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RECENSIONI

KERENYI

KÁROLY KERENYI, NEL LABIRINTO – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2016

Di uno dei maggiori antropologi, filosofi, storici delle religioni antiche del Novecento, l’ungherese Károly Kerényi (1897-1973), Bollati Boringhieri pubblica un importante volume che raccoglie sei studi, introdotti da un’erudita prefazione di Corrado Bologna.
L’immagine enigmatica e affascinante del labirinto ha attraversato un po’ tutte le culture mondiali, dalle epoche primitive a quelle moderne, sia negli aspetti religiosi e rituali, sia in quelli artistici e psicologici. Nel labirinto, quindi, ritroviamo specchiati i nostri incubi e i percorsi interiori, discese agli inferi e ascensioni verso la luce e la libertà; metafora stessa dell’esistenza – dei suoi inganni, traviamenti, recuperi, approdi – il labirinto può indicare, nella sua complessità, sia un processo mitologico-iniziatico, sia un percorso dialettico-filosofico, sia una strategia politica, o una rappresentazione simbolico-iconografica.

Il primo e più importante studio presentato in questo volume fu scritto nel 1941, gli altri sono contributi e interventi occasionali, tesi ad arricchire le idee-base di quel lavoro inaugurale. E di tali idee-base la più essenziale e fondante risiede nell’intuizione che il viaggio labirintico sia una ricerca, un progetto di attraversamento, una sfida nell’immersione del buio verso una via d’uscita, un affondamento nella morte per riemergere alla vita.
Il labirinto, di cui troviamo traccia già in epoca primitiva e in tutti i continenti, più che costituire un problema dal punto di vista scientifico, si presenta in realtà come un mistero: non solo reperibile a Cnosso, quindi, con Minosse-Teseo-Arianna, ma anche in Mesopotamia, Nord Europa, Africa, India, Italia, Nuova Zelanda… Non indica solamente una discesa nel mondo degli inferi, ma può rispecchiare la raffigurazione anatomica delle viscere umane e del grembo materno, la descrizione della planimetria di un edificio, la traccia di danze rituali, o un’esperienza di giochi infantili. Si tratta di un simbolo antichissimo, che è stato recuperato persino dalla cristianità e che possiamo scoprire nella pavimentazione di molte chiese e cattedrali, probabilmente utilizzato come percorso penitenziale.

Se la sua configurazione principale è quella della spirale (e il volume ce ne offre un’ampia galleria fotografica), lo troviamo disegnato anche in forme più geometriche e ondeggianti, in meandri che sempre suggeriscono l’idea di una linea senza fine. Come uscirne, come ritrovare il varco verso la libertà? O volando, come fece Dedalo, primo costruttore del mitico labirinto di Cnosso, o seguendo un filo, sull’esempio di Teseo (non sarà un caso, quindi che le antiche danzatrici greche accompagnassero i loro passi tenendo tra le mani una fune).
In ogni modo, secondo Károly Kerényi caverne e labirinti indicano sempre qualcosa di mortale e mortifero, un imprigionamento, un’oscurità e una condanna: mentre la danza e il volo simboleggiano la vita, la leggerezza, l’apertura verso la verità.

 

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www.sololibri.net/Nel-labirinto-Karoly-Kerenyi.html      13 ottobre 2016

RECENSIONI

KEROUAC

JACK KEROUAC, MEXICO CITY BLUES – GUANDA, PARMA 1978

Jack Kerouac è uno dei narratori più conosciuti della “beat generation” americana, per il suo On the road, storia di un viaggio-vagabondaggio attraverso gli Stati Uniti. Ma, come poeta, Kerouac è stato spesso snobbato dalla critica, e poco tradotto anche da noi, nonostante la sua poesia metta in evidenza temi e formule tipiche della sua produzione letteraria. Recentemente è stata pubblicata una scelta di poesie dal Mexico City Blues, da lui scritto nel ’55, spesso sotto l’influsso della droga. La droga, infatti, l’esaltazione del trip, dello sballo, è uno degli elementi che stanno alla base di queste composizioni. Altri temi sono quelli che ritornano anche nei romanzi: la polemica contro la società americana e la sua cultura (sia quella di massa sia quella accademica), il conservatorismo politico, la ritualizzazione della vita di gruppo, l’elogio della sregolatezza e della pazzia. L’irrazionale è insieme un punto di arrivo (ci si arriva infatti liberandosi dall’etica e dalle strutture borghesi, quindi con la fuga dal lavoro, dai doveri, dalle convenzioni) e un punto di partenza, il primo passo verso il misticismo, per arrivare a dio o al sogno o alla morte. Lavorando su questi motivi, la beat generation si è bruciata, e oggi sa dirci ben poco, forse perché come scrive Carlo Corsi nell’introduzione al libro: «L’elemento irrazionale fa sempre il gioco del sistema e artisticamente non è mai stato di per sé creativo». Però della dissacrazione operata sui testi da questi poeti è rimasto parecchio: per esempio il connubio poesia-musica, o quello poesia-oralità. Questi di Kerouac sono “refrain” che si rifanno alla tecnica jazzistica dell’improvvisazione su uno stesso tema, usando un ritmo ossessivo costruito sulla dimensione psico-fisica dell’autore, sulle sue allucinazioni.

