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RECENSIONI

MELLONI

GIACOMO MELLONI, IL MUSICISTA OSCURO – VOLAND, ROMA 2017

Le edizioni Voland proseguono nella loro meritoria iniziativa di scoprire e incoraggiare giovani talenti della nostra narrativa. Dopo Vita e morte delle aragoste, di Nicola H. Cosentino (già recensito su SoloLibri), ora ci propongono in lettura il primo romanzo di un autore romano, Giacomo Melloni, classe 1984, che vive e lavora a Parigi come insegnante e traduttore dal francese.

Il musicista oscuro narra di una ossessione, una sorta di incubo che affligge il personaggio principale: il confronto schiacciante con chiunque consideri superiore a sé. Del protagonista non conosciamo nemmeno il nome: sappiamo però che vive solitario in una stanzetta disordinata, nel quartiere più sordido e pericoloso di una metropoli, mantenendosi con il lavoro precario di guardiano in un museo, giusto per pagarsi vitto e alloggio, e potersi dedicare al sogno di ottenere qualche riconoscimento nel mondo discografico. La consapevolezza delle proprie scarse doti musicali si è insinuata in lui già dal primo affacciarsi della passione per le note: a dodici anni, con le prime lezioni di chitarra affidate a un maestro mediocre e vanesio, poi con la partecipazione a una band dilettantesca. Nonostante la lucidità con cui sa analizzare l’inconsistenza delle sue utopie, abbandona gli studi universitari per seguire il suo miraggio, rischiando non solo la sopravvivenza materiale, ma addirittura la salute mentale. Diventa infatti presto preda di allucinazioni, manie di persecuzione, attacchi di panico, dipendenza dall’alcol, autolesionismo, a cui tenta di sfuggire frequentando locali di terz’ordine dove esibire inedite composizioni, mal recepite dallo scarso pubblico e dai colleghi. Già l’incipit del romanzo, in tono sarcastico e astioso, indica quale sia il sentimento che il giovane musicista nutre verso chi, come lui, alimenta patetiche illusioni sulle proprie capacità artistiche e su un improbabile successo futuro: «Ogni martedì vado in un locale e partecipo alle jam session che organizzano. Lì, oltre a imbattermi in qualche ragazzo pieno di speranze e privo di talento, ho a che fare con quella montagna di escrementi umani che riunisce il variegato universo dei musicisti falliti. Ultracinquantenni nostalgici di tempi remoti, vecchi bluesman inascoltabili, metallari inquietanti, un teatro degli orrori che esibisce un look altrettanto spaventoso: gilet di pelle, pantaloni attillati, grosse e pesanti cinture di cuoio, catene d’acciaio, volgari occhiali da sole, bandane umide di sudore, calvizie precoci dissimulate sotto inaccettabili cappelli a bombetta, stivaloni col tacco».

Allo smacco di non essere all’altezza delle proprie aspirazioni, si aggiunge per il protagonista la coscienza della sua scarsa avvenenza, afflitta anzi da una “bruttezza tragicamente comune”: l’incontro con Silvana, donna tanto ricca quanto fisicamente orrenda, lo precipita nel baratro del disprezzo di sé e dell’autocompatimento, rendendolo inoltre aggressivo e geloso nei riguardi di chi reputi eccessivamente fortunato e capace. La competizione umiliante con gli altri si concretizza soprattutto nel confronto con il vicino di casa violinista e dandy, rumorosamente boccaccesco, che arriva a spiare in casa e a pedinare fuori casa, invidioso fino allo spasimo dei suoi successi, amorosi e musicali. Il naufragio esistenziale del protagonista assume i contorni di un delirio psicotico, e la sua immaginazione malata finisce per farlo interagire con le figure di un quadro improvvisamente animatosi: l’irrealtà allucinatoria diventa preferibile alla detestata realtà di una vita da perdente. Dalla quale riesce infine a riscattarsi con un eclatante e disperato gesto finale: l’omicidio del violinista attraverso cui raggiungerà la notorietà tanto desiderata.

La narrazione di Giacomo Melloni, espressa con ritmo incalzante, da empatica e solidale con il suo personaggio quale sembrava inizialmente, nel proseguo delle pagine diventa irrisoria e beffarda, intenzionata a demolire l’inconsistenza caratteriale, gli atteggiamenti esaltati e i propositi farneticanti di lui, che ne rivelano la velleitaria personalità di “oscuro” pseudo-artista, assillato dai propri fallimenti.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Il-musicista-oscuro-Melloni.html       1 dicembre 2017

