanto scriveva Marx più di un secolo fa. Sarebbe pertanto necessario e doveroso sottrarsi all’alienazione del produrre fine a sé stesso, favorendo in primo luogo nei salariati “lo sviluppo dei propri talenti, la realizzazione della propria identità”, più che la sudditanza a un mezzo di sopravvivenza.

In un’epoca come quella in cui viviamo, oppressa da paralizzanti paure (i terrorismi, le pandemie, i tracolli finanziari) è tanto più necessario un profondo ripensamento del nostro modo di vivere e di progettare il futuro, traendo dal sentimento di angoscia che ci pervade nuove occasioni di riflessione e interiorità, consapevoli però di quanto il mondo sia cambiato, con il prevalere dominante della tecnica, convertita da mezzo a fine, non più strumento ma soggetto stesso della storia umana. Dobbiamo revisionare tutte le nostre categorie concettuali, nella vita economica, sociale e relazionale. I modelli economici tradizionali si dimostrano oggi carenti perché tentano di rintracciare una razionalità sequenziale che è ormai tramontata. Le antiche variabili chiave del mercato (domanda, offerta e concorrenza) non sono più utilizzabili per interpretare un sistema produttivo complesso, specializzato, parcellizzato, iperconnesso, computerizzato, e pertanto soggetto a imprevedibili e paradossali rivolgimenti, non inquadrabili in schemi mentali obsoleti.

Dal punto di vista etico, poi, sembra che le indicazioni morali delle religioni e delle filosofie tradizionali abbiano ben poco da dire a individui sempre più egocentrici, isolati, disillusi e scettici, incapaci di slanci altruistici e solidarietà, indifferenti al mistero e alle questioni metafisiche. Il nichilismo a cui è approdato l’occidente, negando ogni speranza di futuro, riduce all’insignificanza l’agire umano, e quindi la stessa attività lavorativa, che attualmente è caratterizzata in primo luogo da cieca competitività, invidia sociale, conformismo diffuso e paralizzante senso di inadeguatezza. Nella vita produttiva, l’identità non è più determinata da fattori religiosi, culturali, familiari, di razza o di genere, ma è decisa dal ruolo occupato in azienda, dalla carriera fatta, dal riconoscimento degli altri affidato alla parola pubblica, secondo il primato dell’oggettività e l’appiattimento della soggettività.

Risulta pertanto difficile trovare una sintonia tra lavoro e felicità. La felicità sembra possa essere possibile dopo il lavoro, malgrado il lavoro e non anche grazie al lavoro. Dovremmo invece tentare di renderlo desiderabile e   non solo causa di fatica e luogo di tensioni.  In che modo? Paolo Iacci suggerisce di sperimentare nuove forme di organizzazione dell’attività lavorativa, non più basate sul paradigma del comando/controllo, ma contraddistinte   da maggior delega, più ampia autonomia delle perso ne e una superiore attenzione alla loro motivazione e individualità. La tecnica continuerà a proseguire nel suo planetario sviluppo auto-referenziale, ma i luoghi   di lavoro, per poter funzionare, dovranno concedere spazio anche alla dimensione emotiva e non unicamente a quella professionale e razionale, nell’ambito di un’educazione alla cultura e ai sentimenti intesi in senso lato.

La proposta di Umberto Galimberti appare addirittura più estrema: indica la necessità di passare gradatamente dal “lavoro come produzione” (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale, senza ragione e senza perché) al “lavoro come servizio”, in grado di offrire non soltanto merci e beni spesso inessenziali, imposti da un consumismo esasperato, ma anche di erogare  tempo, cura, relazione. Senza trascurare la parte irrazionale, istintiva, ludica, affettiva ed emozionale dell’essere umano, attraverso cui ci si possa avvicinare individualmente e collettivamente alla felicità.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 13 febbraio 2022

 

 

 

 

 

aggiornato il 13 Febbraio 202213 Febbraio 2022
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RECENSIONI

