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RECENSIONI

INSANA

JOLANDA INSANA, LA CLAUSURA – CROCETTI, MILANO 1989

Seguo le poesie di Jolanda Insana da diversi anni, con quella curiosità intellettuale che rasenta l’ammirazione e non è mai sicura se sia giusto abbandonarcisi o meno. Con emozione, quindi, alcune estati fa, ho atteso la sua comparsa ad una lettura pubblica di poesie ai Giardini Botanici di Roma, in mezzo a un pubblico che scandiva gli applausi a seconda della notorietà (e non della consistenza) degli interpreti; io, ingenuamente forse, cercavo di distinguere i pochi poeti veri da molti autori di versi, badando anche alla risonanza emotiva che mi suscitavano parole e immagini insieme. Jolanda Insana era riuscita a scuotermi, così essenziale in maglione e pantaloni scuri, capelli corti e grigi, voce sicura e profonda. Aveva letto una poesia che si intitolava Bomba, bell’esempio di originalità e forza, tra tanto manierismo-cerebralismo-intimismo. La guardavo, intensa e drammatica, con la sua espressiva faccia sicula, e siccome amo ricamarci sopra (sulle facce e sui nomi) riflettevo che forse la poesia italiana era riuscita a ritrovare una sua Cassandra, fustigatrice e incorrotta. Una che si porta addosso un nome impressionante, “Insana” (opposto al verbo “sana, guarisce”: quindi “ammala, fa impazzire”), con queste due “I” iniziali che pungono come due spilli, non può non essere inquietante, deve esserlo anche poeticamente, oltre che come persona. L’ultimo libro pubblicato dall’Insana si intitola La clausura: titolo che potrebbe voler indicare una vocazione imperiosa in favore dell’esclusione dell’esterno e dall’esterno; ma che potrebbe anche essere stato scelto solo in funzione della sua durezza onomatopeica. Infatti l’esterno (l’altro) rientra, seppure di straforo, nelle pagine di questo volume: e sono ambienti assolati e pagani (Sicilia, Marocco), nordici e severi (Germania), a volte dai tormentati contorni biblici. Si intuisce anche una presenza maschile, piuttosto meschina, e comunque più odiata che amata, puro pretesto alla carica di rancore che vuole esprimersi: «Ti scardo e sbramo e ti scotenno con parole»; «non cardo né canto e non penelopo al telaio /… e non sarai certo tu / che mastichi erisamo a imbudellarmi»; «se è questo che vuoi mi mozzo la mano e te ne faccio / dono… / e dunque mi riprendo la mano e ti carpiono». E tuttavia la prima e dichiarata intenzione dell’autrice è senz’altro metalinguistica, e la sua poetica viene ribadita asseverativamente e in continuazione: «così inforco le parole e le giro per troppa tenerezza»; «e non mi smielo / e sotto i colpi della lettera dura»; «e per troppo fastidiume abbandono le strade / dell’omotonia e svolgo e avvolgo etimologie / apparigliandone la differenza»; «contro ogni evidenza / non comunica nulla la bocca che riafferma che è bocca / nelle pagliose parole capaci di abbrigliare / la stessa eteroclisia che dice la verità della specie…». Poesie rapide e densissime, che si inceneriscono dopo un bagliore accecante: la Insana diffida – è evidente – della lunghezza che stempera e diluisce l’intensità («bevitori di rapidi sorsi / siamo incantati dalla lunga durata»), e demanda al messaggio poetico la folgorazione salvifica del riscatto dal male: «e credo che la parola molto assista chi per lei molto / rischia». Gli artifici linguistici cui la Insana si affida per sconcertare il lettore-preda (poiché questa sembra essere la sua fondamentale aspirazione) sono in primo luogo l’uso/abuso della “s” impura (smielo, sfrangere, sfrotto, sconturba, scardo, scavezzante, sbramo, svolare, sbravanta, spicchio, sgraffia, straglio, scortico, scardoso, sbroda: sono i più espressivi tra i quasi duecento usati…), poi la fusione di parole (affondafantasmi, solincendio, superfluitava, contemplascenari…), i numerosi neologismi, che ribadiscono – anche in seguito a successive letture – una carica difficilmente assorbibile di aggressività, di concentrata violenza. E tale e tanta è questa forza, da risultare a volte squilibrata rispetto all’oggetto stesso della poesia, per cui anche chi sia favorevolmente disposto ad accoglierla, finisce per temere un autocompiacimento eccessivo, un virtuosismo fine a se stesso. Una vox clamans savonaroliana come questa di Jolanda Insana necessiterebbe, forse, di temi pari ai suoi toni.

 

«Hortus» n.7, gennaio 1990

RECENSIONI

INTERVENTO SU POESIA, LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

INTERVENTO SU POESIA, LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

Majorino nell’introduzione alla sua recente antologia poetica invitava i lettori, da quelli più occasionali ai più “impastati” e interessati, a contribuire con critiche e materiale diverso al riesame del ruolo della poesia, degli elementi che la compongono o condizionano, del significato che essa riveste per molti compagni. Io non credo che questo lavoro si possa fare senza impegnarsi in un confronto-scontro e senza un minimo di studio comune; per cui una volta chiusa questa iniziativa del QdL di fornire una serie di articoli-strumenti per il dibattito, tutto resterà come prima, la pagina letteraria rimarrà scollata e affidata all’iniziativa di singoli volonterosi, ecc. Comunque, tanto per dare qualche indicazione a chi sentisse l’esigenza di conoscere un po’ lo stato attuale del dibattito sulla poesia, sabato 21 e domenica 22 gennaio nel Teatro Comunale di Crevalcore (BO) si terrà un seminario su “Il linguaggio nella poesia oggi” cui parteciperanno collettivi redazionali e gruppi da tutt’ Italia. I punti su cui ci si dovrebbe soffermare sono molti: in primo luogo, l’incidenza politica dell’operazione poetica (a cosa serve, se serve, in che modo serve fare poesia); poi, la differenza specifica della poesia di sinistra da quella che si finge neutrale, o si dichiara pura, incontaminata (e questa differenza, secondo me, non può essere di soli contenuti, ma deve anche risultare dalla forma): ancora, come evitare che a scrivere siano sempre gli stessi, come democratizzare la poesia.
1) Mi sembra che politicamente, oggi, il rilievo della poesia ufficiale sia minimo, la sua incidenza in pratica nulla. E giustamente, perché ogni arte si ritrova lo spazio che si è meritato. Diciamo allora che la poesia è stata sempre un’arte aristocratica, rivolta a un pubblico selezionato: un’arte più cortigiana delle altre perché appunto circolante in ambienti colti ristretti. Letta da pochi, quindi scritta per pochi, quindi pubblicata quasi solamente per prestigio. Questa poesia, dal nascere del capitalismo, si è dovuta sempre far perdonare di essere un’operazione commerciale perdente. E il perdono l’ha ottenuto appunto scegliendo di essere innocua. Poiché la poesia “non rende”, deve almeno “non danneggiare”. Innocua, quindi gratuita, quindi nobile. Ma anche spuntata, inconcludente, non incisiva. Chiaro che con queste premesse, la poesia si ritrova ad avere scarsissimo peso politico, non trascina le masse, difficilmente esprime il sociale. Non esiste, oggi, la poesia civile: per fortuna, perché significherebbe che qualche intellettuale si arroga il diritto di interpretare “oracolarmente” le esigenze popolari, che c’è ancora qualcuno che si sente investito a “dare forma” poetica a rabbie, delusioni, scontentezze. Perché molto spesso si spaccia per poesia civile una poesia demagogica o intenerita o consolatoria. Per concludere questo primo punto, la poesia è politica quando parla di un soggetto politico, quindi è rivoluzionaria quando parla di un soggetto almeno potenzialmente rivoluzionario, cioè insoddisfatto e teso in un processo di cambiamento.
2) La poesia di sinistra è perciò veramente tale non tanto quando piange su Mao, o dipinge mari di bandiere rosse, ecc., ma quando chi la scrive lascia trasparire la sua contraddizione di classe, di sesso, la sua alienazione e la sua voglia di cambiare, in un linguaggio che sia anch’esso nuovo: contraddittorio, frantumato, divertito, ironico, come vi pare, ma non scontato, non retorico o non controllato (metterci dentro cento volte “cazzo” non cambia niente, non è neanche tanto originale). Ricordiamoci che forse non c’è nemmeno più la possibilità di scandalizzare, il sistema editoriale pianifica e rende innocua anche la più azzardata operazione poetica, anche la rivoluzione formale della neoavanguardia.
3) Allora il problema fondamentale è che la grossa conquista che si è avuta nel linguaggio, la democratizzazione della comunicazione verbale (nelle radio libere, nelle assemblee) si attui anche nella poesia e nella comunicazione scritta. Siamo già in tanti a scrivere, donne studenti pensionati innamorati precari disorganizzati creativi con lo spray. Penso che dovremmo essere di più; e diffondere (il vecchio ciclostilato è tuttora un’ottima soluzione). Spazi da riempire ce ne sono ancora. Volendo, potrebbe prestarsi benissimo anche la pagina 6 del QdL. Attilio Mangano in una riunione ha fatto notare che sul Quotidiano, prima del titolo stesso, c’è una poesia di Brecht.