RECENSIONI

MEMORIA

MEMORIA – RIVISTA STORICA – ROSENBERG & SELLIER, TORINO 1981

I professori di storia, i cattedrattici, quelli che pubblicano sulle riviste universitarie autorevoli saggi volti a rintuzzarsi vicendevolmente le ultime tesi, avranno scosso la testa paterni. Non dico fatto un balzo sulla sedia, quello no: sprecare a tal punto sorpresa e indignazione vale per le gesta di un enfant prodige quale Carlo Ginzburg (irriverente storico-segugio), ma insomma anche lui titolare di cattedra, quindi da prendere sul serio. Invece questa nuova rivista, Memoria, sembra avere meritato solo qualche rimbrotto sorridente, qualche recensione spazientita, come quella apparsa su Repubblica: Memoria è infatti la prima rivista di storia delle donne, scritta solamente da donne (e quel “solamente”, molti l’hanno letto nel senso che “sono solo donne”). La veste grafica è sobria e discreta come si addice a una rivista teorica: ma ad avvertirci che non si tratta di Studi medievali o di Clio, servono anche il colore della copertina, viola, le illustrazioni da un quadro di Klee (Occhi di strega) che accennano velatamente ad un simbolismo sessuale, prima ancora che l’editoriale e il sommario degli articoli. Questa rivista dal titolo rivelatore (una discussione sulla scelta di questo titolo avrebbe perfettamente introdotto il numero primo) riesce ad essere un contributo al femminismo; non nasce da uno spirito di rivincita, ma da un “desiderio di conoscenza” che è volontà di rileggere la storia delle donne (o di leggerla ex-novo; è mai stata letta correttamente?) al di là dei rigidi schematismi imposti dalla storiografia ufficiale, stralciandola – per così dire – dalla storia maschile fatta sempre passare come storia universale. Quale Memoria, allora? Una memoria selettiva, intanto, che scelga di indagare quei momenti di particolare rilevanza nella storia delle donne, trascurati o interpretati erroneamente dalla storicistica maschile. E in questo ambito tenga conto che la storia femminile è storia di relazioni, non riducibile a un elementare contrapporsi di antagonismi e oppressioni, ma storia che se ruota intorno a momenti concreti, a ruoli determinati, a condizioni oggettive, a fatti accaduti, non è tuttavia circoscrivibile interamente in questi limiti, e va letta con un metro sensibile anche all’evoluzione/involuzione dei sentimenti. Ragione e sentimenti è il tema di questo primo numero, doveroso omaggio a uno stereotipo culturale che scinde l’identità umana in due poli (uno positivo, maschile, l’altro negativo, femminile) e l’identità femminile in due ruoli (fanciulla casta, moglie fedele, madre amorosa) e uno “diverso” da rifiutare. Compito della donna storico è quello di studiare questa norma costrittiva e lo scarto dalla norma, con i prezzi da pagare che esso ha imposto e impone. Tuttavia pochi dei saggi presenti in questo volume (Di Cori, Ripa di Meana, Pelaja) si attengono strettamente a questo principio: uno in particolare, che analizzando un caso di infanticidio del 1882, indaga sul groviglio di dati consci e inconsci, privati e pubblici, che interagiscono in un delitto del genere. Un altro saggio (Bompiani) smonta gli elementi compositivi della figura di Cenerentola nelle varie edizioni della fiaba, con occhio particolarmente attento alle relazioni parentali e alla pluralità di sentimenti che in esse si accavallano. Altri quattro interventi, invece, lavorano su fonti indirette (Bonacchi, D’Amelia, Biadene, De Giorgio) commentando testi sia maschili sia femminili e suggerendone un nuovo approccio di lettura. Fraire, Magli e Groppi propongono, con indubbia profondità e fertilità teorica, studi che non sono però focalizzati sulla donna e potrebbero comunque essere destinati ad altra rivista storica o psicanalitica. Un contributo estremamente interessante è quello di Cantarella, che studia le origini nel mito e nella tradizione letteraria greca dell’unica saggezza riconosciuta alle donne: la “metis”, l’astuzia, vissuta nella cultura occidentale più come difetto che come virtù. La rivista non sente la mancanza di momenti creativi: l’unica invenzione è una lettera di Pericle ad Anassagora (E.Sormani), che getta un ponte tra storia antica e femminismo. Molto buona è anche la parte documentaristica, con un accurato notiziario, recensioni, informazioni e bibliografie. In conclusione, alcuni difetti della rivista – già peraltro messi in luce dall’editoriale – possono essere la scarsa adesione al tema di alcuni saggi, la mancanza di analisi di figure femminili, la preponderanza delle fonti indirette su quelle dirette; ma se consideriamo che ci troviamo di fronte al primo tentativo di rivista storica delle donne, che ha il grosso merito di non essere rancorosa come altri contributi femministi, e di proporre un’analisi e un obiettivo comune a tutto il corpo redazionale – cosa del tutto nuova per una rivista storica non partitica, dobbiamo ammettere che si tratta di una svolta importante nella cultura del movimento femminista e (speriamo) nella coscienza storica del nostro paese.

«Quotidiano dei Lavoratori», 19 giugno 1981

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MENICANTI

DARIA MENICANTI, POESIE PER UN PASSANTE – MONDADORI, MILANO 1978

«Le poesie delle donne sono spesso piatte, ingenue, realistiche e ossessive», dice un verso della Maraini: è vero. E’ vero che molte femministe scrivono rabbia contrabbandandola per poesia, è vero che molte poetesse ufficiali (di quelle garantite dalle grosse case editrici) scrivono al maschile, scorporandosi, eteree e asessuate, noiose. Ma ci sono poesie di donne che non nascondono la loro concretezza corporea, che non si vergognano della loro espressa fisicità: se tracciassimo una mappa della letteratura femminile, vedremmo però che sono ancora in netta minoranza. Il libro di Daria Menicanti è un prodotto riuscito di questa minoranza. Formalmente si tratta di una struttura poetica classica, non particolarmente inventiva sul piano del linguaggio ma nemmeno mai scontata; di una tradizionale dignità che evita gli scarti, i giochetti di parole, le astuzie grafiche. Entro questa classicità, i temi e gli oggetti poetici sorprendono e aggrediscono con la loro totale evidenza, apertura, comprensibilità: eppure nemmeno questi sono nuovi (morte-vita, amore-odio, corpo-anima, giovinezza-vecchiaia). Ma è raro sentirli raccontare così senza alcuna paura di retorica: diventano nuovi per il lettore perché evidentemente sono stati vissuti e scritti con la tensione e la sofferenza che li fa nuovi. La Menicanti scrive del suo corpo che invecchia, degli uomini che possiede e che ha posseduto. Invidia le coppiette degli alberghi a ore, prende in giro gli ex-amanti e i corteggiatori, scrive le incertezze e le voglie di essere «meno vili / più accesi». Ma racconta anche le banalità delle canzonette, dei bar, delle storie quotidiane, gli incontri e gli scontri, e dietro appunto città vere, uomini e donne vere, rimpianti veri. Quindi una poesia che non è diretta solo a indagare e ad approfondire un discorso interiore, ma è rivolta anche ai “passanti”. Una lettura piacevole, disintossicante, tra i tanti accademismi e tante difficoltà.

Epigramma per me:

Dopo il bagno unica voluttà / giro svestita per casa. Fa caldo / coi termo che scottano e niente / mi dondola niente mi tremola in corpo. / Gli ossi affiorano scogli puntuti / a marea bassa. / Così in pelle sola / tiepida ed essenziale, puoi parlare / per me di nudità?

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 26 luglio 1978

RECENSIONI

MENICANTI

DARIA MENICANTI, IL CONCERTO DEL GRILLO – MIMESIS, MILANO 2013

L’opera  completa di Daria Menicanti (con tutte le poesie inedite, diverse prose, una ricca bibliografia e una scelta di ritratti fotografici), pubblicata da Mimesis nel 2013, è arrivata dieci anni fa a colmare un vuoto, assolvendo al dovere intellettuale di presentare al pubblico italiano la pregevole produzione di un’autrice schiva e immeritatamente trascurata dalla critica, fatta eccezione per alcuni importanti nomi di letterati che se ne erano occupati negli anni ’60, agli esordi della sua attività (Sergio Solmi, Vittorio Sereni, Lalla Romano). Il corposo volume di oltre ottocento pagine, intitolato Il concerto del grillo, è introdotto da due appassionati saggi di Fabio Minazzi e Silvio Raffo, e da un’affettuosa nota di Brigida Bonghi, che si è occupata della trascrizione e digitalizzazione di tutto il materiale raccolto.

Daria Menicanti è nata a Piacenza nel 1914, sesta figlia di un bancario toscano antifascista e di una maestra fiumana, e dopo frequenti trasferimenti a seguito della famiglia si è stabilita a Milano, dove ha trascorso la maggior parte della vita, insegnando e occupandosi di traduzioni, soprattutto dall’inglese. Laureatasi in Estetica su John Keats, è stata sposata con il filosofo Giulio Preti dal 1937 al 1954, in un’unione burrascosa ma vitale e reciprocamente arricchente. Insieme, i due coniugi facevano parte della cosiddetta “Scuola di Milano”, animata e promossa dal pensatore razionalista Antonio Banfi, che riuniva personalità di rilievo come Enzo Paci, Remo Cantoni, Dino Formaggio, Luciano Anceschi, Luigi Rognoni, Vittorio Sereni, Antonia Pozzi, Maria Corti, insieme a molti altri poeti e intellettuali. Cresciuta in questo stimolante ambiente culturale, Daria Menicanti approfondì lo studio di letterati e filosofi internazionali, iniziando a pubblicare i propri lavori piuttosto tardi, in seguito alla separazione dal marito, dopo aver recuperato un’autonomia creativa personale prima trattenuta.