IELMINI

RICCARDO IELMINI, SPETTRI DIAVOLI CRISTI NOI – NEO EDIZIONI, CASTEL DI SANGRO 2025

Le tre parti in cui si suddivide il romanzo di Riccardo Ielmini appena pubblicato da NEO, sono  denominati con garbata civiltà La Confraternita, Diaspora, Ritorno della Confraternita, stridendo sia con l’aggressiva sfrontatezza del titolo (Spettri diavoli cristi noi), sia con l’allusività dei sottotitoli di alcuni capitoli interni (L’Uomo Dei Boschi e il Diavolo, Brucia Solidarność, Talithà kumi reloaded, Recitativo della Matta, Como merda). Riccardo Ielmini è nato a Varese nel 1973, vive a Laveno e attualmente lavora come Dirigente Scolastico. Già autore di un volume di racconti (Belle speranze, 2011), di un romanzo (Storia della mia circoncisione, 2019) e di due eleganti raccolte di poesia, si è fatto apprezzare per l’originalità dei temi trattati, sospesi tra cronachismo locale e metafisica, e per la densità della sua scrittura singolarmente eccentrica.

La narrazione si apre con un lungo periodo privo di punti fermi, che occupa più di una pagina, offrendo subito al lettore un’anticipazione non solo dello stile immaginoso e fertile che l’autore sfrutta con originale perizia, ma anche un assaggio dell’atmosfera cupa di superstizione, timore, pregiudizi e malvagità che si respira tra le pagine fino alla conclusione, solo apparentemente liberatoria. “In principio, nel buio, prima del sonno, è la paura, la magica incontrollabile paura del Diavolo che aleggia sulla giovinezza, il Diavolo bestemmiato dalle nostre vecchie come Anticristo, Bestia, Ciapìn, l’acchiappa-anime che visita i tuoi sogni, bambino, che si intrufola nel tuo ozio, pinìn, che perlustra gli angoli morti della tua fragile fortezza, stèla, e quindi sta’ lontano dal Diavolo, e bestemmialo, Satana, tienilo a mente, tienilo a cuore, che se il principio è buono il resto è buono, dicevano le vecchie nella veglia e nel sonno, e noi nottetempo o splendigiorno non volevamo crederci…”

“Spettri diavoli cristi noi” è un romanzo di formazione, come di solito si definisce un testo che accompagni la crescita di una o più giovinezze: ed è un romanzo corale, ambientato in uno spazio circoscritto (quello originario dell’autore, cioè la pianura lombarda tra Varese e Como, con i suoi laghi, il paesaggio prealpino, il confine con la Svizzera). Romanzo di memorie ritrovate e reinventate, di nostalgie e rabbia, di inquietudini e noia. Qui vivono, tra parrocchia, scuole medie e ansie materne, alcuni ragazzi perennemente in fuga dal paese, cercando nel selvoso territorio circostante (da loro pomposamente chiamato La Contea), popolato da tossici, ladruncoli, contrabbandieri, puttane e “poveri cristi sperduti”, una fuga “dall’angolo buio della loro fragile fortezza”. In sella alle bmx, ubbidienti agli ordini di Fredy, il capo della ghenga, vanno a caccia di spettri nei sentieri tortuosi dei boschi, provvisti di torce e voglia di avventura. Una sera la banda si imbatte davvero nell’ombra del Demonio, quando sul sagrato di una chiesetta abbandonata scopre cinque figuri incappucciati che celebrano un rito satanico, abusando di due adolescenti intorpiditi o drogati. Lo scandalo che ne deriva, con le indagini dei carabinieri e quattro oscuri delitti maturati tra i malavitosi della zona, sono per i giovani la prima e terrorizzante scoperta della reale esistenza del Male. “Avevamo appreso meglio di ogni catechismo che la Bestia esiste e indossa panni di carne umana e schianta la sua fame aggredendo altra carne, carne debole, innocua”.