«Quotidiano dei Lavoratori», 21 gennaio 1978

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IOVINO

SERENELLA IOVINO, ECOLOGIA LETTERARIA.UNA STRATEGIA DI SOPRAVVVIVENZA – EDIZIONI AMBIENTE, MILANO 2015

L’ecocriticism è una branca di studi letterari molto sviluppata negli USA già dagli anni ’90. Piuttosto sottovalutato da noi, ha iniziato a interessare le istituzioni accademiche ed editoriali grazie al lavoro della Professoressa Serenella Iovino, una delle voci più accreditate dell’ecocritica internazionale: insegna “Italian studies and Environmental Humanities” alla University of North Carolina, e tra le sue numerose pubblicazioni sull’argomento, il volume Ecologia letteraria, Una strategia di sopravvivenza, pubblicato nel 2015, ha riscosso notevole successo non solo tra gli intellettuali addetti ai lavori, ma anche tra gli studenti più giovani, particolarmente sensibili alle problematiche ambientali.

Iovino ha intercettato questa empatica ricettività delle nuove generazioni nei riguardi dell’habitat naturale non specificamente umano (animali, oceani, foreste) proponendo un filone di ricerca inconsueto e stimolante: “Il risultato che speravo di ottenere era questo: presentare la cultura letteraria ambientale nella sua dimensione insieme locale e globale, facendone emergere la natura fecondamente comparatistica”. Un uso etico dei testi letterari, antichi e moderni, può contribuire a orientare i rapporti umani con il mondo non umano, in una sorta di pedagogia sociale che stimoli a riconsiderare il posto occupato dall’homo sapiens sapiens in un mondo minacciato dalla catastrofe. Non solo principi teorici, quindi, ma anche un impegno politico, un attivismo culturale da incoraggiare attraverso la lettura critica di testi che in varia misura si siano occupati dell’ambiente.

Il volume di Serenella Iovino si divide in due parti: la prima sezione inquadra l’orizzonte storico e teorico in cui si è inserita la cultura ecologica, privilegiando il pensiero filosofico post-moderno, la letteratura decentralizzata, non gerarchica, inclusiva; la seconda parte analizza criticamente quattro autori novecenteschi che hanno prestato particolare considerazione alle differenze di genere, di specie, di lingua, di evoluzione biologica: Annamaria Ortese, Clarice Lispector, Pier Paolo Pasolini, Jean Giono.

I capitoli iniziali del volume sottolineano le modalità negative con cui la modernità ha deturpato il paesaggio, inquinando non solo materialmente ma anche ideologicamente l’integrità e l’autenticità dell’habitat fisico e mentale che ci circonda: dal giardino alla discarica, dalla sovrapproduzione di merci di consumo allo scarto incontrollato e nocivo di rifiuti, dalla creazione di panorami sintetici alla distruzione di qualsiasi coltura spontanea. Per inventare una nuova etica della cultura ambientale, secondo Iovino bisogna abbandonare i modelli di dominio ideologico che impongono filosofie totalizzanti o verticalistiche, e le tecniche di produzione interessate solo alla commercializzazione globalizzata, favorendo invece politiche di gestione del territorio su base locale, e un nuovo umanesimo, non più antropocentrico, ma espressione di una comunità bioetica più vasta.

Numerosi sono stati gli autori che in passato hanno dimostrato un atteggiamento di rispettoso riguardo verso la natura: da Emerson a Thoreau, da Melville a Twain. Oggi questa sensibilità è notevolmente cresciuta, anche grazie all’impegno dei movimenti ambientalisti e animalisti a livello internazionale, in letteratura, nel cinema, nelle arti visive. Tra i quattro scrittori presi in considerazione da Iovino, di Annamaria Ortese è ben noto lo sguardo di solidarietà e compassione universale verso ogni forma di vita: animali, vegetali, esseri umani derelitti, territorio deturpato. La consapevolezza della sofferenza che accomuna tutti, è ben evidente nel suo romanzo più celebrato, L’iguana, del 1965, in cui un animaletto surreale, metà rettile metà donna, impersona la natura stessa nei suoi aspetti più inquietanti, e insieme la ribellione a una società patriarcale che opprime gli indifesi.

La stessa idea del femminile come complessità perturbante anima le pagine del romanzo La passione secondo G.H. della brasiliana Clarice Lispector, in cui la protagonista schiaccia volontariamente una blatta, interrogandosi poi sull’essenza dell’individualità umana nella sua differenziazione con il mondo animale. Entrambe le opere delle due scrittrici mettono in discussione l’autoreferenzialità tipica dell’homo sapiens, riconoscendo negli abissi dell’animalità e di ciò che viene comunemente considerato inferiore, abietto o disgustoso, la radice di una realtà originaria, in cui materia e fisicità rivelano il profondo legame sia con il limite sia con il superamento del limite, nella ricerca di una trascendenza e di un rapporto con il divino che liberi dalle catene di una tracotanza ottusamente compiaciuta della propria unicità.