I primi tre volumi di versi uscirono da Mondadori tra il 1964 e il 1978, sotto l’egida e l’affettuosa cura di Sereni: in seguito, solamente editori minori si interessarono alla sua opera, che giustamente questo importante volume, finanziato dal Centro Internazionale Insubrico e dall’Università dell’Insubria, ha voluto recuperare.

La scrittura menicantea ha patito sottovalutazioni e fraintendimenti, in parte determinati anche dal carattere spigoloso, riservato e severo della poeta. I suoi versi sono stati accostati, per la limpidezza e la semplicità, a quelli di Umberto Saba, oppure accomunati alla trasognante trasparenza di Sandro Penna o ancora alla giocosità di Palazzeschi. In realtà, nulla appare in essi di estemporaneo o ingenuo, essendo invece estremamente sorvegliati nella forma, curati nella scelta lessicale, ricercati nell’impiego delle allitterazioni, pur nel rifiuto di qualsiasi astuzia sperimentale. Soprattutto concettualmente lucidi, animati da una criticità razionalista più orientata all’illuminismo che al romanticismo. Certo, amore e morte sono argomenti predominanti, ma affrontati con un’attenzione antiretorica, e corretti da una forte dose di ironia e autoironia. Temi privilegiati erano la descrizione degli ambienti, in particolari urbani e periferici, con i personaggi che li animano (il primo libro si intitola infatti Città come), quindi l’analisi dei rapporti interpersonali e l’esplorazione del proprio mondo interiore, e infine un variegato bestiario, a cui dedicò nel 1986 l’antologia di Altri amici. Al suo amatissimo Fuchs riservò la citazione di Caninamente: “… e lui mi aspetta e accompagna nei luoghi / deliziato. La sua corte remota / generica e all’antica / teneramente comica è sul punto / sempre di lusingarmi. Ti ricordi / cosa diceva quel proverbio inglese? / Quando sei solo / Dio ti manda un cane”. E in Felini esibisce un’anticipatrice sensibilità ecologica: “La lunga tigre lucente, il leopardo fiorito / – la guardinga, la silenziosa grazia – / tuttora ci minacciano / ma della loro scomparsa”. Mentre odora di spietata vendetta questo Epigramma per verme: “Un verme tranquillo e bavoso / d’un roseo infantile fa il traghetto / del viale. / Mi domando perché poi / mi faccia quasi tenerezza… Ah, sì, / è perché ti assomiglia, mio diletto”.

L’ironia, garbata e sorniona, come tratto caratteristico non solo del suo carattere, ma anche della produzione in versi, si evince da molte poesie sparse in tutti i sette volumi pubblicati in vita, in cui offre di sé un’immagine spiritosamente dolente, da estranea al consorzio umano perché a disagio nel rapportarsi agli altri, e insieme espropriata dall’adesione naturale a una semplice, a-problematica fisicità. Si descrive camaleonticamente come un “mite grillo”, “un cane lupino”, “una gatta sottile”, “una che va vestita come capita”, paragonandosi alla pioggia, a una nuvola, a una siepe recisa, a un palloncino: senza mai voler far cambio con altre vite, senza invidiare successi, soldi, riconoscimenti.

Tra i suoi ironici autoritratti, possiamo rileggere Di zitella, tratto da Un nero d’ombra (1969): “Dio era distratto quando nacqui. Pose / nel nido delle mie costole asciutte / un cuoricino di zitella inglese. / Sbagliò, certo. Così il mio illuminismo / si scontra spesso con le irrazionali / pretese dell’involontario muscolo. / E quando tutti sono lieti a Pasqua / e nelle feste natalizie, io soffro / atrocemente per gli abeti mozzi / i pini uccisi… E il museo roseobianco / degli agnellini fitti nelle

ceste / mi fa fuggire stretta e singhiozzante”. Oppure Poeta, da Poesie per un passante (1978): “In giro me ne vado come un cirro / silenzioso color ombra. Mi piace / stare alto sui tetti a galleggiare / guardando, io mi sento il palloncino / fuggito dal suo grappolo: una cosa / ironica leggera e all’apparenza / felice”. L’ironia di Daria Menicanti talvolta sfora nella satira, nella critica risentita; altre volte si rifugia nella riflessione filosofica e in pacate meditazioni, come in La Verità: “Da sotto spinge il coperchio del pozzo / la bianca prigioniera. Un’improvvisa / voglia l’ha presa di sole e di vento. / Ed eccola – libellula tremante / di freddo e solitudine – posata / sull’orlo. Ma nessuno / che si faccia vedere con lei / così straniera così nuda priva / di sorrisi e di perdoni”.

I versi per il marito Giulio Preti, grande amore e grande dolore della sua vita, sono raccolti nell’ultimo volume Canzoniere per Giulio del 2004, introdotto da una lunga prosa che riassume la vita trascorsa insieme (“Fin dagli inizi infatti tra noi ci furono scontri ed impennate, si alzarono muri di silenzio: tutti e due scotevamo furiosamente la catena, in particolare io che mi dolevo prigioniera di un uomo, sia pur di eccezione, ma estremamente possessivo e geloso”). Quindi una trentina di composizioni, e tra queste Epigramma VIII: “Dopo tanto odio ti ricordo infine / con animo fraterno / e ti perdono / il bene che mi hai fatto”, per cui Vittorio Sereni, amico di una vita, ha voluto scrivere: “Un limpido canzoniere, sempre leggibile come un canzoniere d’amore e sempre capace di ribaltarsi, con poco più di un docile fruscìo, in un canzoniere di morte”.

Gli ultimi anni di Daria Menicanti furono segnati da lutti e malattie, ma anche dal calore di “rari amici scontrosi”, e dal riavvicinamento alla famiglia d’origine, e in particolare alla nipote Lucia Pezzini, che non solo si occupò di conservare e catalogare tutta la sua opera, ma la accolse in casa durante l’invalidante malattia psichica, fino all’inevitabile ricovero in una clinica a Mozzate, in provincia di Como, dove la poeta morì il 4 gennaio del 1995.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 18 gennaio 2024

 

 

 

RECENSIONI

MERIGGI

GIORGIA MERIGGI, RIPARARE IL VIOLA – MARCO SAYA, MILANO 2017

Riparare il viola è il primo volume di versi pubblicato da Giorgia Meriggi (Milano, 1966), e vista la densità e la compattezza letteraria che esprime, possiamo supporre che l’autrice abbia voluto pazientemente e sapientemente lasciar sedimentare a lungo dentro di sé forme e significati del suo dettato poetico. Alla poesia viene demandata la missione riparatrice e ordinatrice del viola dell’esistenza, magma oscuro di cui spesso si tinge la realtà opprimente che ci circonda, come osserva giustamente Antonio Bux sulla quarta di copertina: “È un lento riparare le fratture / di questi muri, riempire le crepe / con ciò che è andato in pezzi: erbacce, vezzi, / ossa di teiere, sillabe avanzate / dai versi, resti di macelleria. // Con le metafore poi si sutura, / sono emostatiche”.

