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RECENSIONI

MOSER

SABINA MOSER, UNA SANTITÀ GENIALE – LE LETTERE, FIRENZE 2024

Sabina Moser (1961), di formazione filosofica e teologica, studia da tempo la figura di Simone Weil, su cui ha pubblicato diversi saggi e volumi. Questo suo ultimo testo, uscito da Le Lettere con prefazione di Marco Vannini, esplora in maniera finora inedita il legame che ha unito la filosofa ebrea francese (1911-1934) a San Francesco, accostando la ricerca severamente razionale di lei, originale pensatrice laica novecentesca, alla fede immediata e limpida del frate di Assisi vissuto sette secoli prima: in entrambi ritroviamo infatti la stessa volontà di adesione alla parola di Gesù e la scelta di un cammino esistenziale di purificazione e riduzione all’essenzialità della vita.

Weil aveva un approccio illuminista alla storia delle religioni, ed era fortemente polemica nei confronti dell’autorità ecclesiastica, Francesco aderiva totalmente al dettato delle Scritture, alla rivelazione cristiana e alla sacralità della Chiesa. Ma pur non conoscendo nello specifico il movimento francescano, Weil aveva provato relativamente a esso una forte attrazione emotiva durante un viaggio in Italia, e così ne scriveva: “Nel 1937 ho trascorso ad Assisi due giorni meravigliosi. Là, mentre ero sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato tanto spesso, qualcosa più forte di me mi ha costretta, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi”.

Francesco come alter Christus le sembrava incarnare il massimo esempio di vita evangelica, caratterizzato non solo dal rapporto interiore tra l’anima e Dio, ma anche dal profondo desiderio di rinnovare positivamente la comunità umana, attraverso la condivisione degli stessi ideali trasformativi, che nella sua introduzione il Professor Vannini identifica in povertà, umiltà, obbedienza, amicizia fraterna, accettazione della sofferenza, rinuncia a sé stessi, apertura gioiosa alla bellezza del mondo.

Sabina Moser nei cinque capitoli di Una santità geniale (accompagnati da un’appendice con accurate note biografiche, letture di brani originali e un’essenziale bibliografia attinente alle figure dei due protagonisti) sottolinea i tratti caratteriali, intellettuali e di fede che accomunavano o distinguevano Weil e Francesco, entrambi segnati da un’uguale e coerente dedizione alla parola evangelica, seppure nelle sostanziali differenze. Tra queste, prendendo a prestito il titolo di un noto testo della filosofa francese – La Pesanteur et la Grâce –, la gravità che contraddistingueva la ricerca approfondita, colta e tormentata di lei, discordava dalla leggerezza e dalla “perfetta letizia” attraverso cui il santo di Assisi rispondeva al richiamo divino.

La comune aspirazione alla spiritualità che li induceva a una spoliazione dei beni materiali aveva in loro modalità contrapposte: se Francesco aveva scelto di abbracciare positivamente una vita povera e peregrina attraverso una decisione personale e volontaria, Simone riteneva giusto attendere che fossero circostanze costrittive a ridurla in indigenza, abbandonandosi in tal modo alla sola volontà di Dio e rinunciando a imporre il proprio desiderio egoista, convinta che “dire io è mentire”.

Così infatti si esprimeva a questo riguardo: “Sono stata conquistata da san Francesco fin da quando ne ebbi conoscenza… Ho sempre creduto e sperato che la sorte un giorno mi avrebbe spinta a forza in quella condizione di vagabondaggio e mendicità che egli accettò liberamente… Sin dall’adolescenza ambivo al matrimonio di San Francesco con la povertà, ma sentivo che non dovevo essere io a darmi la pena di sposarla, perché un giorno lei stessa sarebbe venuta a prendermi a viva forza”.