Del provenzale Jean Giono, che nel 1980 ha pubblicato il bestseller L’uomo che piantava gli alberi, Serenella Iovino mette in luce il messaggio pacifista di speranza sociale, attuato da chi generosamente dedica tempo e lavoro a salvare la vegetazione dall’incombere della cementificazione e desertificazione del suolo, in una visione bio-comunitaria che accomuna il destino delle persone a quello delle piante, delle erbe, dei corsi d’acqua e di chi li abita, prendendosi cura dell’altro da sé.

Ma sorprendente e originale è soprattutto il capitolo dedicato a Pier Paolo Pasolini, della cui sensibilità ecologica in pochi sembrano aver tenuto conto. Esempio alternativo all’intellettualità monoculturale, Pasolini ha praticato negli scritti narrativi, poetici, saggistici e nel ruolo di straordinario sceneggiatore e regista, una particolare educazione allo sguardo inclusivo, sia sul piano sociale e politico, sia sul piano linguistico. Se quindi per ecologia si intende l’attenzione alle differenze, la volontà di “far emergere le diversità come essenziali alla vita del tutto”, ecco che lo si può definire a pieno titolo “ecologista”. Ha infatti sempre valorizzato la ricerca di narrative periferiche e marginali, dal punto di vista sia geografico sia culturale (i dialetti, le borgate, il proletariato o il mondo rurale); si è identificato con la diversità sessuale senza fariseismi o censure; ha esaltato la bellezza dei paesaggi più lontani e stratificati nella storia (India, Africa, Palestina) evitando di ricadere nel conservatorismo; si è opposto a ogni livellamento culturale e ai condizionamenti consumistici della società neocapitalistica. Il paesaggio raccontato da Pasolini ha, nella sua elaborazione storica, una “scandalosa forza rivoluzionaria”, poiché nelle realtà locali e ancora incorrotte si contrappone all’industrializzazione sregolata delle campagne, all’inquinamento delle acque, al disordine urbanistico delle città, all’orrenda trasformazione omologante imposta dal potere economico su luoghi e popolazioni.

“Se la natura muore, travolta dallo sviluppo, muore anche l’arte”, e con essa ogni interpretazione vitale del presente. Impartendoci questo prezioso ammonimento, Serenella Iovino conclude la sua interessante e provocatoria indagine critica sulla narrativa ecologica.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 29 giugno 2021

RECENSIONI

IOVINO

SERENELLA IOVINO, GLI ANIMALI DI CALVINO, STORIE DALL’ANTROPOCENE TRECCANI, TORINO 202

Serenella Iovino (Torre Annunziata, 1971), saggista e studiosa di cultura ecologica, è professore ordinario alla University of North Carolina. I suoi libri Filosofie dell’ambiente (Carocci, 2004) ed Ecologia letteraria (Ed. Ambiente, 2006), più volte ristampati, hanno contribuito alla diffusione delle scienze umane ambientali in Italia. Con Ecocriticism and Italy: Ecology, Resistance, and Liberation (Bloomsbury, 2016), ha vinto il Book Prize dell’American Association for Italian Studies. Collabora a La Repubblica. Lo scorso anno ha pubblicato con le edizioni Treccani Gli animali di Calvino (uscito in inglese già nel 2021), un saggio che prende in esame il bestiario di cui Italo Calvino ha popolato i suoi romanzi, in particolare soffermandosi su cinque esemplari che, indagati nelle loro peculiarità, raccontano di sé e del problematico rapporto intrattenuto con la specie umana: formiche, gatti, un coniglio, una gallina, un gorilla.

In realtà, tutti i romanzi di Calvino sono popolati da animali, dai primi due (Il sentiero dei nidi di ragno,1947, e Ultimo viene il corvo, 1949) a Marcovaldo fino a Palomar, con un’attenzione che è interesse cognitivo ed emotivo all’ universo senziente e non parlante, vittima dell’incuria e dell’egoismo di noi bipedi. Già ventitreenne, in un articolo sull’Unità, scriveva: “Noi dobbiamo una spiegazione agli animali, dobbiamo chieder loro scusa se mettiamo a soqquadro questo mondo che è anche il loro, se li tiriamo in ballo in affari che non li riguardano”.

Serenella Iovino intreccia la sua voce a quella dello scrittore ligure con l’intenzione di far parlare i cinque protagonisti presi ad esempio, spostando il focus dal modo in cui noi li vediamo al modo in cui loro vivono, e insieme fornendo al lettore una ricca documentazione biologica, storica, ecologica delle loro caratteristiche, origini e diffusione nell’ambiente che occupiamo come fosse nostro dominio esclusivo. Donne e uomini dell’Antropocene, ci riconosciamo scissi tra un delirio di onnipotenza che vorrebbe asservire l’intero pianeta ai nostri bisogni, spesso indotti e superflui, e il consapevole e giustificato senso di colpa per come le nostre scriteriate attività hanno provocato dannosi e duraturi effetti sul clima, sui cicli biologici, chimico-fisici e geologici delle terre e dei mari, causando il collasso di molti ecosistemi.

Primo romanzo breve di Calvino a venire preso in considerazione dall’autrice è La formica argentina, del 1952, ambientato nella Riviera ligure di Ponente, dove una giovane coppia di operai, appena trasferitasi in cerca di una vita più salubre, trova inaspettatamente la casa invasa da una colonia di formiche resistenti a qualsiasi insetticida e a ogni severo decreto legge che ne imponga l’eliminazione. Calvino aveva definito questo racconto come il suo più realistico, e forse anche il più autobiografico, perché in effetti la Liguria tra gli anni 20 e 30 del secolo scorso era stata sommersa dall’occupazione degli artropodi sudamericani, che non aveva risparmiato neppure la sua casa di famiglia a Sanremo, insinuando nello scrittore il sospetto che proprio il padre, noto coltivatore e studioso botanico, potesse essere stato l’inconsapevole artefice dell’importazione di questi temibili clandestini, avendo trasferito nella regione esemplari di piante esotiche da Cuba, dove si era fermato a lavorare per alcuni anni e dove lo stesso Italo era nato. La Linepithema humile, nota per essere una delle cento specie aliene invasive più temibili al mondo, originaria della regione del Paraná, nell’arco di un secolo aveva fatto il giro dei continenti, modificandone il suolo attraverso l’azione di immense colonie coese tra loro da una particolare “eusocialità”, ovvero capacità di sviluppare un elevato grado di organizzazione comunitaria. L’espansione delle formiche sul nostro pianeta è cominciata oltre cento milioni di anni fa: la loro origine precede addirittura quella delle piante. Essendo insetti immuni all’azione dei pesticidi e capaci di adattarsi a veleni sempre più letali, hanno agito estesamente e in profondità sugli ecosistemi e lungo tutti gli anelli della catena biologica, al punto che viene da chiedersi chi siano stati i veri “invasori biologici” sulla terra, se gli insetti eusociali o gli esseri umani.