Sofferenza e disagio paiono evidenti nella scelta di termini che esprimono un malessere fisico riflesso in un’immedicabile infelicità interiore: “scordatura atriale”, “insonnia”, “infarto”, “acufeni”, “infezione” vengono sottolineati dal riproporsi di vocaboli aggressivi, taglienti, feroci nella loro graffiante ruvidezza (rovi, crepe, spini, solchi, doglie, strappi, croste, scaglie, amputazioni, inferriate, trincee, lance, cocci, uncini, carta vetrata…). E allora, l’unico scampo al dolore del corpo e dell’anima può venire dall’osservazione attenta dell’esterno, di ciò che nella natura continuamente cresce e fiorisce, del verde salutare in grado di promettere guarigione e rinascita: “Ecco che inizia a ricoprire l’erba / le malefatte dell’inverno…”.

Se pure il mondo vegetale soffre (“le radici incarcerate”, le “stanchissime foglie”, “i fiori stinti”), indagato com’è con applicazione quasi chirurgica, chi scrive riesce a ipotizzare un approdo salvifico cui aggrapparsi solo nell’enumerazione classificatrice di piante e fiori, nel silenzio degli orti, dei campi e delle serre, in una sorta di religiosità panica e naturale: “i boschi sono chiese senza / un tetto, create dai mantra di insetti / notturni”. Addirittura sembra affiorare un’immedesimazione del corpo ferito nella fisicità arborea: sangue-linfa, braccia-rami, piedi-radici, pelle-corteccia (“Quando io cammino / qui sono una quercia. // … Quando io cammino qui io so / di essere un faggio”, “La pazienza di stare in un vaso, / per durare fino a un altro giardino”, “Dondolando sopra un noi / rinforzo i punti sulla faccia. / Il filo / si rompe, canfora e paglia escono / dalle cuciture”, “L’esperienza in amputazioni aiuta / a tenere il giardino ordinato”). In queste metamorfosi vegetali (come non pensare a Ovidio?) si cela il desiderio di fuggire il male (“Vedi nel mondo il serpente, o vedi / la corda”), spesso incarnato in minacciose figure maschili, talvolta crudelmente indifferenti, quando non addirittura brutalmente sopraffattrici.

La parola piena ed esatta di Giorgia Meriggi, terragna e mai eterea, priva di qualsiasi indulgenza o retorica, riesce ad aderire in concretezza all’immagine: essa stessa fatta corpo, materia.

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Riparare-il-viola-Giorgia-Meriggi.html        16 gennaio 2018

 

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MESSORI

VITTORIO MESSORI, LA SFIDA DELLA FEDE – SAN PAOLO, MILANO 1993

Definito recentemente dal L’Europeo «ultra moderato» (in compagnia di Formigoni, Opus Dei, Giacomo Biffi), Vittorio Messori, giornalista e scrittore cattolico molto noto, e attualmente opinionista di  Avvenire  e  Jesus, è senz’altro ideologicamente di parte, e di parte non progressista, ma non risulta certo moderato nei temi e nei toni. Le Edizioni San Paolo hanno accolto in un volume di 500 pagine 216 articoli che Messori ha pubblicato con spirito militante negli ultimi anni, presentandoci un prodotto editoriale di grande valenza culturale e politica, provocante e barricadiero già nel titolo: La sfida della fede . Secondo Guitton, riportato da Messori, per un filosofo «scrivere un articolo di cronaca è cogliere ciò che vi è d’eterno nell’attualità che passa», e l’autore modenese si attiene saldamente a questo spirito di ricerca del duraturo nell’effimero, dello sconfinato nel limite. Infatti il punto di partenza di queste meditazioni è sempre uno spunto di cronaca, dall’ora di religione al Meeting di Rimini, agli Hooligans, alle polemiche sulla Sindone, e numerosissimi sono i personaggi citati, politici italiani o stranieri, intellettuali, teologi o gente comune. Ma il punto d’arrivo è comunque un altro, più universale e rispondente a una visione cattolica dell’esistenza, rigidamente e orgogliosamente chiusa nella consapevolezza della superiorità del cattolicesimo rispetto alle altre religioni, siano esse quella ebraica, quella protestante o quella islamica. Anche in ciò lontano dalle tendenze teologiche più moderne, Messori sembra divertirsi a far provocatoriamente boccacce all’ecumenismo. Si può forse tentare un giudizio formale di questa scrittura in cui stile e pensiero si porgono vicendevolmente soccorso, cementandosi in un tutto inscindibile: Messori stesso dà al proposito tre consigli per attuare un buon giornalismo e per preparare omelie d’effetto: semplificazione, cioè riduzione di ogni articolo ad un solo tema, che va smontato e svelato negli ingranaggi più nascosti; personalizzazione, cioè mettersi in gioco, parlare in prima persona; drammatizzazione, quindi cercarsi un antagonista da confutare e combattere, sia esso «un uomo, un’idea, il peccato che è in noi». Con il risultato che gli scritti di Messori sono concreti e di conseguenza anche nella forma suffragati da frequenti esempi o citazioni. Nel contenuto, il nostro autore ricorda lo sprezzo della modernità di un Ceronetti, gli strali rabbiosi contro il senso comune di un Cioran, l’astio verso la stupidità di un Canetti; caustico e diretto, mai conciliante o diplomatico, sa di attirarsi meno fulmini di quelli che scaglia. E gli oggetti della sua polemica sono tanti, e di successo, e vincenti: dal turismo di massa («nuovo, oppressivo obbligo sociale, potente devastatore antropologico e culturale»), alla rivendicazione gay e femminista, alla falsificazione attuata dai media sui dati scientifici, all’ecologismo fanatico, che più di ogni altra cosa sembra catalizzare le rabbie feroci di Messori, molto spesso sacrosante. Chi sceglie Messori come avversario sa di trovarsi di fronte a posizioni ben nette e tranciate senza sfilacciamenti, spesso a un’ironia feroce poco disposta a patteggiamenti. I mulini a vento contro cui combatte questo Don Chisciotte dell’Eucarestia, sono tanti e giganteschi, camaleontici soprattutto nella fazione in cui lo stesso Messori si situa. E allora giù bordate sulla burocrazia clericale, che rischia di soffocare con la sua elefantiasi lo scarso clero superstite, sull’enorme quantità di documenti, discorsi, encicliche che «assedia il piccolo gregge», sul cedimento teologico e catechistico che tende a ridurre la nostra fede a «un cristianesimo asettico, sterilizzato, tutto nei limiti del gusto da borghesia del terziario: una fede presentabile in società». E ancora, imbarazzanti difese d’ufficio delle pagine considerate più buie della storia del Papato, come la difesa argomentata di Papa Alessandro VI Borgia. Di fronte a tanto fervore savonaroliano, anche un miscredente qualsiasi e i tanti «cristiani della domenica» si trovano a leggere con ammirato stupore pagine di ardente animosità sulla fede, sulla necessità di «irrompere in chiesa» per affermare la generosa follia del messaggio divino, contro il buon senso, il tiepidume. Messori non annacqua la parola evangelica, la rende se possibile più cruda, pronuncia a voce chiara e forte il suo «credo quia absurdum», al punto da non sorridere all’ipotesi che l’ebreo errante esista davvero, che circoli qualcuno tra di noi che è stato testimone della vita di Gesù: «Possiamo anche fidarci, scommettere sul sì, accettare quella dimensione cui la ragione ci ha portati, ma che alla fine la travalica: non la contraddice, la supera…». Credere l’incredibile, altrimenti che fatica, che vanto ci sarebbe nel definirsi cristiani? Messori mette in crisi gli incerti, provoca i disinvolti laicizzanti, manda in tilt femministe radicali da mezza tacca, scrivendo banalità urtanti e offensive mescolate a verità trasparenti e sconvolgenti. Giù il cappello davanti a tanta spietata e faticosa coerenza.