Sulla falsariga di questa prima esperienza, si dipanano tutte gli eventi successivi, sospesi tra realtà e fantasticherie, incubi e rivelazioni: “tutto ci sembrava pronto ad aggredire la nostra innocenza, sembrava aggiungere terrore a terrore”. Il vecchio che vaga tra gli alberi masturbandosi, pazzo di dolore per la figlia stuprata e uccisa; i drogati persi tra fumo e siringhe; un’anziana coppia suicida con il gas dell’auto; un reduce della grande guerra assetato di vendetta; la Matta dagli occhi di brace vogliosa di sesso; un professore in pensione alcolizzato; badanti polacche e misteriosi immigrati albanesi; un rom ermafrodita campione di calcio; attricette porno e altri incredibili personaggi emersi da memorie letterarie.

Il Male incombe anche senza travestirsi delle sembianze del Diavolo, e li fa maturare, i ragazzi della ghenga: “Eravamo corpo-anima dentro corazze di educazione che non ci contenevano più, ecco cosa stava succedendo. Le giunture dell’armatura non reggevano all’urto del mondo di fuori, che premeva sui confini della Contea, né alla spinta di noi, da dentro”. Ciascuno cresce a suo modo, chi vince e chi fallisce, chi emigra per sempre, e chi invece poi ritorna deluso. E chi muore, per una trasgressione fatale e imperdonabile. Ielmini ripercorre passato e presente, suoi e degli altri, intercalandoli nel narrato e nel vissuto: “Io sono rimasto qui, nel mio qui di slanci tiepidi, meraviglie intermittenti e malinconie sanguinanti… infervorato dal desiderio che fossimo se non tutti, almeno io, a un tiro di schioppo da un fatidico punto di perfezione”. Gli adolescenti raccontati da Ielmini, in preda a ossessioni inculcate dal più trito cattolicesimo, tra desiderio fanatico di purezza e assillanti tentazioni carnali di cui sgravarsi nel buio di un confessionale, potrebbero forse vantare un precedente narrativo nell’indimenticabile capolavoro di Meneghello, Libera nos a Malo, ma rimangono lontani dalla sorniona ironia e dalla franca comicità dello scrittore vicentino, e ancorati invece a un senso tragico dell’esistenza. La Contea in cui si muovono è terra su cui la Storia “ha soffiato l’alfabeto intero del dolore”, senza possibilità di riscatto.

Quando dopo molti anni i quattro protagonisti superstiti si ritrovano, adulti invecchiati senza cambiare veramente, tornati ragazzini pieni di illusioni e rancore, e decidono di incendiare la spelonca e le ricchezze del demonio incarnato che per anni aveva insanguinato il bosco (seminando terrore, arricchendosi con traffici illeciti, strozzando la quotidianità monotona di un paese privo di colpe), la vendetta a lungo meditata rimarrà puerile e inconsistente, come la neve che imbianca le loro risate scomposte e i tremebondi magoni, sciogliendosi nel buio di una notte stregata.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 12 febbraio 2025

 

aggiornato il 15 Febbraio 202515 Febbraio 2025
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RECENSIONI