Inoltre, non li animava un’uguale visione della fede: se l’assisiate coglieva l’aspetto personale della Provvidenza, Weil ne sottolineava l’impersonalismo, inteso come accettazione della volontà di Dio subìta e non intenzionalmente scelta, in ciò proponendo un’interpretazione stoica della rivelazione cristiana, basata sull’umiltà e la totale obbedienza, in grado di svuotare pensieri e azioni, sottraendoli a ogni imposizione soggettiva. Un’ulteriore difformità caratterizzava le loro esperienze di vita: Francesco diffidava della cultura e della scienza, ritenendole pericolosamente seduttrici e manipolatorie, lontane dalla semplicità e dallo spirito di carità. Simone al contrario era permeata di ogni sapere, conosceva a perfezione diverse lingue moderne e antiche, compreso il sanscrito; era consapevole delle ultime conquiste della fisica e della matematica; penetrava con acume critico sia le sacre scritture sia la filosofia, l’arte e la letteratura greca, con una predilezione particolare verso l’Iliade, e non le era estranea la sapienza orientale.

Cosa tuttavia accomunava queste due figure portatrici di una spiritualità luminosa e radicale, nonostante le evidenti diversità storiche, culturali e caratteriali?

Sabina Moser individua numerosi elementi che permettono di rilevare una consonanza effettiva nel loro agire e pensare, aldilà dei secoli di storia che li dividevano. Entrambi morti in giovane età (Francesco a 44, Simone a 34 anni) consunti dall’inedia, dai sacrifici e dalle malattie, erano attratti dal miracolo della bellezza, ovunque essa si esprimesse. Il primo aveva trovato in gioventù nell’ideale cavalleresco un modello di aristocratica cortesia, liberalità e coraggio disinteressato, che dopo la conversione mantenne depurandolo da ogni materialità nella difesa ammirata della magnificenza del creato e di tutte le creature. Simone era affascinata dalla purezza e armonia espressa dall’arte classica, risultato della perfetta concordanza tra l’elemento sensibile e quello ideale, in grado di volgere l’anima verso l’alto: “La bellezza è veramente, come dice Platone, una incarnazione di Dio”.

Altro fattore che metteva in relazione i due era la comune, profonda disposizione all’imitazione di Cristo, esempio di povertà, umiltà, pazienza, giustizia, compassione e carità cui conformare la propria vita. Un Christus patiens, della Passione e della Crocefissione, definito dalla kénosis (cfr. Fil 2,6-11), cioè dallo svuotamento di ogni forza, potenza e imperiosità, che Francesco intendeva come positivo atto di amore verso le creature, mentre Simone in maniera più radicale indicava come mortificazione, nullificazione dell’io: “per diventare qualcosa di divino, non ho bisogno di uscire dalla mia miseria, vi debbo solo aderire… È al fondo estremo della mia miseria che io tocco Dio”.

Moser si sofferma sul complesso concetto weiliano di de-creazione, processo grazie al quale il nostro io, sparendo, distruggendosi, astenendosi dall’affermarsi nel mondo, scorge un dio che per amore ha abdicato egli stesso alla forza, rinunciando all’onnipotenza, e facendosi uomo ha accettato di scomparire per fare posto a noi creature: “Dio non ha potuto creare che nascondendosi. Altrimenti non ci sarebbe che lui”.

Francesco e Simone hanno entrambi compreso di essere stati chiamati a trasformare, nel segno dell’autentica fede cristiana, il modo di vivere della società in cui erano immersi, rinnovandola alla radice.  La loro santità è consistita nell’operare affinché il mondo fosse prossimo al regno di Dio, promuovendo sentimenti di fratellanza, amicizia e pace, aprendosi alla grazia e alla trascendenza.

Rileggerli oggi significa constatare la necessità di un cristianesimo completamente rinnovato, come auspicava Weil: “Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti […] Un nuovo tipo di santità è qualcosa che scaturisce d’improvviso, una invenzione […] Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fisica: una santità nuova è un’invenzione più prodigiosa […] Il mondo ha bisogno di santi che abbiano genio come una città dove infierisce la peste ha bisogno di medici”.