33esimo refrain:

Una vasta caverna,uh? / Mi fermo & salto in altro campo / E voi vi trascinate / Come prigionieri giapponesi / In Salt Lake Cities / Nel disastro delle fogne /di San Francisco. / “Un esploratore di cuori e città” / “Uno sballato schifoso / Che ha scoperto / che l’essenza della vita / si trova solo nella pianta di papavero / con l’aiuto dell’odio / il tossicomane esplora / il mondo daccapo / e crea un suo mondo / a sua immagine / con l’aiuto di Madama / Papavero / Sono un idealista / che ha superato / il mio idealismo / non ho niente da fare / per il resto della vita / tranne che farlo / e il resto della vita / per farlo”.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 11 luglio 1978

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KEUCHEYAN

RAZMIG KEUCHEYAN, I BISOGNI ARTIFICIALI – OMBRE CORTE, VERONA 2021

L’ultimo volume di Razmig Keucheyan pubblicato in Italia si intitola I bisogni artificiali, e riporta un sottotitolo esplicativo: Come uscire dal consumismo. Keucheyan, nato in Svizzera nel 1975, è docente di sociologia all’Università Paris-Descartes. Famoso in Francia per essere uno dei massimi conoscitori dell’opera di Antonio Gramsci, è redattore delle riviste Contretemps e Actuel Marx, ha pubblicato numerosi testi di critica politica, di ecologia e di pratiche di resistenza sociale. Dal 2008 è membro del Nouveau Parti anticapitaliste. In Italia è stato pubblicato nel 2019 – sempre da Ombre Corte – il suo La natura è un campo di battaglia, che affronta il fenomeno del razzismo ambientale e della geo-strategia climatica, secondo cui il capitalismo internazionale concorre alla catastrofe ecologica grazie a strategie di profitto finanziario, localizzando le discariche di rifiuti tossici nelle aree povere del mondo, e adottando risposte militari per frenare le migrazioni dovute al surriscaldamento globale.

In quest’ultimo volume si analizza invece in maniera critica e appassionata il problema del consumismo che, corrompendo abitudini e coscienze degli abitanti del pianeta-Terra, induce in loro bisogni artificiali sempre nuovi, destinati a rimanere insoddisfatti e continuamente replicati. Già vent’anni fa Zygmunt Bauman indicava nella gratificazione dei desideri stimolata dal consumismo l’esigenza capitalistica di mantenere alta e sempre inappagata le domande degli acquirenti, pena la stagnazione economica del mercato internazionale. Razmig Keucheyan riprende ed estremizza le tesi del pensatore polacco, facendo proprie anche le istanze espresse da numerosi filosofi e sociologi contemporanei (Jean Baudrillard, Serge Latouche, Amartya Sen, Pierre Bourdieu, Bruno Latour …), polemicamente avversi alla sovrapproduzione delle merci e alla loro idolatria.

Scegliendo come esergo una frase di Karl Marx, “Una rivoluzione radicale può essere soltanto la rivoluzione dei bisogni radicali”, in otto capitoli (alcuni a tema, dedicati all’inquinamento luminoso, al consumo compulsivo e alla garanzia dei beni, altri più teoricamente collegati alla filosofia politica marxista), l’autore si propone di distinguere i bisogni legittimi, derivati da effettive necessità di mantenimento personale e sociale, da quelli egoistici e indifendibili dal punto di vista della salute pubblica e del sostentamento planetario.

“Chiamo artificiali i bisogni che, da un lato, non sono ecologicamente sostenibili, che danno luogo a un sovrasfruttamento delle risorse naturali, dei flussi energetici, delle materie prime; dall’altro, i bisogni che l’individuo o la collettività sentono che in qualche modo danneggiano la soggettività, i bisogni che non danno luogo a forme di soddisfazione duratura. Bisogni alienanti, in un certo senso. L’ossessione per l’ultimo ritrovato della tecnologia, per l’ultimo capo di abbigliamento, per l’ultimo modello d’auto, questa ossessione per la novità insita nel sistema capitalista è una delle dimensioni del carattere artificiale dei bisogni”. Esistono infatti bisogni biologici assoluti (mangiare, bere, ripararsi dal freddo), bisogni qualitativi e radicali (culturali, affettivi, sessuali) e bisogni standardizzati creati per rispondere alle richieste di consumatori divenuti essi stessi standardizzati nelle aspirazioni, nei gusti, nei modelli di vita.