«L’Arena», 30 dicembre 1993

RECENSIONI

MESSORI

Ricordo di Giorgio Messori a dieci anni dalla morte

 

LA  NEVE  A  ZURIGO

Nel volume di Giorgio Messori Storie invisibili c’è un racconto intitolato La neve a Zurigo. E’ il primo che ho letto, con commozione particolare, perché io ho conosciuto Giorgio proprio a Zurigo, e dopo di allora ci siamo persi di vista. Insegnavo italiano per il Consolato dal 1978, lì vivevo con mio marito Siro Angeli e con le nostre due bambine. Il lavoro che svolgevo non era gratificante, ma era molto ben retribuito, e mi dava la possibilità di vivere con relativa tranquillità la mia non facile situazione familiare in una città bella, efficiente, ricca.

Giorgio era capitato a Zurigo nell’86, per una supplenza nei miei stessi corsi di Lingua e Cultura Italiana a livello medio. Ne parlava un poco nel suo racconto: «Ogni pomeriggio andavo a scuola e dovevo sempre trattenere la nausea per cominciare a lavorare. La nausea mi veniva perché gli studenti erano difficili da trattare. Tutti figli di emigrati italiani, si davano continuamente manate sulle spalle e sputavano per terra». In effetti, l’insegnamento in terra straniera non dava grandi soddisfazioni: gli alunni non venivano in classe volentieri, in genere costretti dai genitori, che a loro volta riversavano sui corsi di italiano le loro frustrazioni e aspirazioni. Insegnanti e bidelli svizzeri ci erano ostili, e spesso capitava di fare lezione negli scantinati o in aule improvvisate.  Ma tutti noi, chi più chi meno, eravamo lì per una scelta imposta da circostanze esistenziali di non semplice soluzione.  Scriveva bene Giorgio: «Anch’io in fin dei conti, ero finito a Zurigo per allontanarmi da qualcosa. Il mondo è pieno di gente che scappa e lascia ricordi».

Ma la città ha un suo fascino discreto e accattivante, sia d’inverno sia nella stagione più calda. E Giorgio si era impadronito di questa seduzione silenziosa e sottile; lui e Zurigo si assomigliavano abbastanza: «Camminavo sul lago tra i gabbiani, i capelli al vento, e mi sentivo padrone di una mia città personale. Preferivo andare sul lago perché il cielo era più aperto, entrare la sera in un bar mi faceva sentire troppo solo, seduto su uno sgabello assediato dagli altri. Camminavo lungo il lago anche se pioveva. Non c’era quasi mai nessuno, solo qualche vecchietta che veniva a dar da mangiare ad anatre e gabbiani. I cigni li odiavo, col loro collo lungo cercavano sempre di fregare le anatre. Mi mettevo anch’io a guardare queste zuffe, insieme alle vecchiette che le provocavano, ed ero contento. Poi proseguivo e riposavo lo sguardo sull’acqua, sulle colline color ruggine, le sculture moderne sopra i prati verdi. Era bella Zurigo anche se pioveva, quasi meglio perché c’era ancor meno gente e la luce era meno sfacciata».

L’incontro con Giorgio era avvenuto a casa mia nella primavera dell’86, con una specie di irruzione in quell’appartamento di Berninastrasse da parte di un gruppo di amici: Giorgio, appunto, e poi Beppe Sebaste, Vivian Lamarque, Livia Candiani  e il suo compagno. L’occasione era stata offerta dal quarantesimo compleanno di Vivian, che ci frequentava già da molto tempo, e che avevamo voluto festeggiare in un modo un po’ diverso dal solito. Io e Siro vivevamo una vita abbastanza riservata e solitaria, lui scriveva e nelle ore pomeridiane, quando io lavoravo, si occupava delle bambine (Silvia allora aveva solo un anno, Daria frequentava le elementari): io insegnavo e mi dedicavo all’andamento familiare. Ci frequentavano pochi amici e colleghi, raramente ricevevamo visite dall’Italia, e talvolta l’Istituto di Cultura ci affidava qualche ospite da portare in giro per la città o da intrattenere per qualche ora.
Ricordo dunque quella giornata con nitidezza e simpatia, era stata piacevole e riuscita, ed è ancora immortalata da alcuni scatti fotografici.
Avevamo preparato per Vivian una torta alle fragole e panna, con le candeline: e lei era particolarmente felice e un po’ eccitata dalla trasferta elvetica. Livia e compagno sembravano quasi spaesati ma incuriositi dalla novità dei luoghi. Beppe mi era parso subito entusiasta e trascinatore. Ma Giorgio in particolare mi aveva colpito, per la sua silenziosità e malinconia che me lo aveva subito reso simile: aveva un’aria quasi distratta e estraniata, si avvicinava a cose e persone forse con la paura di disturbare, di essere di troppo. Fumava molto.