 

 

RECENSIONI

MOSES

EMMANUEL MOSES, OSCURO COME IL TEMPO – MOLESINI, VENEZIA 2022

Oscuro come il tempo, di Emmanuel Moses, è un libro-scrigno, ricco di tanti materiali diversi: oggetti, paesaggi, facce, voci, colori. Gode dell’atmosfera nordafricana e mediorientale, solare e speziata, da cui l’autore proviene, e insieme della sottile ironia e feroce abilità introspettiva della cultura francese che ha nutrito i suoi anni più maturi. Nato a Casablanca nel 1959 da una famiglia di intellettuali e artisti cosmopoliti e poliglotti (il padre era il filosofo franco-israeliano Stéfane Mosès, la madre la pittrice Liliane Klapisch, nipote dello scrittore tedesco Heinrich Kurtzig), a dieci anni si trasferì a Gerusalemme, dove si laureò in storia, e dal 1986 vive e lavora a Parigi. Ha pubblicato una trentina di pluripremiati volumi di poesia e narrativa, ed è ricercato traduttore dall’ebraico moderno.

Questa vivace duttilità di esperienze personali ben si rispecchia nella forma e nei contenuti dei suoi versi, che variano dalla struttura facile del motivo musicale ai toni più meditativi della riflessione filosofica, dalla saggezza dei proverbi arabi allo scherno contro ogni conformismo.

Sembra di intuire in Emmanuel Moses una predisposizione a giostrarsi tra gli opposti, tra l’adesione e il rifiuto dei sentimenti, delle ideologie, dei panorami in cui si immerge, attratto sia dalla realtà che dall’irrealtà, come suggerisce il titolo della prima composizione antologizzata. L’amore, ad esempio, che è uno dei temi più presenti nel libro, è raccontato nell’esaltazione del suo manifestarsi, nel fiero irrobustirsi della passione, per arrivare poi al disincanto amaro e fatalistico del tradimento, della stanchezza, dell’abbandono: “In cammino con gli uccelli migratori /  In viaggio con te, amore mio / Sulla strada verso di te / Sulla strada, mia fuggiasca con le guance rosa”, “La musica accompagna l’amore / Dio ama gli uomini / Io ti amo con grazia danzante”, “Il mio amore capisce così bene il mio silenzio / Che capirà anche queste parole autunnali”, “Il desiderio, l’amore, il sospetto, l’odio / Sono il linguaggio che parleranno sempre meglio // … Prima di spingere di nuovo la porta di casa / Devastati dal silenzio”. Alla stessa maniera il rapporto con la natura e l’ambiente urbano affascina e intimorisce, seduttivo e inquietante nel suo febbrile manifestarsi.

La scrittura risulta evocativa e rigogliosa, talvolta al limite della retorica, in un lirismo che può ricordare Prévert ma subito si corregge con una sterzata canzonatoria e pudica, scegliendo una cadenza narrativa e quietamente descrittiva. L’andamento colloquiale sfora inaspettatamente nella visionarietà più immaginosa, il sarcasmo nella devozione, la prosaicità nel sublime, mantenendo però una costante uniformità e coerenza formale, ed esibendo una particolare acutezza nelle spiazzanti metafore.

Nella nota finale, Moses afferma di aver composto la raccolta (uscita in Francia nel 2014) seguendo un percorso eccentrico, “al culmine della coscienza, evitando la coscienza”, in una lotta che ambisce a sottrarre al “Tempo-Caino” ricordi ed emozioni, oscillanti tra l’eternità e “il ritmo discontinuo, caotico, delle ore grigie” quotidiane. Solo la poesia può resistere al dissolvimento, con la sua forza mite che l’autore non riesce a definire, quando gli si chiede cosa sia: “Ma prima di tutto c’è la poesia, più misteriosa, più incandescente, più aspra ancora // La poesia continua là il suo viaggio / Galleggia / Hai mai visto una poesia fare naufragio?” Essa si oppone allo scorrere implacabile dell’esistenza, e alla morte odiosa (“Possa la luce respirare ancora / Possa il giorno continuare a riversarsi sui campi”).

La concretezza della vita viene celebrata attraverso la concretezza degli oggetti: una finestra, un muro, la cucina, un carciofo, la sigaretta (pantheon dei poeti!), a cui viene dedicata un’ode spiritosa e riconoscente. Eppure, anche nel glorificare l’esistente, il poeta è assillato da fosche previsioni sul futuro: “Quando non ci sarà più la banchisa dove nascondere gli orsi bianchi, loro cosa faranno? / Quando la metà delle isole sarà scomparsa, con le loro vecchie città costiere coloniali / Cosa faranno?”, “Cosa succede alle cassette postali delle case demolite?”