Partendo dall’enunciazione delle attuali forme di alienazione individuale e di distruzione ambientale, Keucheyan ricostruisce il percorso storico dello sviluppo economico nelle società capitalistiche, con le relative interpretazioni critiche (Karl Marx, Antonio Gramsci, André Gorz, Agnes Heller), per passare quindi a un’analisi dei comportamenti soggettivi delle persone ostaggi di bisogni artificiali. Nel creare rapporti feticistici con gli oggetti di consumo, anche l’individuo-cliente viene trasformato in merce sfruttabile, illuso nel desiderio di prestigio sociale, di accettazione da parte della comunità di appartenenza, di adeguamento conformistico al lifestyle imposto dai media. “L’oniomania, vale a dire la mania dell’acquisto, compare nell’ultima versione del DsM (2013, il “DsM-5”) sotto la denominazione “disturbi del controllo degli impulsi”, assieme alla cleptomania, alla piromania e al gioco d’azzardo. Viene spesso stabilita una vicinanza con i disturbi ossessivo-compulsivi e i disturbi della personalità”. Una vera e propria malattia, quindi, alimentata prepotentemente dall’utilizzo di internet, che permette di comprare qualsiasi cosa, a qualsiasi ora, senza uscire di casa, utilizzando forme di pagamento “astratte”, per potersi avvicinare nel momento del possesso a un sé idealizzato e a un mondo da cui ci si teme esclusi, ma entrando così in un circuito di sentimenti incontrollabili: eccitazione, senso di colpa, rabbia, euforia, frustrazione. Senza poi riuscire a godere affettivamente dell’acquisto, e venendone invece indotti a cercare articoli sostitutivi più nuovi e appaganti.

L’indagine dell’autore si sposta poi dalle abitudini degli utenti alla realtà oggettiva del mercato e alla produzione industriale oggi caratterizzata da serialità, livellamento, concorrenzialità, organizzazione gerarchizzata del lavoro intellettuale e manuale, tipiche di un cosmo-capitalismo produttivista e consumista, che per mantenere i propri livelli di profitto utilizza i canali della pubblicità, del credito finanziario, dell’obsolescenza dei prodotti da sostituire in continuazione. Molto interessante risulta l’excursus sulla nascita, lo sviluppo e le clausole legali del concetto di garanzia che si accompagna alla vendita dei prodotti.

In conclusione, gli effetti del consumismo esasperato sono numerosi e deleteri: l’aggravarsi della crisi ambientale, lo spreco di materie prime, la dequalificazione del personale addetto alla produzione e al commercio, la dipendenza psicologica dei clienti, l’alterazione dei rapporti interpersonali e il decadimento di valori fondanti nella vita comunitaria.

Per limitare le conseguenze negative di questo sfrenato accaparramento di “cose”, Razmig Keucheyan propone un progetto politico in grado di mobilitare grandi settori sociali e culturali (e in primo luogo le classi popolari), attraverso coalizioni di consumatori capaci – con interventi organizzati di discussione, educazione e dissuasione – di consapevolizzare le persone sulla disutilità di accumulare beni materiali che non rispondano a effettive esigenze vitali: sensibilizzandole a modificare le proprie abitudini di acquisto, e convincendole a scegliere prodotti durevoli ed “emancipati”, con requisiti di sostenibilità ambientale, eticamente attenti alle condizioni di produzione dei lavoratori e delle aziende.  “Si tratta di ripristinare il ‘repertorio d’azione’ delle associazioni dei consumatori più combattive: etichette sindacali, liste bianche, boicottaggio, buycott, denuncia della pubblicità ingannevole, testing ecc.”, solidarizzando con le maestranze della logistica, costrette a turni di lavoro massacranti per ottimizzare i profitti delle grandi multinazionali delle e-commerce.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 12 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KHAYYAM

’OMAR KHAYYÂM, QUARTINE ‒ RIZZOLI, MILANO 2013

Il poeta persiano ’Omar Khayyâm, vissuto intorno al 1100 d.C., fu anche filosofo, astronomo, matematico; la sua produzione letteraria fu piuttosto esigua, ma di grande fascino e profondità. Era costituita in genere da composizioni con finalità didascaliche, esortanti a godere la vita in ogni sua manifestazione, e ad apprezzare la bellezza della natura e dell’arte.

L’esistenza di Khayyâm, protrattasi per quasi un secolo, rimase circondata da un alone di mistero e di leggende: gli si attribuiva un carattere polemico e irascibile, amante del vino e dei piaceri sensuali, poco disposto all’impegno sociale e politico, e invece appassionato di qualsiasi aspetto della ricerca scientifica. Si asteneva dal frequentare la corte imperiale, aborriva l’adulazione e i compromessi a cui erano costretti i poeti panegiristi, preferendo non avere alcun incarico ufficiale che limitasse la sua libertà di pensiero e di espressione. Venne accusato spesso di empietà e di scarsa adesione alle pratiche religiose, ma proprio questa sua particolare indipendenza morale e ideologica lo rendeva caro agli strati più umili e anticonformisti della popolazione (“Tu sei il mio Creatore e sei Tu ad avermi creato così / Folle amante del vino e delle canzoni // Poiché Tu mi creasti molto prima del Tempo, / Perché poi mi getti all’inferno?”).