Marcovaldo (1963) è forse il libro più letto nelle nostre scuole, ma sarebbe errato considerarlo un libro “facile”, perché in realtà deve essere interpretato e discusso come una grande metafora dell’estromissione sociale. Il protagonista fa il manovale in una fabbrica di una livida città industriale del nord, e non rassegnato allo squallore urbano va alla ricerca di angoli di poesia nascosti nel grigiore, con la speranza di scoprire qua e là pezzi di natura incontaminata, mentre si imbatte in un paesaggio desolatamente sporco, inquinato, crudele con gli uomini e gli animali. Iovino si interessa a un capitolo specifico di questo volume, Il giardino dei gatti ostinati, in cui una colonia di gatti inselvatichiti, “affamati di cibo e di spazio”, competono con gli umani per accaparrarsi elementari metodi di sopravvivenza. Nessuna alleanza è possibile tra loro e il mondo civilizzato, come non lo è per Marcovaldo: felini e protagonista risultano entrambi emarginati, esclusi, resi sospetti dalla loro inaffidabilità. Per secoli questa diffidenza ha accompagnato il destino dei gatti, ci spiega l’autrice, comparsi circa diecimila anni fa in Medioriente e subito utilizzati nei villaggi neolitici per la caccia ai roditori. Questo legame basato sulla vicinanza e sull’opportunismo reciproco ha favorito il processo di domesticazione dei gatti, che tuttavia continuano a mantenere un certo grado di indipendenza dal mondo degli umani. Nonostante oggi si siano conquistati il ruolo affettivo di animali da compagnia, la loro proliferazione in colonie nocive li rende tuttora oggetto di tecniche di rimozione progressiva (abbandono, castrazione, uccisione). Calvino consegna alla nostra riflessione una domanda sull’ecologia politica delle città moderne, che non lasciano spazio né alla natura né alla biodiversità sociale.

Se nei primi due capitoli formiche e gatti venivano presentati collettivamente, nelle successive tre sezioni vengono introdotti nella loro singolarità un coniglio da laboratorio ospedaliero, una gallina in un’officina meccanica e un gorilla albino nel giardino zoologico di Barcellona, in tre luoghi assurti a simbolo di oppressione e strutture di dominio (il laboratorio, lo zoo e la fabbrica) che hanno soggiogato specie diverse dalla nostra a partire dall’inizio dell’età industriale. Nell’epoca dell’Antropocene in cui viviamo, il destino degli animali finisce per convergere “con quello delle persone marginali e subalterne, vittime di un potere che dispone di loro in maniera capillare e totale”.

Il coniglio velenoso è un racconto compreso in Marcovaldo, intrecciato fisicamente ed emotivamente con la vita del protagonista: uomo e animale condividono la stessa esperienza in un reparto ospedaliero, in balia della medesima violenta reclusione e di una sperimentazione medica passivamente subita. Il manovale trafuga la bestiola dalla gabbia in cui è rinchiusa con l’intenzione di portarla a casa e di cibarsene con la famiglia. Messo in allarme dai medici per la pericolosità del coniglio cui era stato somministrato un virus letale, finisce nuovamente in clinica insieme all’animale, di nuovo entrambi prede di crudeli test scientifici.

Nel volume I racconti del 1958 troviamo La gallina di reparto, “combinazione di commedia agrodolce e apologo morale”, tentativo di conciliare narrativa di invenzione e realismo sociale su sfondo marxista. Adalberto, guardia giurata, porta in fabbrica una gallinella lasciandola libera di andarsene in giro a caccia di vermi, tra bulloni e viti arrugginite. Socievole e innocua, lei fa l’uovo regolarmente, illudendo il guardiano sulla possibile creazione di un intero pollaio. Presto la presenza della pennuta innesca però una competizione tra gli operai e provoca l’irritazione dei dirigenti, per cui alla fine si decide di sgozzarla, mettendo fine all’utopia di far coesistere fabbrica e campagna, in nome del nuovo ordine industriale capitalista. Ancora una volta, Calvino mette in scena il dissidio tra natura e cultura, tradizione e progresso, reso concreto nel rapporto tra l’ingenua spontaneità animale e le spietate esigenze produttive degli uomini.

Appartiene a Palomar (1983), suo ultimo romanzo, il racconto Il gorilla albino in cui il protagonista (alter ego dell’autore), visitando lo zoo di Barcellona, si sofferma a osservare, al di là di una vetrata assediata dai visitatori, l’attrazione principale: un grosso scimmione dal pelo bianco e dal “lento sguardo carico di desolazione e pazienza e noia”, abbracciato a un copertone di pneumatico d’auto, quasi fosse un giocattolo consolatorio per placare l’angoscia e aggrapparsi a un aiuto concreto, in una realtà da lui patita come spaesante e costrittiva. Serenella Iovino ricostruisce la vicenda del gorilla bianco dalla sua nascita in Guinea Equatoriale, fino alla sua cattura e deportazione in Spagna e alla reclusione in uno zoo che lo esibisce come un fenomeno della natura e un trofeo conquistato in una campagna coloniale, unico esemplare al mondo con un patrimonio genetico da conservare. Con le scimmie antropomorfe gli esseri umani hanno in comune il 98% del DNA, e su questa affinità e differenza si gioca il ruolo di dominio e sopraffazione che da millenni ha creato abissi “tra esseri che hanno la stessa radice evolutiva e a cui, fatalmente, è impedito di riconoscersi come soggetti fraterni”. Italo Calvino utilizzava la letteratura come chiave di lettura di una contemporaneità sempre più complessa, eleggendo gli animali a interpreti, precursori e vittime dei cambiamenti che avrebbero investito il nostro pianeta, accelerandone l’estinzione in atto nell’Antropocene. Gli effetti oggi ben visibili dall’esplosione delle attività industriali su atmosfera, litosfera, biosfera e sociosfera, oggi minacciano sia l’esistenza umana sia quella non umana: Serenella Iovino rilegge sapientemente le storie degli animali calviniani attraverso gli strumenti dell’ecologia, della biologia, della semiotica, della psicanalisi, convinta che calarsi nel loro mondo ci possa aiutare a capire di più il nostro, che non è l’unico meritevole di attenzione.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 27 ottobre 2024

RECENSIONI

IRIGARAY

LUCE IRIGARAY, L’OSPITALITA’ DEL FEMMINILE – IL MELANGOLO, GENOVA 2014

Stimolante anche se avveniristico, nella sua spiazzante utopia, questo breve saggio di Luce Irigaray, dedicato al concetto di ospitalità e di accoglienza nella società multiculturale di oggi. «Più siamo costretti a interfacciarci con chi o cosa è estraneo o distante da noi, più dobbiamo scoprire cosa ci è proprio»; quindi, per aprirci all’altro, dobbiamo tuttavia rimanere noi stessi, non divenire uno, ma restare due: imparando a modificarci nelle nostre abitudini stratificate in millenni di cultura impositiva e poco democratica, nel linguaggio sempre orientato alla prima persona singolare, nelle situazioni abitative e urbanistiche ermeticamente chiuse al diverso. Non tanto integrando, quanto coesistendo in una rispettosa e paritaria vicinanza. E’ più propriamente femminile l’apertura verso l’accoglienza e l’ospitalità, sedimentata fisicamente nell’esperienza materna, metaforizzata dall’esistenza della placenta che nella gravidanza nutre il bambino pur tenendolo distinto dalla madre. Non si deve inglobare chi non è noi, ma imparare a ospitarlo senza prevaricazioni. Spesso l’ospitalità viene intesa come «pratica di un gesto unilaterale e paternalistico verso un individuo più bisognoso rispetto a noi»: non deve essere un gesto caritatevole, né aspirare all’assimilazione dell’altro che cancelli la sua specificità. La prima cosa da fare, a livello sociale e individuale, per impostare una nuova cultura dell’ospitalità è «organizzare lo spazio in modo da creare un’architettura che renda possibile l’esistenza di ognuno e l’incontro tra individui», aprendo il circolo dell’orizzonte in cui siamo immersi, recuperando ambienti in grado di accogliere ogni corpo e cultura altra. Dove trovare questi spazi generosi e incontaminati? Secondo Irigaray «la natura potrebbe essere il luogo ideale per la coesistenza, se le condizioni climatiche lo permettono, ma non sempre ciò è possibile». Soprattutto nelle nostre asfissianti metropoli. U-topia, non luogo, secondo Thomas More.