Se il tempo si fa oscuro, Moses si aggrappa all’illusione di un dio vicino e benevolo, a cui rivolge una laicissima e panica Preghiera: “Dio della pioggerella e della terra sonora / Dacci la forza di attraversare i giorni infausti / Dio degli uccelli esotici e dei fiori stupefacenti / Dacci la gioia del sole che cola nel groviglio dei rami / Dio della linfa e della nebbia / Dacci la dolcezza sensuale e la malinconica dolcezza / Delle stagioni che passano”.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei Libri del Mese» n. VII, luglio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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MOTTA-PUSTERLA

ELISABETTA MOTTA-FABIO PUSTERLA, COLORI IN FUGA – LA VITA FELICE, MILANO 2011

Un modo decisamente particolare,e originale, di avvicinarsi alla poesia di Fabio Pusterla, attraversandola tutta, dalle origini agli esiti più recenti: Elisabetta Motta scandaglia la produzione del poeta ticinese attraverso le tracce lasciate nei suoi versi dai colori,dalla luce,dall’ombra e dal buio che, come afferma l’autore “non possono sottrarsi al significato simbolico e morale che si è su di loro cristallizzato nella storia umana”. Quindi l’azzurro e il verde richiamano la vitalità e il dinamismo della natura, il bianco la luminosità e il rigore dei paesaggi invernali elvetici, il rosso e il giallo il calore e la passionalità, il grigio nelle sue varie sfumature la trasparenza o l’oppressione, il nero ovviamente la morte e il lutto, il contrasto e il silenzio. “Colori in fuga” che si inseguono nel mondo cromatico di Pusterla, che li ritiene importanti per penetrare nella comprensione della sua scrittura: “Esistono nella loro complessità, talvolta nella loro lotta serrata; e forse manifestano ai miei occhi la sfuggente, bellissima e terribile contradditorietà del nostro esistere”. Attraverso l’individuazione e l’analisi dell’utilizzo dei colori nei versi del poeta, Elisabetta Motta enuclea i temi fondanti e ricorrenti del suo corpus letterario: aderenza alla poetica degli oggetti, conservazione della memoria, resistenza all’omologazione, accettazione del disagio del vivere, recupero del dialogo tra l’io e il mondo, attenzione all’aspetto psicologizzante o metaforico del paesaggio, riflessione sulla morte e sulla violenza della storia, partecipazione al reale nella sua quotidianità, denuncia ecologica. Una poesia degli affetti,inoltre, che sa farsi coscienza civile e partecipe al destino di ciascuno e di tutti, anche attraverso la frequentazione assidua di nomi fondamentali della letteratura e dell’arte, come testimoniano i sei saggi finali dello stesso Pusterla, che cita pittori, scrittori e fotografi rivisitati con percettiva e acuta sensibilità.

IBS, 17 luglio 2011

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MOZZI

GIULIO MOZZI, LA STANZA DEGLI ANIMALI – :due punti, PALERMO 2010

La casa editrice Duepunti di Palermo pubblica questo libriccino, scarno e terribile, di Giulio Mozzi nelle sua collana “Zoo, scritture animali”. Ma gli animali di cui parla lo scrittore padovano sembrano in realtà un pretesto (mortifero, ossessionante, da incubo) perché in realtà perno vero del racconto è la stanza che li raccoglie e li conserva, li protegge e nasconde. Gli animali sono infatti piccoli pesci, granchi, meduse, spugne, vermi, conchiglie: quasi sfatti o putrefatti in vasi di vetro incrostati e colmi di formalina puzzolente, il cui odore asfissiante ammorba il giardino e la casa che ospita questa stanza. Un ripostiglio buio, senza finestre, arredato con scaffali di metallo sopra cui il padre del protagonista -scienziato e sommozzatore- allineava i suoi barattoli con le prede conquistate durante i suoi avventurosi viaggi in giro per il mondo. “Questi sono gli animali. Questi sono i miei ricordi”: memorie che si alterano in allucinazioni, si trasformano in tormentose angosce. Perchè “nella stanza degli animali, il 17 giugno del 1994, venerdì” avvenne la tragica violenza familiare, inspiegabile e volutamente non motivata, che arrivò a spezzare in due la vita del protagonista. La casa fu venduta a parenti, la stanza degli animali svuotata, ripulita e imbiancata. Non così si può fare con i ricordi, con l’anima: “io sono vivo data l’impossibilità di morire, tutto ciò che vive dentro la mia mente è morto, tutto ciò che è dentro la mia mente non può morire”. Il figlio va a trovare il padre in carcere, gli porta ogni volta qualcosa, elencando con puntigliosa tristezza i suoi fragili e non consolanti doni; il padre tace, o ripete una litania senza senso, come una giaculatoria: “C’era e non c’è la rosa”. Realtà e sogno, esistenza e morte, pazzia e speranza di salvezza (e di perdono) si confondono, nei versi malinconici e delicati che chiudono con un rondò questa alta prova di scrittura, asciutta e straziante.