La poesia di ’Omar Khayyâm si espresse in Quartine composte da due versi, suddivisi in quattro emistichi, di cui tre rigorosamente rimati, scritte soprattutto per essere declamate a voce alta e davanti a un pubblico, con una funzione esortativa o moraleggiante. Numerose sono le composizioni di ’Omar che affrontano il tema della morte, da cui nessuno può sfuggire: ma la fine della vita non viene sentita dal poeta come un fatto tragico o temibile, poiché appartiene al corso naturale dell’esistenza, e ne garantisce la liberazione da mali e affanni: “Che sia di duecento, trecento o mille anni la tua vita / Da questo vetusto palazzo sarai fatalmente cacciato. // Il sultano e il mendico del bazar: / Tutti e due avranno un valore solo, alla fine”. Molto frequente è anche il tema della memoria, così come l’ammonimento a non preoccuparsi troppo per il futuro, angustiando il presente con preoccupazioni vane: “O Amico, che cos’è tanta ansia del futuro / Con cui affliggi l’anima e il corpo? // Vivi felice e trascorri il tuo tempo in letizia / All’inizio non ti misero in mano le briglie del mondo!”

Poiché il senso ultimo della vita è inconoscibile, e i disegni del destino sono imperscrutabili, l’unica strada percorribile dall’uomo è il godimento di ogni attimo di felicità: “O cuore, fa’ conto d’avere tutte le cose del mondo, / Fa’ conto che tutto ti sia giardino delizioso di verde, / E tu su quell’erba fa’ conto d’esser rugiada / Gocciata colà nella notte, e al sorger dell’alba svanita”; “Con bella fanciulla in riva a un ruscello, con vino e con rose / Finché mi è concesso farò bella vita e sarò in allegria. // Fintanto che fui, sono e sarò in questo mondo / Ho bevuto, bevo e berrò sempre del vino”.

La sottile ironia spesso esercitata da Khayyâm assume le sembianze della burla giocosa contro le persone troppo rigide e tronfie, e vuole perlopiù essere un monito e un invito alla leggerezza e al sorriso; lo stile scorrevole e pacato, lontano da ogni formalismo, è esso stesso un suggerimento a evitare quanto più possibile ogni inutile difficoltà e sofferenza. Da filosofo e poeta qual era, ’Omar Khayyâm riuscì ad innalzarsi a figura di maestro, e come tale continua a essere letto, tradotto e ammirato in tutto il mondo.

 

© Riproduzione riservata      

https://www.sololibri.net/Quartine-Khayyam.html                   2 ottobre 2018

 

 

 

RECENSIONI

KIERKEGAARD

SOEREN KIERKEGAARD, IL GIGLIO NEL CAMPO E L’UCCELLO NEL CIELO – DONZELLI, ROMA 2011

I discorsi “edificanti” che Sören Kierkegaard pubblicò tra il 1849 e il 1851 con il suo vero nome (mentre tutte le altre opere, che lo resero famoso nel mondo, furono firmate con diversi pseudonimi, non essendo ritenute dall’autore altrettanto considerevoli eticamente e religiosamente) circolarono per decenni in edizioni semiclandestine, e furono poco tradotti. Questo genere letterario, rifacentesi in parte alla mistica medievale e forse anche alle Prediche di Schleiermacher, venne poi completamente abbandonato dopo questi sermoni del filosofo danese, il quale tenne sempre a precisare la sua intenzione esortativa di comunicazione fraterna ai credenti, da “poeta del cristianesimo” quale amava definirsi. Pur avendoli scritti con la finalità di una lettura ad alta voce, Kierkegaard non li pronunciò mai in chiesa, non essendo tra l’altro mai stato ordinato pastore. Donzelli ne ripropone qui nove, con una approfondita introduzione di Ettore Rocca: essi sono strutturalmente articolati in una preghiera iniziale, nella proposta di un brano evangelico e quindi nell’interpretazione del brano stesso. Lo scopo di questi scritti è esplicitamente quella di liberare l’anima del lettore dalla disperazione derivante da un’eccessiva attenzione al proprio io, aprendolo invece all’amore verso Dio e il prossimo. In questo senso, i discorsi più ragguardevoli ed efficaci sono i primi tre, dedicati al commento dei versetti di Matteo 6, 24-34, in cui Gesù esorta i discepoli ad affidarsi alla provvidenza, e a vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, senza preoccuparsi troppo del futuro, del proprio tornaconto personale e del successo mondano. Nostri maestri in semplicità, gigli e uccelli ci devono insegnare il tacere, l’obbedienza e la gioia, affinché impariamo a “saper ripiegare davanti a Dio tutti i progetti fino a ridurli, semplicemente, a qualcosa che prenda meno spazio di un punto, e produca meno clamore dell’inezia più insignificante: fino a ridurli al silenzio”.