 

«Leggendaria» n. 110, marzo 2015

RECENSIONI

IRVING

WASHINGTON IRVING, LA LEGGENDA DI SLEEPY HOLLOW – GARZANTI, MILANO 2020

Nel 1999 il regista Tim Burton diresse Il mistero di Sleepy Hollow, che l’anno successivo vinse l’Oscar per la migliore scenografia. Interpretato da Johnny Depp, Christina Ricci e Christopher Walken,  il film era  liberamente ispirato al racconto La leggenda di Sleepy Hollow  di Washington Irving.  

Irving (New York, 1783-1859) viene considerato l’inventore del racconto breve di genere fantastico,  e in particolare della “ghost story”, facendo da antesignano negli Stati Uniti a importanti autori come Edgar Allan Poe e Henry James. La leggenda di Sleepy Hollow è ritenuta il suo capolavoro, insieme alla novella Rip Van Winkle. Ripubblicata in moltissime edizioni e in varie lingue, anche con titoli diversi, (La leggenda della valle addormentata, La valle del sonno, Il mistero del cavaliere senza testa), era uscita in Inghilterra nel 1820.

La storia si svolge a fine ’800 nella cittadina di Tarry Town, una colonia olandese nella Contea di Westchester,  presso la valle isolata chiamata Sleepy Hollow, lungo le rive del fiume Hudson. Narra la vicenda di Ichabod Crane, un misero maestro di scuola proveniente dal Connecticut, che offre i suoi servizi ai contadini del paese in cambio di cibo e alloggio, ingegnandosi anche come insegnante del coro nella parrocchia: “Alto e macilento, nonché stretto di spalle, aveva braccia e gambe lunghe, con le mani che ciondolavano a un miglio dai polsini e due piedi che avrebbero potuto fare da vanghe: nell’insieme, la sua figura sembrava composta da pezzi tenuti male insieme. La testa era minuta e piatta, con orecchie sproporzionate, occhioni verdi e vitrei e un naso così lungo e sagomato da farlo sembrare uno di quei galletti segnavento che, appollaiati sul loro perno, indicano la direzione delle correnti. Chiunque, in una giornata tempestosa, lo avesse visto incedere ad ampie falcate lungo il dorsale della collina, con gli abiti che gli si gonfiavano intorno, lo avrebbe preso per lo spirito della carestia disceso sulla terra, o per uno spaventapasseri scappato da un campo di granturco”.

Irving descrive il suo protagonista con toni che variano dalla commiserazione all’ironia, spingendosi fino al sarcasmo, e sottolineandone l’ingenuità, la sprovvedutezza ma anche l’insipienza, che lo rende vittima non solo dell’ilarità dei compaesani, ma anche della propria fervida immaginazione. Crane si innamora della bella e giovane Katrina, figlia del più ricco possidente della zona, corteggiata da tutti i giovanotti dei dintorni, e in particolare da Abraham “Brom Bones”, robusto e violento, da subito desideroso di primeggiare nei favori della ragazza rispetto ai pretendenti rivali. Il racconto si prolunga in vivaci descrizioni paesaggistiche e in divertite annotazioni della psicologia dei personaggi, senz’altro lontano da qualsiasi atmosfera gotica, horror o fantastica per più della metà della sua lunghezza. L’autore però sottolinea spesso la propensione della popolazione a inventare, rielaborare e diffondere leggende e dicerie terrificanti basate su apparizioni di fantasmi, morti redivivi, folletti,stregonerie e incarnazioni diaboliche, infestanti boschi e strade soprattutto di notte. Il cimitero e il ponte di Sleepy Hollow sembrano essere i luoghi privilegiati da tali avvistamenti.

Tra le visioni spettrali più menzionate c’è quella di un cavaliere senza testa, che attraversa la valle in groppa a un focoso cavallo nero. Secondo la vulgata popolare, doveva trattarsi di un reduce della Guerra d’Indipendenza, decapitato da un colpo di cannone, che si aggirava senza pace in cerca di vendetta. Ichabod Crane, di ritorno dalla festa di Halloween dove era stato invitato da Katrina, e si era sentito umiliato dal violento spasimante di lei, Brom Bones, riprende al buio la strada di casa, frastornato anche per i racconti misteriosi che aveva udito a proposito del cavaliere oscuro. Attraversando la foresta, si impressiona per qualsiasi fruscio di foglie, alito di vento o grido di uccello, finché gli appare un uomo a cavallo che lo insegue in un vorticoso e labirintico percorso tra gli alberi. “La sagoma del cavaliere si stagliò contro il cielo, spropositata e avvolta da un ampio mantello. Quale non fu l’orrore che colse Ichabod nell’accorgersi che era senza testa! E l’orrore si accrebbe quando vide che la testa, invece che sulle spalle, poggiava sul pomo della sella!”

Dopo quella notte spaventosa, il maestro sparisce, e qui l’ironia dell’autore suggerisce varie ipotesi sulla conclusione della storia, dalla più macabra alla soprannaturale, dalla sprezzante verso ogni superstizione alla divertita e irridente.

 

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SoloLibri.net › … › La leggenda di Sleepy Hollow di Washington Irving      16 febbraio 2023

 

RECENSIONI

ISA MARI

ISA MARI, NELLA CITTÀ L’INFERNO – READERFORBLIND, LADISPOLI 2023

Nella letteratura italiana del ’900, un posto di rilievo è stato occupato da Goliarda Sapienza, scrittrice di importanti romanzi, tra cui L’università di Rebibbia, in cui descriveva la sua reclusione in carcere per il furto di gioielli compiuto in casa di un’amica. Un’altra prigionia, durata otto mesi nella sezione femminile di Regina Coeli per motivi politici, è stata raccontata da Isa Mari, nel volume Roma, via delle Mantellate (Casa Editrice Libraria Corso, 1953). Isa Mari (1910-1992), pseudonimo di Luisa Rodriguez, era figlia dell’attore e regista Febo Mari e dell’attrice Piera Vestri. Fu attrice cinematografica e teatrale come i genitori, e inoltre sceneggiatrice e autrice di un secondo libro di successo oltre a quello citato: Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, del 1972. Dai suoi romanzi sono stati tratti due film altrettanto famosi. Il primo, Nella città l’inferno, diretto da Renato Castellani nel 1959, aveva come protagoniste Anna Magnani e Giulietta Masina. Nel secondo, spesso riproposto dalle nostre emittenti televisive, un magistrale Alberto Sordi era affiancato da Claudia Cardinale per la regia di Luigi Zampa.