IBS, 27 settembre 2011

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MUELLER

HERTA MÜLLER, ESSERE O NON ESSERE ION – TRANSEUROPA, MASSA 2012

Essere o non essere Ion è il primo libro di versi che Herta Müller ha scritto in romeno, lingua del suo paese natale, ma non lingua materna – che invece è stata il tedesco. Lingua dell’oppressione e della persecuzione, lingua del sistema poliziesco che la costrinse all’esilio nell’87, e che qui la scrittrice premio Nobel nel 2009 recupera con una intelligente e ironica operazione di straniamento, di destrutturazione, di burlesco mascheramento. Un volume spiazzante e giocoso, questo proposto da Transeuropa, in cui ad ogni poesia tradotta in italiano da Bruno Mazzoni fa da specchio una pagina coloratissima di collage originali della stessa Műller, ottenuti utilizzando ritagli di riviste e giornali, graficamente eterogenei, che ripropongono gli stessi versi in romeno. Poesie sospese tra un andamento narrativo e colloquiale, fiabesco o sarcastico: vaporose e insieme concretissime, che assumono di volta in volta l’inconsistenza o la vivacità delle associazioni estemporanee e inconsce, di automatismi-lapsus-collegamenti onirici, di dialoghi stralunati tra personaggi improbabili, inventati o reali. La voce poetante è a volte maschile a volte femminile, può essere o non essere Ion, o qualsiasi altro protagonista; si affastellano i nomi più diversi: Ernest, Oskar, Liliana, Grigore, Mircea, Otilia, Bogdan… E le figure più comiche, strampalate, tragiche, patetiche di un immaginario teatrino dell’assurdo che tanto ricorda Ionesco: «una zia che aveva il singhiozzo e un odore sgradevole», «una vedova / sorda e magnetica con un debole per le bietole», «un uomo pelato come una rapa, ha / una gamba grigia di legno, che scricchiola appena, e / caligine nella mente, ma oro nei denti», «una dama / (con bigodini nei capelli, il rossetto arancione)». Anche i numerosi animali sembrano balzare fuori da un inverosimile paese delle meraviglie: «i cani con / lo zufolo di cera», «anatre selvatiche con tatuaggi / da creatura umana», «una capra da trasporto / pelle e ossa», «mosche a decine… hanno problemi psichici», «due canarini / uno rapato e l’altro abbacchiato», «una pecora stregata che cantava un blues». E poi tarme, oche, topi, cuculi, zanzare, volpi, gatti: un vero zoo urbano, in un paesaggio fitto di treni e autobus, di dogane e fabbriche dismesse, dove le coordinate si intrecciano, le direzioni si confondono, mancano i punti di riferimento e ogni contorno appare sfumato, sballato, sconcentrato («all’angolo della bocca / molto in alto / o in terra», «non aveva la benché minima idea / dove fosse la macelleria»). Insomma, la poetessa ammette quasi gioiosamente la sua confusa percezione dell’esistente: «che una certa sensibilità al bailamme ce l’abbia», evidente nei dialoghi smozzicati e straniti: «Te l’ho detto / ahò, che mi fa male / persino un po’ / il basilico», «Oplà!, / la cosa si fa seria / cocco mio», «mi ha chiesto Mihai: / -ce l’hai? / Non ce l’ho, gli ho detto, / dai su, mangiamo». E nelle conclusioni che non concludono, che rimangono sospese e stupite a interrogarsi: «farei la stessa cosa / che semplicemente farei, / avete afferrato l’idea, non è così», «secondo me / ciò che si può / non è escluso». Eppure, al di là di questo ritmo narrativo veloce e quasi ansimante, assolutamente privo di punti fermi, e con scarsi segni di interpunzione, qua e là si intuiscono tremori non vinti, assilli di violenze subite e mai perdonate, ironie feroci contro il potere burocratico e militare più ottuso, che possono ricordare gli sbeffeggi di Shostakovich parodianti il sistema staliniano: «ciò che faccio è vietato», «Però quando lo sono, lo sono! Di- / ciamolo pure, colpevole», «anche questi pestati a sangue / domani avranno delle sigarette», «Il signor colonnello non è più ciò che è», «questi, oplà, come ben sappiamo poiché è scritto nel / rapporto sulla produzione, ti avrebbero pappata / tutta intera»: a ricordarci che anche sotto le sembianze del gioco, del sorriso, del sogno, la poesia può continuare ad essere qualcosa di tremendamente serio, e pericoloso.