IBS, 31 marzo 2014

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KING

STEPHEN KING, A VOLTE RITORNANO – BOMPIANI, MILANO-FIRENZE 2025

 

Non sono tra coloro che considerano la giallistica una letteratura di secondo livello rispetto alla narrativa tradizionale: la ritengo degna di interesse e di stima, e non solo perché attira un numero sempre crescente di lettori e costituisce una fonte insopprimibile di entrate per la nostra editoria. Ma anche perché tra gli scrittori di thriller, di horror, di polizieschi esistono autori ragguardevoli, che leggo e ho letto sempre con piacere.

Il nostro Scerbanenco, ad esempio, che è stato un appassionato scrutatore della malavita milanese, e un profondo conoscitore degli abissi tormentosi dell’animo umano. Ma anche Simenon, acuto ed elegante nello scandagliare i sentimenti, gli ambienti, le imprevedibili azioni dei protagonisti dei suoi romanzi e dei suoi racconti.

E poi c’è il fenomeno Stephen King, venduto e tradotto in milioni di copie in tutto il mondo, trasposto in decine di pellicole cinematografiche, preso ad esempio, ammirato e imitato da moltissimi volonterosi giallisti. Il suo stile così “americano”, rapido e secco, intessuto di dialoghi spesso frenetici, e i suoi contenuti ricchi di intrecci complicati e soluzioni ad effetto mi hanno sempre colpito, anche se confesso che rimango maggiormente legata alla scrittura ponderata e complessa, minuziosa nelle descrizioni e ricca di subordinate, cui ci ha abituato la nostra tradizione classica europea.

Bompiani ha ripubblicato da poco una raccolta di venti raccontiA volte ritornano, uscita negli States nel 1978 con il titolo Night Shift ed edita in Italia nel 1981. L’affettuosa introduzione all’antologia è dovuta alla penna di John D. Mac Donald, uno degli autori preferiti di King, e la prefazione è dello stesso King, che per la prima volta si rivolge direttamente al lettore raccontando di sé e della propria scrittura: “Parliamo, io e te. Parliamo della paura”. E provocare paura, anzi vero e proprio terrore in chi legge, sembra sia stata la principale intenzione dell’autore, secondo quanto ha dichiarato commentando queste pagine: “Nei miei racconti incontrerete esseri notturni di ogni genere: vampiri, amanti dei demoni, una cosa che vive nell’armadio, ogni sorta di altri terrori. Nessuno di essi è reale. L’essere che, sotto il letto, aspetta di afferrarmi la caviglia non è reale. Lo so. E so anche che se sto bene attento a tenere i piedi sotto le coperte, non riuscirà mai ad afferrarmi la caviglia”.

Presentare un riassunto dei venti racconti antologizzati sarebbe inutile e controproducente per chi volesse affrontarne la lettura. Introdurrò sommariamente la trama di quelli che più mi hanno colpito, senza rivelarne la conclusione. Tra i primi, Secondo turno di notte, in cui un giovane operaio viene reclutato da un sadico datore di lavoro per ripulire lo scantinato dello stabilimento invaso da sporcizia e da colonie di ratti enormi e famelici, pronti a vendicarsi atrocemente dell’invasione umana nei loro territori sotterranei. Io sono la porta è la vicenda di un astronauta che durante una spedizione su Venere subisce delle mutazioni causate da un gene alieno, che permettono a un’intelligenza extraterrestre di controllare il suo corpo, spingendolo a commettere efferatezze, e a spiare il mondo degli umani. Ne Il baubau un paziente psicotico racconta al suo psichiatra come una creatura assassina nascosta negli armadi di casa abbia ucciso i suoi tre figli. Camion (Trucks), due volte riadattato per il cinema, in cui un gruppo di persone bloccate in un ristorante sull’autostrada viene assediato da camion e autotreni animati da una forza misteriosa, che farà di loro i futuri dominatori del pianeta. A volte ritornano, dove un professore vittima in gioventù di un atto di violenza da parte di teppisti che gli avevano ucciso il fratello, invoca il soccorso di un demone per castigare alcuni alunni in cui vede reincarnati i propri aguzzini. L’ultimo piolo della scala, privo di elementi orrifici ma intriso di suspence e di dolore, nel resoconto di un episodio infantile che aveva drammaticamente segnato la vita del protagonista e di sua sorella. L’uomo che amava i fiori, storia di un serial killer dall’animo gentile e ingenuo che di notte si trasforma in feroce assassino inseguendo il fantasma della fidanzata morta.

Omicidi, mostri, pazzi schizofrenici, alieni, spettri che forse non ci fanno più tremare, abituati come siamo a ben altre quotidiane scene di violenza, ma certo ci lasciano un senso di inquietudine, come già cinquant’anni fa si era prefisso di creare in noi l’indiscusso maestro dell’horror Stephen King.