IKKYU

IKKYŪ SŌJUN, NUVOLE VAGANTI – UBALDINI, ROMA 2012

La casa editrice Astrolabio-Ubaldini dedica un’importante pubblicazione a Ikkyū Sōjun, maestro zen giapponese del XV secolo, e alle sue 150 composizioni poetiche. Curato e tradotto esemplarmente dalla iamatologa Ornella Civardi, il volume si apre con un’approfondita introduzione alla vita, al pensiero e all’epoca in cui visse questo famoso «saggio non saggio», anticonformista riformatore e divulgatore della pratica zen, finissimo calligrafo e ispiratore della cerimonia del tè, nonché mentore del teatro del nō. Ikkyū (1394-1481), figlio disconosciuto di un imperatore e di una dama di corte, fu avviato bambino alla carriera monastica in un’epoca in cui lo zen stava perdendo la sua purezza originaria, istituzionalizzandosi in conformismi e compromessi col potere che ne minavano il messaggio di povertà e illuminazione interiore. Abbandonato il tempio della scuola Rinzai, il giovane mistico scelse di percorrere la strada disagevole ma più nobile e sincera del monaco itinerante, alla ricerca di una dimensione esistenziale e di pensiero meglio aderente alla sua vocazione interiore. Adottato il nome di Kyōun (nuvola vagante) preferì mescolarsi alla popolazione più misera e marginale, componendo poesie e coltivando il bambù, ma soprattutto rifiutando l’ipocrisia delle regole imposte da una rettitudine di facciata e dalla decenza comune, e accettando anche di sfidare lo scandalo e la provocazione nelle sue frequentazioni di bettole e bordelli: «quelli che pretenderanno di possedere lo zen, di sapere la Via, quelli saranno i veri impostori, i nemici della Parola. Siamo ciechi che conducono per mano altri ciechi…». La condotta di Ikkyū fu sempre finalizzata alla conquista di una profonda libertà interiore, fino agli anni della vecchiaia, trascorsi accanto a una cantante cieca molto più giovane (che rivitalizzò il suo spirito e la sua poesia in una nuova dimensione erotica), e poi nell’accettazione di un ruolo istituzionale come guida del tempio Daitokuji. I 150 componimenti poetici antologizzati, composti tutti da strofe di quattro versi secondo l’antica tradizione cinese, sono raccolti in undici capitoli tematici, introdotti ciascuno da un esauriente approfondimento di Ornella Civardi, e raggruppati secondo argomenti che esplorano la natura, i sentimenti, la ricerca della verità, la ribellione al conformismo, la conoscenza di sé. Si tratta di poesie lievi, attraversate da una sapienza umile e compassionevole, attenta a recepire ogni sfumatura dell’esistente, con gratitudine e partecipe adesione: «Boscaioli e pescatori, / loro sì che la sanno. / Non hanno bisogno di scanni preziosi, / di appositi palchi per fare lo zen. / Sandali di paglia e bordone / per girare l’universo, / La pioggia per casa l’aria per cibo / una vita intera».

Secondo la curatrice del volume, per Ikkyū la poesia «diventa lo strumento privilegiato lungo la via verso l’illuminazione… La carica cognitiva che porta con sé è così forte da destrutturare le barriere del senso e aprirle la strada fino al cuore dell’Essere». Nei suoi versi «troviamo tutto lo spettro delle emozioni e dei sentimenti, squadernati sulla pagina senza falsi pudori e senso delle convenienze, innocentemente nudi di fronte al giudizio del lettore, da cui reclamano un’identica nudità». Quindi, nessun intento didattico o falsamente moralistico in Ikkyū, bensì più spesso il dubbio, la sberleffo, la risata dissacratoria contro ogni dogma: «Saggezza di ieri, / oggi è stupidità».
Il volume si chiude con un esaustivo glossario di personaggi, termini, regole e linee di pensiero buddista, che ben introducono anche il lettore profano alla scoperta di uno straordinario universo filosofico ed etico.

 

«incroci on line», 13 giugno 2015

aggiornato il 13 Gennaio 202313 Giugno 2015
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RECENSIONI

IL VERRI

AAVV, IL VERRI n. 60: “COMICO E POESIA” – IL VERRI EDIZIONI, MILANO 2016

L’ultimo numero della rivista Il Verri (quadrimestrale letterario fondato da Luciano Anceschi nel 1956) è dedicato al rapporto tra poesia e comico, inteso come «opposto di una declinazione seria della testualità». Una letteratura, lirica o tragica, che si prenda troppo sul serio comporta che l’autore attribuisca alla sua scrittura una qualche efficacia etica, un’autonomia estetica positiva, come ben evidenzia Gian Luca Picconi nel saggio iniziale. Ecco allora che il comico, in tutte le sue variazioni (nonsense, satira, parodia, ironia, grottesco, paradosso, contraddizione, gioco di parole, lapsus, calembour, incoerenza lessicale) arriva a scardinare non solo le pretese ideologizzanti del testo, ma anche a neutralizzare le sue tonalità affettive, mettendo in crisi l’orizzonte di attesa del lettore. Tutti e dieci gli interventi critici della rivista celebrano quindi il comico come elemento dissacratorio, straniante e rivitalizzante dell’ufficialità letteraria. Già a partire dall’ “allegrezza” esaltata dai futuristi e dal loro anticipatore Ernesto Ragazzoni (vengono citati, con divertentissimi esempi, Farfa, Gian Pietro Lucini, Luciano Folgore e lo straordinario Palazzeschi) il distacco ironico con cui viene trattata la materia letteraria produce un abbassamento dei registri formali funzionale alla polemica contro l’accademismo e la seriosità della tradizione (Carducci, Pascoli, D’Annunzio).