 

«Leggendaria» n.99,  marzo 2013

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MUELLER

HERTA MÜLLER, IL RE S’INCHINA E UCCIDE – KELLER, ROVERETO 2011

Dopo Il paese delle prugne verdi esce da Keller questo secondo testo di Herta Müller, premio Nobel 2009. Il volume dal titolo allusivo comprende due scritti: racconti o meditazioni, autobiografia e critica letteraria e sociale insieme. Herta Mueller, nata nel 53 in Romania, ma in un villaggio di lingua tedesca, cresce tra umili lavori dei campi, dolorosa vita familiare – con una madre succube del padre alcolizzato-, macabre visite ai morti del paese, profondi silenzi e più profonde riflessioni. Sul mondo che la circonda e quello a cui aspira, ma soprattutto sul rapporto che unisce il pensiero alla parola, nella sua vita di bambina e di adolescente costretta al bilinguismo: “Finora ho pensato molte cose senza ricorrere alla parole, non ne ho trovate nel tedesco del villaggio, e neppure nel tedesco di città, nel rumeno… e in nessun libro… Cosa può fare il parlare? Quando gran parte della vita non quadra più, anche le parole vanno a fondo”. Trasferitasi dalla campagna in città nella Romania di Ceausescu, conosce la violenza della polizia comunista quando inizia a scrivere e a opporre al potere una tenace e silenziosa resistenza. Allora il Re del gioco degli scacchi di suo nonno diventa metafora di violenza e sopraffazione, incubo e terrore, inquisizione e assolutismo. La scrittrice ne fa un simbolo di morte, a cui opporsi con dignità:”E’ un re di stato…mette in scena la morte inflitta come fosse un suicidio…lo si sa, ma quel che succede ogni giorno non lo si può provare…Quando barcolla si pensa che s’inchini, ma lui s’inchina e uccide.” Questo Re dell’ingiustizia e della persecuzione segue la scrittrice ovunque, assume la dimensione di tutte le cose incomprensibili e terrificanti con cui ha a che fare, anche quando riesce a trasferirsi in Germania. La letteratura,allora, la parola scritta e letta,sua o di amici intellettuali, può diventare un’ancora di salvezza, cui aggrapparsi per dissentire e resistere, per proclamare la propria dignità di essere umano assetato di libertà.

IBS, 29 maggio 2011

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MULLER-COLARD

MARION MULLER-COLARD, COME FUNAMBOLI – QIQAJON, BOSE 2025

Una lunga lettera d’amore (inteso non come passione, ma nel senso più esteso – di benevolenza, premura e delicatezza –, che i greci definivano filìa o agàpe) quella che Marion Muller-Colard indirizza a Jeanne, la figlia neonata di un’amica carissima morta di cancro pochi mesi dopo il parto. Una lettera che si rivela testimonianza di fede, non solo in termini cristiani, bensì di fiducia e apertura verso l’esistenza, così come può venire esperita anche dai laici, dagli agnostici, dagli atei. Marion Muller-Colard (Marsiglia 1978) è teologa protestante e scrittrice. Autrice di numerosi saggi e romanzi, ha fatto parte della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella chiesa e dal 2017 è membro del Comitato consultivo nazionale di etica.