 

«SoloLibri», 3 luglio 2025

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KIPLING

RUDYARD KIPLING, SARAI UN UOMO, FIGLIO MIO – GARZANTI, MILANO 2021

Soggiogata da improvvise e incontenibili nostalgie senili, da un po’ di tempo ho ripreso in mano, con scontata commozione, le letture che hanno segnato la mia infanzia: Pattini d’argento, Piccole donne, I ragazzi della Via Paal, Davide Copperfield, Capitani coraggiosi e, ovviamente, Il libro della giungla. Mowgli, Baloo, Kaa, Bagheera, Shere Khan, Rikki Tikki Tavi. Mi riecheggiano nella memoria addirittura le battute più famose dei protagonisti: “Siamo dello stesso sangue, voi e io!”

Quindi, appena ho scoperto tra le ultime pubblicazioni di Garzanti una riedizione della poesia più nota di Rudyard Kipling, con un saggio interpretativo di Vittorino Andreoli, mi sono precipitata ad acquistarla nel conveniente formato ebook. Il titolo originale della composizione, If, è stata tradotto in maniera più accattivante, rielaborandone l’ultimo verso: Sarai un uomo, figlio mio.

Kipling (Bombay 1865Londra, 1936), premio Nobel a 41 anni nel 1907, famosissimo nella cultura di massa per i suoi romanzi e racconti – rivisitati dal cinema, osannati da movimenti religiosi e scoutistici, sfruttati dalla fantascienza – fu spesso osteggiato dalla critica per la sua appartenenza alla massoneria e per la sua visione ideologica e politica favorevolmente orientata verso il colonialismo e l’imperialismo: rimane comunque uno dei pilastri della letteratura mondiale novecentesca.

If è una missiva poetica dall’andamento sermoneggiante scritta nel 1895, pensata avendo come modello un uomo politico e avventuriero inglese, di cui l’autore ammirava la statura umana e militare. Nel 1910, in occasione della pubblicazione, Kipling la dedicò al figlio tredicenne John.

La poesia incoraggia in un figlio immaginario le virtù più rispondenti alla costruzione di una personalità ideale: audacia, indipendenza di giudizio, pazienza, fede nei propri principi, rispetto verso gli altri, resistenza alle offese e alle calunnie, capacità di rialzarsi dopo un fallimento, autocontrollo emotivo e fisico, attitudine al sogno e alla creatività, premurosa attenzione per ogni istante vissuto. In pratica, si tratta un’esortazione a raggiungere la perfezione morale. Il testo della poesia, accompagnato dalla versione in lingua inglese, consta di una trentina di versi liberi, in cui tredici strofe iniziano con l’ipotetico “If you can”: se saprai, se riuscirai, se potrai.

Il saggio di Vittorino Andreoli ripercorre le vicende biografiche dello scrittore britannico, e sonda con perizia e sensibilità le dinamiche che intercorrono nel rapporto generazionale padre-figlio, partendo proprio dall’esperienza vissuta dai padri nella loro posizione di figli.

Rudyard Kipling, nato in India da genitori insegnanti in una scuola d’arte, seguito amorevolmente in famiglia e dalla servitù indigena, a sei anni fu mandato con la sorellina in Inghilterra per motivi di studio, a pigione in una famiglia di rigorosa fede evangelica, in una situazione “di sradicamento, se non di abbandono”. Le umiliazioni e la mancanza di affetto patita negli anni di formazione senz’altro ne minarono il carattere, ma in qualche modo spiegano anche le ragioni per cui la sua scrittura fu prevalentemente rivolta al mondo fantastico dell’infanzia, a compensare un vuoto, e a riappropriarsi di un “oggetto perduto”. Il figlio John era il suo terzogenito, e l’unico maschio: Kipling fece in modo di farlo arruolare come ufficiale allo scoppio della guerra, e il giovane cadde in battaglia, appena diciottenne, il 27 settembre 1915.

Andreoli valuta il contenuto di If dal punto di vista pedagogico, poiché suo primo intento è quello di insegnare a vivere comportandosi con correttezza e magnanimità. La poesia non è didascalica in maniera impositiva e autoritaria, ma suggerisce benevolmente obiettivi concretizzabili per raggiungere la piena dimensione umana. Kipling padre si rivolge anche al suo passato di figlio, a cui sono mancati incoraggiamenti affettivi ed esempi da seguire. Secondo lo psichiatra veronese “È importante che un educatore sappia far riferimento a propri modelli, mostrando così che anch’egli si trova all’interno di un processo di apprendimento, di educazione”.

Kipling ha messo in luce nel testo alcune fondamentali qualità caratteriali e intellettuali individuate ed elogiate anche nel suo personaggio più famoso, Mowgli, che, pur inserito in un ambiente estraneo e difficile come la giungla, riesce a creare intorno a sé uno spazio vitale favorevole e condiviso.

La composizione è permeata di influenze filosofiche positiviste, che orientando i propri criteri educativi entro i confini del binomio “comprendere” e “volere”, sottovalutavano o addirittura escludevano l’affettività, cioè l’insieme delle emozioni, dei sentimenti e dei piaceri, considerati ostacoli nell’esercizio oggettivo dell’agire e del dovere.