Se nei poeti più noti del nostro novecento si producono effetti di nonsense talvolta involontari o tesi semplicemente a discostarsi dall’uso convenzionale del linguaggio (Montale, Caproni, Ottonieri, Rosselli, Fortini, Sanguineti, Villa, Porta…), altre volte la ricerca di straniamento e provocazione è fortemente perseguita e orgogliosamente proclamata, come in Fosco Maraini, Giulia Niccolai, Toti Scialoja (quest’ultimo insuperato maestro di esilaranti distici: «T’amo o pio bue / Anzi ne amo due»; «l’albatro a cui tendesti / un piccolo caimano»). L’interessante e provocatorio saggio di Gilda Policastro si sofferma sulla ricerca attuale legata alla categoria della “non assertività”, sottolineando l’esigenza di fondarsi più sul testo che sull’esplorazione intimistica: «riconvertire o riannettere alla poesia/prosa tutto ciò che non è (o non immediatamente) letterario e respingere, al contempo, un’idea di maniera della poesia, irricevibile in quanto troppo classica, troppo mistica, troppo abusata, troppo convenzionale (e troppo poco incline a confrontarsi con le convenzioni esplicite, o piegate a strumento), troppo spirituale, troppo soggettiva, troppo lirica, troppo incentrata sull’io, troppo assertiva, e via così».

I nomi da lei proposti a una più attenta valutazione sono quelli di Andrea Inglese, Marco Giovenale, Michele Zaffarano, segnalati anche in altri interventi per il loro distanziamento dal linguaggio standard, e per la volontà di scoordinare e disseminare i significati. Diversi sono i poeti che si raccomandano all’intelligenza curiosa dei lettori: Guido Oldani, Attilio Lolini, Leopoldo Attolico, Luigi Socci, Vito Riviello, Gianni Toti, Francesco Piscitello, Federico Roncoroni, mentre due differenti maniere di fare satira sul presente sono rilevati nei più noti Gabriele Frasca e Valerio Magrelli. Giustamente si ricorda poi l’apporto poetico e critico di uno scrittore pugliese quasi dimenticato (Vittorio Bodini, «intellettuale anti-sistematico»), e altrettanto giustamente si sottolinea l’interesse da parte di numerosi critici verso la poesia comica: tra gli altri, Luciano Anceschi, Milli Graffi, Paolo Zublena, Andrea Cortellessa, Vincenzo Guarracino.

Sono forse ancora i celebratissimi Sanguineti e Giuliani a cui si deve attribuire la maggiore finalità ideologica nella dissacrazione del testo e nella contestazione delle strutture comunicative, non solo nella loro personale produzione in versi, ma forse e soprattutto nei contributi teorici. Insomma, «M’affumico d’incenso», o il «merendare squallido e corto / con una dura rapa d’orto / ascoltando tra i bussi ed i sassi / botti di schioppi e russi di tassi» ci ricordano che «Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente. // Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto».

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www.sololibri.net/Comico-e-poesia-Verri.html               15 aprile 2016

aggiornato il 15 Gennaio 202315 Aprile 2016
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INFANTINO

ANTONIO INFANTINO, I DENTI CARIATI E LA PATRIA E ALTRE POESIE

ERETICA, BUCCINO 2024

 

Nel 1967 Feltrinelli pubblicò un libretto di Antonio Infantino, che ora viene ripreso dalle edizioni Eretica con la stessa storica introduzione di Fernanda Pivano, e con il titolo leggermente modificato in I denti cariati e la patria e altre poesie. Questo libro venne all’epoca considerato uno dei primi esempi italiani di poesia beat, e come tale l’autore fu invitato a tenere delle letture insieme ad Allen Ginsberg.