Nel pomeriggio avevamo fatto un giro ricognitivo della città, e poi, soprattutto per fare felice Vivian (in quegli anni affascinata dagli studi di e su Jung), ci eravamo dedicati a un pellegrinaggio nei luoghi junghiani sparsi per tutto il cantone. Quindi eravamo capitati a Bollingen, nel basso lago, dove tuttora esiste la bellissima casa dello psicanalista svizzero, abitata dagli eredi. Era una costruzione severa, nubilosa, con un vasto giardino lambito dalle acque del lago: ricordo i salici aggrappati a un terreno in pendio, con i rami fronzuti che pendevano bagnandosi in basso, e poi altra vegetazione scomposta e varia. Ci incuriosiva particolarmente, però, l’ interno della villa, ed era stato Beppe Sebaste, il più coraggioso e intraprendente tra noi, a incaricarsi di chiedere ai parenti di poter entrare per dare un’occhiata alla sacralità delle stanze private. Ci aveva aperto una pallida e bionda ventenne, evidentemente la pronipote di Jung, molto carina e forse un po’ stanca dell’invadenza dei curiosi, quasi renitente a concederci il permesso ambito. E Beppe per convincerla, nel suo trascinante entusiasmo, aveva concluso la sua perorazione dicendo: «Wir sind alle Schrifsteller!» (Noi siamo tutti scrittori!). Ricordo che allora il mio imbarazzo davanti a tanta orgogliosa consapevolezza aveva trovato riscontro nell’espressione intimidita di Giorgio, evidentemente a disagio di fronte all’esibizione dichiarata di una nostra pudica aspirazione. La giornata si era conclusa in una specie di osteria, a bere qualcosa e a raccontarci i nostri sogni. Forse in quella occasione Giorgio e Beppe ci avevano regalato i  primi volumi pubblicati dalla casa editrice che avevano fondato a Reggio Emilia: Aelia Laelia.

Nei mesi successivi, ottenuto l’incarico di insegnamento dal Consolato, Giorgio era venuto quattro o cinque volte a trovarci, e si era trattenuto a con noi a cena. Parlava pochissimo di sé, e sempre con trattenuto pudore. Non ci ha mai raccontato, per esempio, del suo amore svizzero, la dolce hostess della Swiss Air di cui scrive nel racconto. Né siamo mai stati nel suo appartamentino periferico, con la portinaia curiosa, che lo amava perché era «Uno straniero  che non somigliava agli italiani che conosceva…uno che ascolta la musica a volume bassissimo, si muove sulla moquette in punta di piedi, non sposta i mobili di notte». In genere si limitava ad ascoltare le lunghe confidenze di Siro sul suo passato di dirigente Rai: gli piaceva stare a sentire dei suoi incontri con scrittori famosi, o le memorie della guerra e del dopoguerra. Io mi limitavo a preparare in cucina, o a tenere occupate le bambine perché non disturbassero.
Mi torna in mente però un episodio, di quando una volta eravamo intenti alla conversazione, mentre la piccolina dormiva e Daria guardava alla tivù ticinese il film Matrimonio all’italiana, e dopo un po’, forse spaventata dalla turbolenza dei rapporti dei protagonisti, si era avvicinata al tavolo e ci aveva chiesto: «Ma i matrimoni in Italia sono tutti così?». Ritrovo nella mente la risata di Giorgio, che per la prima volta vedevo disteso e divertito.

Tra noi parlavamo soprattutto dell’insegnamento, e poco della nostra scrittura: solo una volta ho osato regalargli un mio volume di poesie, attendendo con ansia e timore il suo giudizio. Che è stato poi espresso in questi termini: «Mi sono piaciute perché sono poesie chiare», e non ho mai capito se quel “chiare” volesse dire, come speravo, “luminose” o, come temevo, “troppo semplici”. Non credo che, prima di partire, Giorgio sia venuto a salutarci. Non ci siamo più sentiti per anni, credo non abbia nemmeno saputo della morte di Siro, o comunque non me ne ha dato sentore. Poi, improvvisamente, e non so attraverso quali canali, ho ricevuto una telefonata dalla sua casa editrice che mi annunciava l’invio del suo romanzo Nella Città del Pane e dei Postini, in cui si ricordava di noi, delle nostre cene, e ne parlava con affetto. Infine, l’anno dopo, il suo editore Alessandro Scansani mi comunicava la sua dolorosa e prematura morte, avvenuta nel 2006, per un tumore al cervello. Lasciava una giovanissima moglie e un bambino di un anno, alcuni volumi di narrativa e di critica.

Molte persone attraversano le nostre vite come meteore, alcune facendoci del bene, altre del male, altre ancora lasciandoci impressioni lievi, di tranquilla indifferenza. Ma Giorgio, nei pochi incontri che abbiamo avuto, è riuscito a regalarmi di sé un ricordo indelebile perché delicato, incapace di malignità, quasi sospeso tra realtà e pensiero. Di questo gli sono grata.

 

Opere di Giorgio Messori:

L’ultimo buco nell’acqua, racconti brevi (con Beppe Sebaste), Aelia Laelia, Reggio Emilia 1983

Nella città del pane e dei postini, Diabasis, Reggio Emilia 2007

Viaggio in un paesaggio terrestre, Diabasis, Reggio Emilia 2007 (con Vittore Fossati)

Storie invisibili e altri racconti, Diabasis, Reggio Emilia 2008

Fin dove può arrivare l’infinito, Skira, Milano 2012 (con A.C. Quintavalle)

«incroci on line», 11 febbraio 2016

 

RECENSIONI

MESSORI

GIORGIO MESSORI, IL PIANETA SUL TAVOLO. GIORGIO MORANDI E LUIGI GHIRRI. CASAGRANDE, BELLINZONA 2025.

Tre emiliani di grande spessore umano e culturale sono i protagonisti dell’(ormai museali)incontro letterario celebrato nel piccolo volume edito da Casagrande Il pianeta sul tavolo. Si tratta del pittore Giorgio Morandi (1890-1964), del fotografo Luigi Ghirri (1943-1992), dello scrittore Giorgio Messori (1955-2006). Ho conosciuto personalmente quest’ultimo nel 1985, quando per un anno è arrivato a Zurigo come supplente negli stessi corsi in cui insegnavo come dipendente del Ministero degli Esteri. Ospite qualche volta a cena da noi, io e mio marito ne avevamo apprezzato non solo i molteplici interessi intellettuali, ma anche la discrezione e la sensibilità con cui sapeva rapportarsi alle persone, pur nell’intensità dei suoi silenzi e degli sguardi. Ritrovo ora la sua gentilezza di allora in queste pagine uscite a quasi vent’anni dalla sua prematura scomparsa, che raccolgono due saggi già pubblicati nel 1992 e nel 2005, e sette fotografie di Luigi Ghirri.

Proprio con il conterraneo Ghirri, che aveva iniziato a frequentare negli anni 80, con sempre maggiore familiarità e amicizia, Messori aveva deciso di rendere omaggio al pittore bolognese Giorgio Morandi nel 1990, visitando le sue due abitazioni-atelier (ormai museali) in Via Fondazza, in centro città, e nella residenza di campagna nel paese di Grizzana, per produrre un reportage fotografico in intensa e fattiva collaborazione.