Alla nostra sensibilità contemporanea, If, mancando di un orizzonte emozionale di rilievo, appare forse pedagogicamente discutibile e inopportuna, addirittura paternalisticamente ricattatoria, troppo responsabilizzante e retorica. Recentemente è stata oggetto di una forte contestazione da parte degli studenti dell’Università di Manchester, che rifiutando la visione razzista e imperialista esibita dall’autore in alcuni suoi libri, l’hanno rimossa da un’esposizione, perché limitativa dell’emancipazione e delle libertà individuali.

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 15 novembre 2021

 

 

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KIS

DANILO KIS, DOLORI PRECOCI – ADELPHI, MILANO 1993

Un vero monumento di parole “alla ricerca del tempo perduto”, questo splendido libro di Danilo Kis: scrigno prezioso di ricordi, miniera di sentimenti e nostalgie. Ma quanto distante dalle atmosfere proustiane, rarefatte e aristocratiche, e invece abitato da oggetti e persone semplici, da affetti raccontati con pudore e discrezione, da ambienti umili e popolari, lontani dalla Storia, e da essa trascurati e travolti. Qui l’aristocrazia è solo quella dell’anima dell’autore, che torna malinconicamente a ripercorrere le tracce lasciate dal suo sé bambino, un ragazzino ebreo cresciuto in una famiglia povera e dignitosa dell’Europa centrale negli anni ’40. Questo Andreas Sam sensibilissimo, il migliore a scuola in composizione, innamorato della mamma e della compagna di classe Julija con cui scambia baci e promesse di matrimonio nel fienile: che si vergogna di bagnare il letto per l’umiliazione di vedersi deriso dalla sorella, ma è continuamente e crudelmente preso in giro dagli amici per il suo linguaggio educato e pulito. Andreas che osserva il mondo dal buco della serratura, ama le fiabe di cui vorrebbe cambiare il finale tragico, si inebria del profumo dei campi e delle acrobazie degli zingari nel circo. Danilo Kis, nel suo viaggio a ritroso nel tempo, non è più sicuro dei suoi ricordi: “Dopo tanti anni, Andreas forse non sono nemmeno io”, e ne chiede conferma ai fantasmi dei parenti (“Dimmi, Anna, ho forse inventato tutto questo?”) e ai fantasmi dei luoghi: che sono irreparabilmente cambiati (“Dovrò chiedere ad altri, ci sarà pure qualcuno che si ricorda di quella strada”), cancellati dagli uomini, dalla guerra, dalle stagioni impietose. La memoria, tuttavia, può salvare e salvarsi, aiutata dalla poesia: “Tornava al villaggio seguendo la riva. Vincitore sul tempo, sempre impotente di fronte ai fiori e al prato”.

IBS, 9 gennaio 2014

RECENSIONI

KRAUS

KARL KRAUS, ESSERE UOMINI É UNO SBAGLIO – EINAUDI, TORINO  2012

Paola Sorge, nella prefazione a questo volume di Aforismi e pensieri di Karl Kraus, suggerisce diverse definizioni dello scrittore austriaco (1874-1936): “fustigatore della società… profeta… cattiva coscienza di Vienna… apocalittico direttore di ‘Die Fackel'”, offrendo al lettore una descrizione sintetica della sua vita, ma soprattutto un’analisi della sua produzione letteraria. Così veniamo a conoscenza delle sue origini ebraiche poi rinnegate, della sua conversione al cattolicesimo successivamente rifiutata, della sua passione per il teatro e per l’oratoria, del suo profondo e tormentato amore per una nobildonna ondivaga, della sua coraggiosa lotta al nazismo nascente. Ma soprattutto del suo innato e polemico anticonformismo, che lo portò a creare e dirigere per trentasette anni un “antigiornale” di denuncia come “Die Fackel”, in cui prendeva di petto l’ipocrisia e la corruzione della società contemporanea, ricavandone applausi e querele, successi e ostilità incancrenite nelle coscienze austriache per decenni. Nell’antologia einaudiana i sette capitoli che suddividono per argomento i più originali tra i suoi aforismi, inquadrano i bersagli favoriti del sarcasmo feroce di Kraus: tra i principali, le istituzioni (dalla Chiesa alla famiglia alla politica), le categorie professionali (giornalisti, psicanalisti, attori, critici letterari, artisti), i miti contemporanei (dal progresso alla pubblicità alla finanza), i vizi privati e le pubbliche virtù di una città provinciale e farisaica come la sua Vienna. Alcuni di essi ricalcano saggezze da manuale spirituale (“Chi ha il cuore vuoto, ha la bocca che trabocca”), altri imbarazzano per la ferocia gratuita (“L’uomo ha cinque sensi, la donna ne ha uno solo”, “La maggior parte dei miei simili è la triste conseguenza di un aborto che non è stato commesso”), altri ancora divertono per la loro pungente sagacia (” Lo psicanalista è un padre confessore che ha voglia di ascoltare anche i peccati dei padri”).