Il romanzo di Isa Mari, che le edizioni RFB ripropongono ora con il titolo del film di Castellani, Nella città l’inferno, si apre con la numerazione delle detenute in attesa di salire sul camioncino cellulare che le condurrà alle Mantellate: “Una… due… tre… quattro… cinque… La carne è caricata. Si parte”. La narratrice, compresa nel gruppo, elenca i vari stadi dell’ingresso in carcere, le reazioni delle arrestate e la crudele impassibilità delle guardie: consegna del denaro e degli oggetti preziosi, richiesta dei dati anagrafici, prelievo delle impronte digitali, perquisizione fisica, attraversamento del cortile. “Alzo la testa: finestre, finestre, finestre, piccole, una vicina all’altra, protette da sbarre… E visi fra i riquadri delle sbarre e bocche spalancate e capelli scompigliati di teste ammonticchiate una sull’altra dietro i ferri e mani che scuotono i ferri e voci rauche e frizzi osceni e risate grasse”.

Il racconto procede con la sinteticità di appunti diaristici, sia nella descrizione del susseguirsi degli avvenimenti, sia nel commento delle caratteristiche fisiche e morali dei personaggi che li animano. Dialoghi serrati, spesso in romanesco, in pagine che mantengono la struttura di un copione cinematografico neorealista.

Le donne che costituiscono il popolo di Regina Coeli hanno età diverse, sono poco più che adolescenti, madri di famiglia mature, vecchie avvizzite e malate: assassine, ladre, matricide, truffatrici, prostitute, strozzine, oppositrici politiche. Tra loro convivono malate psichiatriche, ragazze gravide, drogate in astinenza. Isa Mari le presenta senza retorica e senza falsi pietismi, con un’oggettività che non indulge né a toni accusatori o recriminatori, né a volontà di redenzione o consolazione, limitandosi a constatare che nella “tomba dei vivi” si respira un’aria di perpetua agonia, di miseria e violenza, di ignoranza e sporcizia diffusa: “qua dentro tutto sa di morte”. Le giornate si avvicendano tutte uguali, dal caffè sbobba col pane duro della mattina, all’ora d’aria in cortile, con pasti scarsi e insipidi, notti passate a rigirarsi su lettini di ferro, turpiloquio continuo. “Corpi bolsi, visi giallastri, fiato pesante. Anche le più giovani… Un’aria disfatta. Sempre spettinate, con quelle camicie corte che tagliano male le gambe, i piedi nudi… senza far nulla dalla mattina alla sera. Qualche passo su e giù per la cella e poi sdraiate, gambe all’aria, sigaretta in bocca. Quattro per cella, vicende diverse ma ugualmente trucide e infelici. L’autrice, passata presto all’ambito incarico di bibliotecaria, ricostruisce la storia familiare e il percorso giudiziario delle sue compagne di sventura, partendo dal loro apprendistato al crimine: l’ambiente sordido e violento che le ha viste nascere e crescere è di per sé causa e giustificazione del loro delinquere, e non necessita di alcuno scavo psicologico da parte di chi lo descrive. Donne marchiate per sempre, che non troveranno pace nemmeno una volta uscite di prigione.

Ma in quell’aria “putrida di ogni colpa” succede anche che una detenuta partorisca il suo primo figlio, accompagnata nelle doglie e poi nello sgravarsi dall’emozione di tutto le recluse: “Le donne, tutte, di tutte le celle, di tutte le sezioni, balzarono dal letto e si attaccarono alle sbarre delle porte, delle finestre, volgendo il capo in alto, su, dove la robusta contadina della campagna romana, aveva dato alla luce il suo primo nato… E da un’ala all’altra del fabbricato, da una finestra all’al tra, più argentine di un suono festoso di campane, cento, duecento, trecento voci, a due, a tre, a cinque squillarono: È un maschio!”.

Con il suo venire al mondo in un luogo di pena e sofferenza, il neonato reclama il diritto alla vita di ogni creatura, per quanto colpevole possa essere o sembrare, come commenta una delle condannate: “Che? Siam fatti Dio, noi, per giudicare?”

 

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SoloLibri.net › Recensioni di libri › Nella città l’inferno di Isa Mari    14 gennaio 2023

 

 

 

RECENSIONI

ISGRO’

EMILIO ISGRÒ, QUEL CHE RESTA DI DIO – GUANDA, MILANO 2019

Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, 1937) esordì giovanissimo nel 1956 con un libro di versi ambientato nella sua Sicilia, ma già nel decennio successivo si dedicò alla poesia visiva e all’arte concettuale, realizzando le prime “cancellature” che lo hanno reso famoso a livello mondiale. Dal 1965 vive a Milano, fatta eccezione per alcuni anni trascorsi a Venezia come responsabile delle pagine culturali del Gazzettino. Nel 1966 pubblicò Dichiarazione 1, in cui precisava la sua concezione di poesia come “arte generale del segno”: a questa prima definizione della propria attività creativa seguirono numerose altre, come corredo teorico delle sue produzioni. Il lavoro di Isgrò si è sempre diviso tra scrittura e arte applicata, con importanti riconoscimenti ottenuti sia in campo editoriale sia nel corso delle partecipazioni a mostre nazionali e internazionali, individuali e collettive (alla Biennale di Venezia nel 1972, 1978, 1986 e 1993) e per l’allestimento di opere teatrali e liriche. Dal 2014 nella Galleria degli Uffizi è esposto l’autoritratto Dichiaro di non essere Emilio Isgrò.

La cifra che contraddistingue le sue operazioni artistiche è appunto la cancellatura, attraverso cui righe o brani interi di libri, articoli di giornale, documenti ufficiali, testi sacri, spartiti musicali e mappe geografiche vengono soppressi con tratti bianchi o neri di pennello, nella volontà di eliminare il superfluo, facendo risaltare la parola nel suo significato essenziale e duraturo.

Nella produzione poetica, l’artista sembra invece preferire alla tecnica distruttiva una più mite operazione compositiva e di recupero, di cui danno testimonianza i versi del volume edito da Guanda Quel che resta di Dio, in cui sono raccolte poesie scritte dagli anni ’80 a oggi. Qui i vari timbri espressivi si sovrappongono, in qualche modo riprendendo l’alternanza delle pratiche pittoriche, per cui ciò che viene rivelato sulla pagina ha lo stesso valore del sottinteso, del taciuto, dell’omesso. Lo stile di Isgrò, infatti, è composito e oscillante tra tradizione e novità, tra toni didascalici e accenti provocatori o ironici: più nei contenuti che nella forma si oppone all’ovvio cui ci hanno abituati l’uso e l’abuso di temi e linguaggi stereotipati, conformisti, resi logori dalla banalità mediatica e dall’egemonia della comunicazione virtuale. La sua scrittura ricorre sia a forme chiuse (sonetti, distici, terzine e canzoni), sia a componimenti nostalgicamente descrittivi di una Sicilia ormai scomparsa, sia ad altri testi più rabbiosamente spavaldi o di coraggiosa denuncia civile.