Infantino (Sabaudia 1944.Firenze 2018), architetto, pittore, docente universitario, musicista, poeta, è stato tra i maggiori esponenti della musica etnica meridionale. Artista poliedrico e originalissimo, nel 1975 aveva fondato i “Tarantolati di Tricarico”, reinventando il repertorio tradizionale della Basilicata, coniugando il folklore a messaggi di impegno sociale e politico, basati su ritmi ossessivi suonati con strumenti poveri in uso nella storia locale. A questa esperienza dirompente affiancò altre espressioni artistiche, come la creazione di colonne sonore, la collaborazione con musicisti jazz e classici d’avanguardia, performance teatrali di poesia visiva, esibizioni dal vivo sia in cabaret sia al Premio Tenco a Sanremo e partecipazioni a manifestazioni artistiche internazionali.

Fernanda Pivano, nel presentare il libro di Infantino dal titolo così provocatorio e irriverente, lo definiva “una critica alla civiltà del consumo” ottenuta accostando, con il metodo della composizione “a catena aperta”, temi di vita quotidiana con simboli più criptici e allusivi ad ambienti elitari, ma sarcasticamente contestabili. L’autore veniva da lei riconosciuto come “un personaggio che incarna in senso letterale alcune tra le cose migliori della cultura e dello spettacolo di questi ultimi quarant’anni”. Sfogliando le pagine de I denti cariati e la patria, ci troviamo immersi in un’atmosfera di impianto letterario e artistico sperimentale, che accompagna ai testi fotografie, disegni e bozzetti improntati sempre all’irrisione o al desiderio di sfrontata ilarità.

Gli scritti alternano pagine di diario a descrizioni di sogni e ricordi infantili, fino a esperimenti di composizione automatica, attuati attraverso l’uso di calembour e battute canzonatorie, spaziature irregolari e riproduzioni (in corsivo, in tondo e in stampatello, in grassetto e in dimensioni alterate) di segni alfabetici e numerici. Tale tecnica di composizione-scomposizione grafica, ereditata dai movimenti del primo Novecento del Futurismo e del Dadà, aveva in Infantino senz’altro una finalità ludica, coniugata però a un’esigenza di denuncia delle ingiustizie sociali passate e contemporanee nei riguardi delle classi subalterne.

Dal punto di vista contenutistico, l’autore tendeva a produrre nel lettore un effetto di straniamento giustapponendo concetti diversi: dalla ripetizione ribadita e impositiva di slogan (DEVE ESSERE COSÍ; VENERATE I PADRI DELLA PATRIA; Chissà perché; ma cosa fai ??!! ma dove vai ??!!; Morso dalla Tarantola), alla parodia di testi sacri (il discorso evangelico delle Beatitudini, il francescano Cantico delle creature) o letterari (Shakespeare, Foscolo, Leopardi, Manzoni), e alla contraffazione pungente di slogan pubblicitari coevi.

Frequente nei vari testi è la chiamata in causa dei lettori a esprimere un giudizio (“io chiedo a voi / se / credete che / c’è la libertà // io chiedo a voi se credete che la minigonna / è una rivoluzione sociale / oppure no”; NON SEI CHE UN NUMERO / anonimo cittadino del ventesimo secolo / PSICANTROPO / come va la vita”). Il perseguimento di un divertimento funambolico è poi evidente nell’utilizzo canzonatorio di onomatopee e palilalie: “ta tatatintan tatita // siccome sono innamorato ho bisogno di un gran / gelato ed anche nel caffè ho messo il sale /// tataita tataita tataita tataita”; “titinc titanc tichitichitanc / che c’è nei denti cariati che non ti va / tutto va // ah sì”.

La quarta di copertina riporta un lusinghiero giudizio di Vinicio Capossela, che fu amico e sodale di Infantino in molte collaborazioni, definendolo “Un filosofo, un profeta, uno sciamano e soprattutto uno che insegnava il modo di unire le cose. Quando c’erano i suoi concerti, lui era il tramite, il tramite per far accadere delle cose. Attraverso di lui la gente si univa e sprigionava delle energie. Era un tramite per far circolare le energie”.