IBS, 9 luglio 2013

RECENSIONI

KRAUSPENHAAR

FRANZ KRAUSPENHAAR, LE BELLE STAGIONI – MARCO SAYA, MILANO 2014

Le belle stagioni di Franz Krauspenhaar partono dall’inverno e all’inverno tornano («Ho fatto tutto / un giro scrivendo le mie pene, / roba che non preme a nessuno»), attraversando primavera estate e autunno, in quattro sezioni intitolate in olandese e chiosate da citazioni di altrettanti pittori fiamminghi (Bosch, Jan Van Eyck, Pieter Bruegel il vecchio, Van Gogh). Non tanto, come fa giustamente notare il prefatore del volume Andrea Caterini, perché questa poesia esprima una particolare sensibilità figurativa o coloristica, quanto perché il rimando ai Paesi Bassi costituisce nelle pagine un discreto ma costante leit motiv. Krauspenhaar, infatti (nato a Milano nel 1960 da padre tedesco), immagina una sua discendenza da un antenato olandese del 1400 – Frans Kroeshaar-, costretto a lasciare le sue terre per una persecuzione politico-economica: «sono assorto a scrivere / di Frans e so che scrivo di me, / con vesti antiche», «Sono l’uomo di oggi / e quello di ieri, il soldato del cuore e della mano, / il mercante, il religioso, il bandito. Il nome che ho sempre avuto è del nobile signore / Frans Kroeshaar»,

Un evidente pretesto letterario, la metaforizzazione di un’esigenza profonda, quella di un’individuazione, di una definizione del proprio io mai del tutto compreso e ricostruito: «Sono l’uomo delle stagioni, sono l’uomo / di tutti e di nessuno, sono l’anno diviso / per quattro». La ricerca del sé, delle radici familiari e ambientali, il recupero di un passato che possa rendere meno sfocato il presente affiora ovunque, insieme a una sorta di disamore, di sprezzante fastidio per la propria vicenda esistenziale: «io son diventato / una luce intermittente, un fanale / che perfora la nebbia, e non sa dove / s’è lasciato sfondare», «l’agonia / mi segue da decine d’anni», «Dove sei, dove vai, da nessuna parte, / nemmeno dentro di me, sono la superficie / del silenzio»,«Negro / di te stesso, nemmeno ti fai pena», «Usuraio di te stesso, limbo di te stesso», «Dove sei, me stesso».

Le parole si fanno violente, rabbiose, nei confronti della propria vita e di quella altrui, senza nessuna clemenza nei riguardi del mondo, delle donne, della cultura contemporanea (editoria, libri, vernissages e letture in pubblico, politica corrotta) e dell’ambiente circostante – illividito, triviale, blasfemo. Milano risulta sopportabile solo in virtù dei ricordi giovanili (le partite dell’Inter a San Siro, con l’allucinazione di uno stratosferico Jair che palleggia nella nebbia meneghina), ma è comunque definita «città morta, doppia, nordica e mentecatta», abitata da signore «stronze con il cane», «queste puttane luride». Roma è odiata e vilipesa («città di sobborghi e di spurghi, di immani / immondizie… / solo volgare vecchio / catarro», con un Vaticano di religiosi «impiantati nella merda / coi loro culi estinti». Forse solamente la musica può salvare dalla disperazione (il sax di Coltrane, il samba di Vinicius, e Piero Ciampi, gli Who, gli Air), perché l’amore è ormai ridotto a qualche stanca tenerezza con amiche comprensive e fugaci, o a una sessualità vissuta con ordinaria violenza in posti casuali e deprimenti. Formalmente, la poesia di Krauspenhaar si definisce al meglio proprio quando appare più esasperata, torrenziale, debordante, come nel primo capitolo dedicato all’inverno. Qui potremmo senz’altro trovare un ascendente nei versi inferociti e bestemmianti di Bukowski (accomuna i due poeti, ad esempio, lo stesso disprezzo per le festività borghesi del Natale e del Capodanno; oppure la descrizione di incontri clandestini in hotel loschi, le frequenti allusioni ai cessi sporchi e alla prostituzione). Nelle altre sezioni, l’autore sembra voler esagerare nei contenuti, con riferimenti talvolta fuorvianti o poco giustificabili alla storia mondiale e ai suoi protagonisti (dal Medioevo con le sue torture, al nazismo, all’America onnivora di plastica, a Papa Francesco), lasciandosi prendere la mano sia da un descrittivismo eccessivo, sia da una sentenziosità didascalica e alquanto retorica, o da reprimende moralistiche: «C’è questa paura / di parlare di vocazione; il nostro mondo che ha / risolto Dio, dentro l’evidenza della non presenza, / non vuol sentirne parlare, perché essi vogliono / la schiavitù e al contempo la molla dello spasso, / così che si vive soltanto per la fuggevole nomina».  Un’ansia di sfogo e di indignazione, che arriva a inficiare nella sua sovrabbondanza l’incisività altrimenti considerevole di queste poesie.

«Poesia» n.308, ottobre 2015

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