Per esempio, a un intenso Sonetto funebre, da godere negli audaci enjambement e nella chiusa tombale (“Sento nell’aria delle tue tempeste / il primo soffio della primavera, / turbinaio di grandine e di neve / che scopre le montagne e le foreste // lontane.”), si contrappone la sarcastica Casalinga in terzine (“Eri una rosa sgrètola, / eri la voluttà. / Ma quando la mia mano candida // ti accarezzò la coscia canterina / (giacché anche le cosce / cantano, si sa…) // quando la mia mano energica / ti sbatacchiò la nuca / delucidata a cera // allora tu, eterna casalinga, / mi mostrasti la lingua / me la cacciasti in gola”). Poi compare inatteso il dialetto siculo, graffiante e incisivo, in un presepe ecumenicamente buddista (“«Budda mi chiamo» dissi ’u Bammineddu / aprendo le sue braccia all’universo. / E frastornati ’u boj e l’asineddu / sputacchiarono, lenti e cauti, verso // la faccia di Peppino e di Maria”), mimetizzato tra atmosfere di un’infanzia lontana e rimpianta, senza alcuna retorica, però: un sole malarico, un campanile tronco, mosche e zanzare che imbarazzano l’aria, la Vergine del Tindari spaventata. La memoria è anche quella degli anni poveri di un “dopoguerra di contrasti”, in cui la coscienza politica si confonde con le aspirazioni e le delusioni private. Il pittore e lo scultore che ha sempre lavorato con la materia, anche quando compone versi è attratto soprattutto dalla realtà tangibile dei corpi: le poesie che aprono il volume si focalizzano sull’osservazione e la celebrazione della carne, da quella esposta nelle macellerie a quella che ci portiamo pesantemente addosso.

Cosa c’entra il Dio nominato da Isgrò nel titolo del suo libro? C’entra, nell’amore e nell’odio, nell’ accettazione devota e nel rifiuto: “Solo per questo mio malessere / sottile come un velo / io credo in Dio / padre onnipotente / creatore del cielo / e della terra / oltre che delle cimici. // Ma credo a giorni alterni, / a ore intermittenti”. C’entra perché il suo è un Dio nascosto, e ne resta poco all’interno delle cattedrali e delle mura vaticane, o nell’ “untuosità clericale” di chi costruisce la propria immortalità servendosi del potere: “Io credo in Dio ma non l’ho mai chiamato / per nome. L’ho chiamato amore, / acqua, gloria; e qualche volta storia”.

Osservando il declino di umanità nei vari aspetti del vivere sociale di oggi, l’autore si aggrappa a ciò che rimane di solidale, fraterno e gratuito nella famiglia, nell’amicizia, nella natura e nell’arte. Il suo è uno sguardo indulgente e amaro, lontano da censure e condanne: tuttavia intristito, e quasi sconfortato. L’arte delicata di Beato Angelico, quella più robusta di Caravaggio, riuscirebbe a svincolarsi dalle pretese del mercato, da cui anche Isgrò si sente oppresso? “Sento a me più fraterno un giocatore / di football o un plebeo maleducato // che l’investitore algido che chiama / arte la parte, e la partita vita”.

Cosa resta della Resistenza, dell’impegno, dell’altruismo negli affetti, dell’originalità nella pittura genuflessa alle aste di Sotheby’s e alle allucinazioni di Basquiat? Nell’americanizzazione della cultura mondiale, nella banalizzazione della sessualità, nella divinizzazione della finanza, nello scandaloso dramma dei morti nel Mediterraneo, l’artista (pittore, scultore o poeta che sia) vede il pericolo disumanizzante che incombe sul futuro di tutti: nemmeno il Papa potrebbe dire o fare qualcosa contro la spettacolarizzazione mediatica universale che riduce ogni tragedia a farsa. “Quel che resta”, come recitano i titoli delle varie sezioni di cui si compone il libro di Emilio Isgrò, è davvero poco, ma va comunque lasciato qualche minimo spiraglio alla speranza, soprattutto se radicata nella bellezza, privata dell’avidità di possesso. Una bellezza da riconquistare collettivamente, salvandola dalla sciatteria e dagli egoismi individuali: “Veniamo, forse, dallo stesso salmo / e dalla stessa ansia generata / da vigne stente e da parole oscene. / Forse veniamo dalla stessa Italia / umida, scalza. Per questo ci cerchiamo”.

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 14 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ISHERWOOD

CHRISTOPHER ISHERWOOD, ADDIO A BERLINO – ADELPHI, MILANO 2018

I sei racconti che compongono Addio a Berlino di Christopher Isherwood (1904-1986) sono stati scritti tra il 1930 e il 1933, e pubblicati per la prima volta in un unico volume nel 1939. Lo scrittore inglese dopo la laurea a Cambridge si era trasferito per alcuni anni nella capitale dell’allora Repubblica di Weimar, un po’ per sfuggire alla plumbea e intransigente atmosfera britannica, un po’ per approfondire le sue conoscenze linguistiche, e più probabilmente perché attratto dalla fama di anticonformismo e libertà sessuale della città tedesca. Dagli anni del liceo, Isherwood aveva stretto una relazione con il poeta Wystan Hugh Auden, con cui condivise poi un intenso legame affettivo e intellettuale, viaggi e collaborazioni editoriali, e il definitivo trasferimento in America nel 1939. I racconti compresi in Goodbye to Berlin, pur essendo leggibili uno indipendentemente dall’altro, sono collegati tra loro dalla figura autobiografica del narratore, il giovane Chris, intellettuale trentenne in perpetue ristrettezze economiche, omosessuale colto, solitario e gentile, che si mantiene impartendo lezioni private di inglese, nella cerchia di svariati ambienti sociali.

Da questo punto di vista particolare, osserva le persone e gli avvenimenti che turbinano intorno a lui quasi difendendosene emotivamente, e descrivendole con la curiosità asettica di chi non intende lasciarsi coinvolgere troppo: «Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passivo, che registra e non pensa». Questa dichiarazione a inizio di pagina sembra contraddetta da una delle ultime affermazioni del libro: «Berlino è uno scheletro dolorante per il freddo: è il mio scheletro indolenzito». In effetti, è solo in maniera graduale che il protagonista avverte la pericolosità del clima politico e ideologico che pervade la città e tutto il paese, il suo inesorabile scivolare verso il totalitarismo e la catastrofe della guerra. Negli ultimi due racconti i segnali dell’oppressione nazista non si limitano più a sparute avvisaglie intuibili negli atteggiamenti di pochi (insofferenza verso gli stranieri, bandiere ed esibizioni nazionalistiche, canzoni e marce militari, sospetti e denunce anonime tra vicini): l’atmosfera precipita inesorabilmente verso una recrudescenza del razzismo, dell’intolleranza, del desiderio esplicito di sopraffazione sugli altri. I giornali riportano commenti univoci, i pochi democratici nascondono con timore il loro dissenso, le violenze brutali della milizia non vengono contrastate dalla popolazione civile. «Migliaia di persone… si stanno acclimatando, in ossequio alla legge naturale, al modo di un animale che cambia il pelo ai primi freddi». Chris lo percepisce con irrefutabile turbamento solo quando entra in confidenza con una ricca famiglia ebrea, i Landauer, assunto da loro per dare ripetizioni alla figlia diciottenne Natalia: ragazza rigida e inibita, che vive un’esistenza ovattata, timorosa di dover prendere atto degli sconvolgimenti che stanno maturando nei confronti dei suoi parenti e della sua religione.