 

© Riproduzione riservata     «SoloLibri», 25 febbraio 2025

aggiornato il 25 Febbraio 202525 Febbraio 2025
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RECENSIONI

INGLESE

LIONELLO INGLESE, IN UN RAPIDO CAMBIO DELLA GUARDIA

GIULIANO LADOLFI, BORGOMANERO 2012

 

Le sette sezioni che compongono questo libro di versi di Lionello Inglese sono introdotte da un  Prologo sulla corda  in cui l’ autore metaforizza se stesso entro un funambolo in bicicletta sulla corda tesa nel circo, che in equilibrio precario ma audace sfonda il telone a strisce, perdendosi nella notte stellata. E nell’epilogo conclusivo, il poeta traccia una puntuale  Apologia   esplicativa per definire esaustivamente i confini del suo lavoro, lasciando poco spazio interpretativo ad eventuali altre letture critiche: «Un universo popolato da animali, bambini assorti nei giochi, ombre di “auctores” che si affacciano direttamente nel testo poetico o compaiono in epigrafe», e descrive la sua scrittura immersa in una  sospensione metafisica  animata da «creature marginali». In effetti il tono della raccolta appare al lettore vibrare in un’ atmosfera rarefatta, oscillante tra sogno e realtà, visione e decodificazione razionale: in cui i due mondi opposti sono contrassegnati anche graficamente da caratteri diversi, che ne sottolineano addirittura le differenze cronologiche di composizione. La vita descritta appartiene talvolta a ambienti bucolici brulicanti di innocue presenze animali ormai desuete nelle descrizioni letterarie contemporanee (lucertole, api, rospi, gechi, colombi, zanzare o esopiche volpi sorridenti), e verdi di ortiche, gelsomini, salvia, maggiorana, ginestre e alghe. La natura sembra perciò favolosamente animata e magica, e in essa i bambini inventano avventurosi giochi, nascondendosi in immaginarie isole del tesoro, mentre la vegetazione si trasforma miracolosamente e tacitamente: «un mattino a rovescio, / ritornano ai rami / le foglie cadute sui prati». Persino le figure femminili appaiono fugaci, silenziose e forse stregate: «dischiuso / al passare veloce di un tuo sorriso / gusto di miele scuro», «Ti scelsi perché tanti / non colsero la tua / rara difficoltà». Professore di lettere antiche in un liceo romano, studioso e traduttore di classici latini e greci, Lionello Inglese ha nutrito la sua scrittura di una serena e composta musicalità (frequenti sono gli aggettivi che indicano una consapevole, matura e quasi epicurea disposizione d’animo: tranquillo, lieve, placido, quieto…), lontana da qualsiasi eccesso di passione o tormento, da qualsiasi turbata partecipazione alle vicende della cronaca, della politica, o della storia contemporanea. Anche lo stile è pregno di tutta la tradizione novecentesca, assolutamente privo di tentazioni sperimentali o trasgressive: i versi che fanno da epigrafe alle varie sezioni sono tratti da Sereni, Saba, Penna, Caproni, Montale. Colpisce anche un particolare e ammirato omaggio a Rodari: «quando ti scocca / il verso è una luna / che riempie di colore il tuo cappotto grigio». E in questa esibita e orgogliosa fedeltà al passato, controllata assenza di originalità, le parti più deboli del volume risultano essere proprio le dediche affettuose e private agli amici (che talvolta rasentano la retorica: «bontà e mano ferma,/ coraggio e virile/ passione»), o le «Strette memorie» personali e gli «amarognoli» epitaffi ad altri poeti. Così la generosissima prefazione di Luca Canali sottolinea l’immersione della poesia di Lionello Inglese nel solco più collaudato della nostra letteratura («Una vera ‘storia’ dell’intera cultura poetica dell’ultimo secolo»), che partendo da Leopardi, attraverso Carducci e Pascoli, arriva a Sinisgalli, ma rifacendosi addirittura a Alceo, Saffo, Virgilio per approdare a Laforgue, Valéry e Apollinaire. Quasi incoraggiando ironicamente l’autore di questi versi a scoprire una voce più decisamente sua, e coraggiosamente innovativa.