L’appartamento cittadino in cui Morandi aveva vissuto in affitto per quasi tutta la vita, insieme alla madre e tre sorelle, era sobrio e ordinato: il pittore ne occupava un’unica stanza che fungeva da camera da letto e da laboratorio, a cui accedeva da una piccola porta che lo costringeva ad abbassarsi, nel suo metro e novanta di altezza, con un movimento che suggeriva umiltà e dedizione. Davanti al letto si trovava il tavolo su cui erano disposti gli oggetti privilegiati della sua pittura: “brocche, bottiglie, tazze, scatole, vasi, barattoli, teiere”, che per il loro utilizzo quotidiano implicavano una totale confidenza dello sguardo. Materiali semplici e domestici, a cui Morandi consacrava lunghi momenti di paziente contemplazione prima di accingersi a riprodurli.

Messori dedica parole commosse al lavoro artigianale del pittore, alla sua volontà di confrontarsi con le cose, che abitano non solo lo spazio ma anche il tempo. Fedele a una vocazione all’immobilità e al silenzio, Morandi secondo Messori era un artista “che sceglie l’esercizio costante del lavoro per entrare nell’intima realtà delle cose. Il silenzio, di cui Morandi ha voluto circondare la sua vita, è quello di uno sguardo contemplativo che testimonia l’apparizione stessa del mondo, il suo costruirsi in uno spazio visibile che si forma davanti agli occhi”. Questo processo metodico di concentrazione sugli oggetti attivava sensorialmente in lui una prassi di conoscenza creativa, permettendogli di avvicinarsi alla loro enigmatica purezza e realizzando l’assenza dal sé, dal soggetto che guarda, e l’immersione estatica nella natura più intima del reale.

Messori individua nell’arte di Morandi alcune caratteristiche fondamentali: la luce, in primo luogo, che dà sostanza anche al colore, senza eclissarlo ma rendendolo più impalpabile. E poi la ripetizione di temi sempre uguali, ripresi secondo infinite modalità, “rifuggendo da un’ansiosa ricerca espressiva del nuovo, che finirebbe soltanto per ritrovare l’identico sotto le apparenze più svariate”.

Questa necessarietà “dell’esserci” intuito dalla pittura di Morandi era stata ben compresa dall’occhio fotografico di Luigi Ghirri, per il quale vedere coincideva con il fotografare, secondo “un progetto di amplificazione delle percezioni e non di una indiscriminata moltiplicazione degli oggetti”. Tale rigorosa pulizia dello sguardo accomunava la pittura di Morandi alla fotografia di Ghirri, e Messori ne offre una preziosa testimonianza nel commentare una foto che viene riprodotta anche nel volume. Il letto della casa di campagna di Grizzana “ha un solo colore, il bianco, così anche il volume e il disegno delle cose vengono dati da lievissime sfumature di bianco, che certo non cancella ma comunque fa sì che il mondo fisico degli oggetti, delle cose, quasi si smaterializzi in un soffio di luce”.

La stima e l’affetto che univa Messori a Ghirri è ben esemplificato in quanto scrive nel secondo saggio del libro: “A differenza di molti altri fotografi, Ghirri non chiudeva il mondo nell’obbiettivo di una macchina fotografica, come se il mondo fosse semplicemente qualcosa da mettere dentro un’inquadratura. Semplicemente guardava, con insaziabile curiosità, e andare in giro con lui si traduceva nell’esperienza di vedere nel mondo tante immagini che poi, solo in alcuni casi, finivano in una stampa fotografica. Perciò la cosa sorprendente ed emozionante era scoprire, attraverso di lui, quante immagini popolassero il mondo, che così finiva di essere quel tutto indistinto in cui normalmente ci muoviamo… E così è riuscito a farmi a capire, meglio di tutti, che dal mondo è anche stupido difendersi. Tanto non siamo che passanti, siamo stranieri anche alla strada che percorriamo ogni giorno”.

La sintonia con gli oggetti che Morandi e Ghirri esperivano, permetteva loro di “varcare la soglia che normalmente separa chi guarda dalla cosa guardata”, annullando la distinzione tra esteriorità e interiorità in un momento epifanico capace di restituire l’anima a ciò che è inanimato. Il tragitto poetico si risolveva per entrambi in un percorso mistico in direzione della luce, della chiarezza, dell’essenzialità ontologica.

In questi due brevi testi Giorgio Messori è riuscito a amalgamare in un’unica visione spirituale le esperienze creative di due grandi artisti, arricchendo le pagine con qualche appena accennata e pudica nota biografica, e con appropriate interpretazioni critiche di filosofi, sociologi, psicanalisti (Bateson, Bachelard, Merleau-Ponty, Fachinelli…), e con citazioni tratte da poeti e scrittori come Rilke, Kafka. Bousquet e Holan. Tra queste, la più in sintonia con il dettato del libro è forse l’affermazione ammonitrice di Cézanne: “Bisogna sbrigarsi a guardare le cose perché tutto sta scomparendo”.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 31 marzo 2025

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MESSUD

CLAIRE MESSUD, LA DONNA DEL MARTEDI’ – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2015

Claire Messud (1966), scrittrice americana nota anche in Italia per il suo romanzo di successo “I figli dell’imperatore”, in questa sua più recente pubblicazione affronta il tema dell’emigrazione politica attraverso la vicenda (minima e banale a livello personale, tormentata e drammatica se letta con l’occhio della storia del ‘900) di una ragazza ucraina, Maria Poniatowski, costretta negli anni tragici del nazismo ad emigrare in Canada.

La donna del martedì si apre con poche righe che sembrano introdurre una situazione di misteriosa violenza: Maria, governante ormai anziana, si reca come fa regolarmente da più di quarant’anni ogni martedì alle 7,55 di mattina, nell’appartamento di Mrs. Ellington, una signora novantenne, semicieca e bisbetica, per accudirla nella cura personale e domestica.
Entrando scorge con terrore una striscia di sangue che dall’ingresso segna la parete fino alla camera da letto della padrona. La quale tuttavia non è morta, sgozzata da qualche ladro o energumeno introdottosi nottetempo, ma dorme placidamente tra due cuscini. Alle insistenze della governante, Mrs. Ellington confessa di essersi distrattamente tagliata un dito la sera prima, e di aver cercato tentoni la sua camera appoggiandosi al muro, e sporcandolo senza accorgersene. Chiusa questa parentesi introduttiva piuttosto inessenziale, il romanzo prosegue narrando la vita intera di Maria Poniatowski, dall’infanzia poverissima in Ucraina, con la sua numerosa famiglia contadina, fino all’invasione tedesca e alla deportazione in Germania (dapprima come bracciante, poi come operaia), quindi alla fuga e alla liberazione, conclusasi con l’incontro e il matrimonio con un giovane polacco (Lev). I due sposi si imbarcano verso il Canada, dove lentamente riescono a crearsi una vita dignitosa, lavorando e crescendo un figlio.