In precedenza, i rapporti sociali del protagonista si erano limitati alla frequentazione di persone semplici e ignoranti, quando non addirittura equivoche, per le quali l’antisemitismo rivestiva essenzialmente il carattere dell’odio di classe: «Questa città è stufa marcia degli ebrei. Gratta gratta, saltano fuori sempre loro. Stanno avvelenando l’acqua che beviamo! Ci strangolano, ci derubano, ci succhiano il sangue! …  I soliti ebreacci ladri!»

La medesima disposizione anima l’affittacamere Fräulein Schroeder, zitellona attempata e pettegola che spia i suoi pigionanti, vampirizzando nella sua non-vita le loro esistenze di entraîneuse, barman, artistoidi spiantati (con un’attenzione riguardosa per il prediletto “Herr Isservut”), e Otto Nowak, ragazzone disoccupato e violento, mal tollerato nel fatiscente appartamento dei suoi genitori, crudele nello sfruttare economicamente uno scalfibile giovanotto innamorato di lui. Oppure ancora l’affascinante e svampita Sally, aspirante attrice e volubile amante di decine di uomini, ingenua e spudorata, viziosa e altruista. Personaggi ai margini, pronti a tradire e a distruggere gli altri per denaro, accomunati da un’uguale indifferenza per i destini della collettività e per gli sviluppi delle vicende storiche: minime pedine brancolanti sullo scacchiere della Storia, oscillanti tra euforia e disperazione, cecità e preveggente cinismo.

Lo stesso Chris osserva impietoso la propria pavida vanità di scrittore incompreso, il suo senso di superiorità nei riguardi di chi gli sta vicino, il suo altezzoso isolamento e l’incapacità di vivere con pienezza e trasporto qualsiasi esperienza sentimentale o sessuale. Berlino è per lui uno sfondo inadeguato e privo di concreto interesse, a cui affidare qualche anno di spaesata malinconia: «… sono in una città straniera, solo, lontano da casa… risuona un fischio così penetrante, così insistente, così disperatamente umano, che alla fine sono costretto ad alzarmi per andare a sbirciare fra le listelle delle veneziane e assicurarmi che non sia per me ‒ anche se so benissimo che è impossibile». La sua decisione finale sarà determinata dalla volontà di sopravvivere all’orrore, fuggendo da una tragedia annunciata e inevitabile: «Domani parto per l’Inghilterra… Il sole splende, e Hitler è il padrone di questa città».

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 13 marzo 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ITALIANO

FEDERICO ITALIANO, L’INVASIONE DEI GRANCHI GIGANTI – MARIETTI, MILANO 2010

Che felice sorpresa, la lettura di questo sottile e resistente (nel senso di compatto, forte e sicuro della sua voce) libro di versi del giovane poeta e critico Federico Italiano: così fieramente lontano da stili e contenuti imperanti nella flebile, introspettiva e generica produzione letteraria dei suoi coetanei. Italiano ha qualcosa da dire, finalmente, ed è completamente padrone dei mezzi a sua disposizione per dirlo. Forse perché vive e lavora, occupandosi di arte-filosofia-scienza, tra Monaco e Vienna, estraneo quindi al provincialismo culturale della nostra penisola; o forse perché quotidianamente si misura con un’altra lingua, razionale e dura come il tedesco. Le elogiative parole che gli dedica Davide Rondoni nella quarta di copertina suonano quasi inadeguate, minimaliste: «una possibile epica… la possibile letizia… misteriosa grazia e libertà…».
Qui in realtà siamo davanti a qualcosa di diverso e di nuovo, a un poeta che riesce a scrivere di una quotidianità fatta di gesti concreti, di osservazioni puntuali sulla realtà, rifiutando qualsiasi edulcorante retorica. I ritratti dei personaggi, ad esempio, che ce li restituiscono nella loro disarmata e compiuta interezza (l’ostetrica del paese, il giocatore di scacchi siriano…).
O i ricordi, mai autocelebrativi, mai nostalgicamente commossi: (il terrificante crocefisso della stanza dei giochi, il dopobarba del papà tornato dal suo lavoro in Africa, l’alba traslunata di Miami…). Italiano parte dalla vividezza di un particolare, per poi risalire con intelligenza descrittiva alla costruzione di un episodio in cui la poesia si cala proprio per la sua peculiare e straniante unicità. I versi raccontano squarci di vita vissuta, con la tranquilla limpidezza di una narrazione che sa farsi immagine quasi filmica, come nella descrizione di una notte nordica in cui gli addetti alla nettezza urbana spargono le strade innevate di sale e terriccio: «Rincasavo con lo sguardo sbilenco / ondulante tra i miei passi e le luci / delle poche finestre accese, quando // un camion evacuò ghiaia rombante / alle mie spalle…»
Uno stile molto personale, che aderisce al concetto, non si lascia sedurre dalle sirene di musicalità obsolete, o dai tentacoli di una tradizione asfissiante. E sa misurarsi con la storia, quella addirittura universale, tellurica, che osserva con l’intatto stupore e con la curiosità scientifica dello studioso: e con le storie private della sua esistenza, gli incontri, i viaggi, gli amori. Vicende sentimentali raccontate con asciuttezza ed ironia («Relazione lessicale, la nostra, mio melograno, / mio polipo, culinaria, hai sempre amato / una certa alchimia da fornello. / Una comunicazione ipotattica, disciplinatamente / ternaria, indeuropea»), e autoritratti che nulla concedono al compiacimento egotistico: «Poiché non da pianura, / ma dal fronte dei monti fui edotto, / educato alla venerazione del mammut». Una volta tanto, quindi, nella nostra poesia, un autore non mette in primo le venerate pieghe e piaghe della sua anima, ma la scienza (ad esempio), scandagliata nei suoi esperimenti e laboratori, con studiata applicazione nei riguardi del mondo animale (granchi, ostriche, làdani, mustelidi, lombrichi…). La geologia, testimonianza evidente e innegabile della nostra insignificanza di fronte al rincorrersi delle ere («… il progetto orografico del Buon Dio…  il cuore lo fissai al testo dei miei fossili»). E soprattutto la storia del mondo, che tutto trasforma, macina, inghiotte, confonde. Come nel poemetto  I Mirmidoni, in cui un gruppetto internazionale di giovani in un caffè di Monaco amoreggia, spettegola, sbevazza: involontari eredi e professionali comparse dei guerrieri greci, spettrali nei loro scudi, gambiere, archi e spade. O nella prima sezione del volume, forse la più interessante, in cui si ipotizza (o si vagheggia?) un’ inarrestabile invasione di rospi, locuste o granchi giganti che da chissà quali sconosciuti antipodi dilaghi nel mondo occidentale, mettendo fine al suo degrado morale, civile e ambientale: «Popolo che muovi sotto le acque, prelibata / carne della distruzione, migrazione / disgiuntiva della ricchezza / bilancia del consorzio umano, inconsapevole / armata della storia, / moltìplicati, / perché la piaga sia piena e la punizione completa». Profezia visionaria di una lucidissima coscienza poetica.

«Atelier» n. 68, febbraio 2013

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