 

«incroci on line», 27 ottobre 2015

aggiornato il 14 Gennaio 202327 Ottobre 2015
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INSANA

JOLANDA INSANA, TURBATIVA D’INCANTO – GARZANTI, MILANO 2012

Le sei sezioni di cui è costituito l’ultimo libro di versi di Jolanda Insana risultano assolutamente omogenee nell’esibire una provocatoria, esacerbata violenza di immagini e tonalità; un linguaggio che si squaderna incalzante e scorticato, contorto, dissacratorio, privo di qualsiasi punteggiatura che non sia il punto di domanda; strofe disuguali e graficamente distribuite tra caratteri corsivi e tondi; un rincorrersi esaltato tra sensibilità civile e politica da una parte e egocentrica, insuperbita assunzione del privato dall’altra. Una poesia che si infossa, intorcigliata, sbaragliata, gracchiante – per usare alcuni degli attributi presenti nel primo poemetto-, a indagare «la vita offesa che cerca la verità»: offesa, ma anche malata, rabbiosa, atterrita, inabissata. Che affronta le tragedie di una storia universale di distruzione e imperdonabile ingiustizia (dalle alture del Golan all’Afghanistan, da Gerusalemme risalendo fino al bombardamento di Dresda, a un mortificato ecologismo sconfitto): ovunque dove «scortati e scortatori / finiscono nelle reti dei pescatori». Ma soprattutto grida il suo spasimo furioso, bilioso, quando «battibecca / con il suo doppio condiscendente», un alter ego odiato e svillaneggiato, un’ombra femminile onnipresente e castrante: forse la vicina di casa del piano di sotto, più giovane e più stupida, del tutto impermeabile alla poesia, alla cultura, alla storia («perché ce l’ha con me / e attenta alla mia vita?»). Con lei ingaggia un corpo a corpo arrabbiato, fatto di reciproche definizioni offensive («blenorragica e garosa», «sdrumata e sdrucita», «squinzia vampiretta sbollentata», «diabetica ipertrofica parabolante», «cachettica pelosa»). Si tratta di due solitudini rancorose che si confrontano in duelli verbali sarcastici e volgari, maledicendosi e oltraggiandosi, in una totale e ostentata incapacità di comunicazione, in un turpiloquio che oscilla tra la banalità del pettegolezzo condominiale e la sfrontatezza di farisaici processi ideologici. Droga, sporcizia, squallore quotidiano, sesso brutale: ciascuna figura diventa il fantasma ossessivo dell’altra («sei tu che ingrassi i miei dèmoni / stitica ulcerosa»), e all’ottusità intellettuale dell’una si oppone l’ambizione poetica insoddisfatta dell’altra («mi cammini sopra la testa / con gli scarponi chiodati / e urli notte e giorno / tu con le tue poesie / con la tua falegnameria»). Il ritratto della nemica è impietoso, si risolve in coppie di aggettivi contrapposti e crudeli (banale e boriosa, pelosa e segreta, razzista e oltranzista, frodolenta e imbonitora, sciancata e lazzariata, infibulata et sitibonda…), fino alla rivelazione finale, che è anche una confessione pentita, un’ammissione di colpa e sconfitta. L’altra sono io, la poesia crea i suoi spettri, incubi deliranti: «non c’era nessuno dietro la porta / l’alloggio era disabitato e l’ho abitato / ma non c’era e non c’ero / era il mio doppio disagiato / ora lo so e sloggio», «esce di scena l’azzoppata iena / muta e scriteriata / e più non urla ti faccio guerra ti spacco». Un turbamento, una turbativa che sa di sfida illegale, di compiaciuta provocazione, di letteraria sobillazione.

 

«Leggendaria» n. 95, settembre 2012

aggiornato il 30 Dicembre 20222 Gennaio 2015
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