Claire Messud ci racconta la storia di un’esistenza come ce ne sono tante, senza particolari trasporti emotivi o approfondimenti psicologici, descrivendo le piccole sconfitte quotidiane della famigliola, ma anche i progressi economici: il figlio che si laurea, l’ostilità della nuora, la morte di Lev, e il lavoro di governante di Maria presso Mrs.Ellington. Lavoro che si concluderà quando la signora verrà ricoverata in una casa di riposo. “Aveva l’impressione che l’unica cosa da ignorare fosse la più evidente di tutte: la fine. Bisognava assolutamente evitare – Maria aveva mentito di rado in vita sua, e non le era piaciuto – di accordarle il posto che, in ogni caso, aveva già usurpato. Maria era circondata dalla fine”.

Una narrazione piana o forse piatta, questa di Claire Messud, che accompagna la sua protagonista attraverso la registrazione degli avvenimenti in discesa che la portano a concludere una vita silenziosa, grigia, rassegnata, in un ambiente che le rimane estraneo, come i sentimenti che lo animano. Non esattamente la “storia straordinaria” che ci prometteva la nota in quarta di copertina.

 

© Riproduzione riservata  

www.sololibri.net/La-donna-del-martedi-Messud.html        27 ottobre 2016

RECENSIONI

METZ

THIERRY METZ, SULLA TAVOLA INVENTATA – EDIZIONI DEGLI ANIMALI, ROMA 2018

Di Thierry Metz sono state pubblicate poche cose in italiano. Una sorta di diario a frammenti degli ultimi mesi di vita da lui trascorsi nella clinica di Cadillac per disintossicarsi dall’alcol e guarire da una forte depressione, e ‒ lo scorso anno ‒ una scelta di versi a cura di Riccardo Corsi, per le Edizioni degli Animali. Tutte le poesie (che gli valsero il Premio Voronca nel 1988 e il Premio Froissart nel 1989) sono state raccolte nel volume Poésies (1978-1997), edito in Francia da Pierre Mainard nel 2017.

Poeta intenso e disperato, ebbe un’esistenza tormentata da difficoltà economiche e lavorative, da pesanti lutti e da problematici rapporti ambientali, acuiti dalla sua particolare fragilità emotiva. Nato a Parigi nel 1956, sposatosi ventenne con una compagna di scuola da cui ebbe tre figli, si trasferì nei dintorni di Agen, sulle rive della Garonna. Qui trascorse un breve periodo di serenità, presto funestato dalla morte del secondogenito Vincent, a otto anni schiacciato da un’automobile davanti ai suoi occhi. Per mantenere la famiglia, lavorava saltuariamente come muratore e sterratore, e da questa faticosa esperienza trasse materiale per un volume edito da Gallimard nel 1990, Il diario di un manovale, in cui narrava senza retorica o autocompatimenti la quotidianità della vita in un cantiere edilizio. La sua dipendenza dall’alcol, gli improvvisi accessi di aggressività, il dolore per la morte del suo bambino lo condussero a reiterati ricoveri in ospedali psichiatrici e a pesanti trattamenti farmaceutici, che lo portarono a suicidarsi poco più che quarantenne.

L’uomo che pende (Via del Vento, Pistoia 2001) è una raccolta di un centinaio di piccoli brani narrativi (riflessioni, illuminazioni poetiche, descrizioni di luoghi e personaggi), appuntati tra la fine del 1996 e l’inizio del 1997, durante il suo ricovero al centro ospedaliero di Cadillac, nel padiglione Charcot. Metz racconta in uno stile sobrio e quasi documentaristico la sua degenza tra medici, infermieri, malati psichici impegnati in diverse maniere al recupero di una parvenza di vita sana e socialmente reintegrata. Con questo proponimento apre il suo diario: “È l’alcol. Sono qui per svezzarmi, ridiventare un uomo di acqua e di tè. Considero i giorni che vengono con tranquillità, da lontano, ma attento. Devo uccidere qualcuno dentro di me, anche se non sono troppo sicuro di farcela. Tutta la questione è di non perdere il filo. Di legarlo a ciò che si è, a ciò che sono, scrivendo”. Consapevole della problematicità della disintossicazione, registra i suoi fallimenti, le ricadute, le paure: “Lentezza, confusione talvolta, dovute al trattamento che ricevo. Ne ho coscienza come un tuffatore o un alpinista. E ne ho bisogno. Mi sbarazzo di un’ebbrezza con un’altra, di una morte con un’altra morte, del vuoto con il vuoto. La mia voce contraddetta non passa, per il momento, che attraverso queste vie contrastate d’eclissi”. E ancora: “Ogni parola mi affanna”. Registra amaramente lo scandire di ore tutte uguali, tutte sorvegliate e amorfe: “Ogni mattina è l’inventario, il giro delle camere. Ci si saluta, si cambiano le lenzuola, le fodere, danno del decoroso e del pulito. Si rifà il letto. L’erba cresce, gli uccelli passano ma tutto quello che è detto non offre alcun passaggio. Allora si aspetta il caffè e il pane davanti a una porta. Solo gli orologi hanno il tempo di avere tempo”. La sua consapevolezza del baratro in cui sta per precipitare rimane lucida, disincantata, come la cognizione filosofica dell’irriducibilità del reale all’espressione verbale: “Il linguaggio non ha senza dubbio d’accessibile che l’indicibile. E l’indecifrabile. L’accesso non è dentro né fuori. Introvabile e tuttavia qui. L’impercettibile è la nostra sorridente complicità”. Si ucciderà a Bordeaux il 16 aprile del 1997.

I versi antologizzati nell’elegante volumetto Sulla tavola inventata risalgono all’inverno 1986-1987, e ancora riflettono sprazzi di luminosa e innocente grazia, per quanto presaghi a volte di una minaccia futura. Vibrano di una reiterata invocazione, rivolta a sé stesso o a un imprecisato “Uomo”, presenza amicale o angelica, promessa di soccorso solidale e salvezza: “Guarda”, ripetono, ed è un invito celaniano (“Smetti di leggere, guarda!”), a schiudersi verso un fuori benefico, positivo, aperto.
Il fuori verdeggiante di alberi e prati, il cielo attraversato dal volo di uccelli (ghiandaie, pettirossi, merli): osservandolo il poeta dimentica noia e delusioni (“che importa questo / io”), nell’attesa di una qualsiasi epifania, sia essa parola, incontro, amore. O magari una “tavola inventata” intorno a cui sedersi, cercando una comunicazione fraterna, non intellettuale, non libresca: “Scrivi / non nella scrittura / ma nell’intimità del pozzo / dove il più chiaro si nasconde”, “Poche parole per raggiungerti / ma ascolta: / se non hai niente da dire allo storno / alla ghiandaia / perché discutere con la sentinella / che ha fatto il nido / nel libro”, “Vecchia orsa minore / vieni a vedere: / sorge un giardino / nel respiro dell’albero / è questo il luogo / dove uomo e uccello / si meravigliano”. Una pagina interrotta, quella di Thierry Metz, che con le sue grandi mani da campione di sollevamento pesi, ruvide mani di muratore, sapeva scrivere con delicatezza di foglie, di ali, di speranze negate.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 7 febbraio 2019

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