Come funamboli è il titolo con cui le edizioni Qiqajon presentano il testo, a indicare la particolare e vertiginosa condizione umana, in equilibrio perenne tra i due momenti basilari e imprescindibili della vita e della morte. La fune su cui gli acrobati volteggiano, lontani dall’appoggio sicuro del terreno e sospesi nell’alto, privi di una rete di protezione, diventa evidente metafora dello stare umano, costantemente in bilico nei momenti decisivi di ogni scelta, azione, pensiero, sentimento. L’epigrafe di Friedrich Hölderlin, “Dove è il pericolo, cresce /anche ciò che dà salvezza”, bene esprime l’ambivalenza della corda tesa tra minaccia e riparo, rischio e difesa, su cui ciascuno di noi si muove.

A Jeanne, bambina che non avrà vicino la propria madre, che non potrà nemmeno ricordarne il viso e la voce, Muller-Colard non rivolge parole di retorica consolazione, né di impietosita compassione, ma di forza e incoraggiamento, addirittura di composta serenità.

Osservando la foto della puerpera e della piccola appena nata, l’autrice intuisce “il segno d’una vulnerabilità piena e raccolta”, su cui aleggia la luminosità dell’evento miracoloso che le ha viste protagoniste, insieme all’ombra che oscura l’inizio e la fine del loro rapporto.

Nell’arco di un anno, la vita della sua giovane amica era stata attraversata da avvenimenti turbinosi, felici e tragici: un matrimonio intensamente desiderato e festoso, seguito subito dopo dalla diagnosi di un tumore incurabile, e infine la nascita di Jeanne. Dodici mesi in cui il tempo è stato misurato da tutti i protagonisti nella sua profondità, più che nella lunghezza, vissuto e percepito come un susseguirsi di attimi nel presente, mentre il futuro assumeva contorni bui. “Tua madre ha il coraggio di rivolgere la parola all’ignoto. E l’ignoto le risponde”, scrive alla bimba, augurandole la stessa generosa fierezza materna.

Quando non si riesce a fornire una giustificazione a una condanna immeritata, si dovrebbe rinunciare a porsi domande, e accontentarsi di rimanere al livello delle sensazioni, imparare a godere di ogni istante di bellezza, riconoscendo nel proprio essere vulnerabili la possibilità di una risorsa. Rinunciare ai “perché”, preferendo i “come”.

La teologa Isabella Guanzini nella prefazione al volume afferma: “Chi deve presto morire mostra ai vivi come si può vivere: ossia come funamboli amanti della propria incertezza, con lo sguardo dritto, la percezione del proprio corpo fino alle punte delle dita e moltissimo affetto per i vivi che ci sono dati, di tutte le generazioni”.

L’imprevedibilità della sorte che ci aspetta provoca ovviamente timore, ma indica anche una possibilità: l’ignoto presuppone sempre un “forse”, un “poter-essere”, e il confronto con la nostra finitudine apre  tuttavia alla grazia di una nascita, di “un’irruzione pugnace e inaspettata della vita”.

Quando Marion Muller-Colard chiedeva all’amica malata come stesse, lei rispondeva “In trasformazione”, oppure “Così è”, riferendosi alla realtà del momento presente che dura senza durata, del kairós (istante) che vince sul chrónos (tempo). E scrivendo alla bambina che avrebbe letto la lettera una volta cresciuta, così conclude: “Tua madre è morta quattro settimane dopo il tuo battesimo, Jeanne… La sua vita è passata nelle nostre, per dirla con le parole di Rilke. È passata nella tua. Questo, lungi dall’incatenarti, ti renda infinitamente libera, Jeanne”.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 29 marzo 2025

 

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MURAKAMI

RYU MURAKAMI, BLU QUASI TRASPARENTE – RIZZOLI, MILANO 1993

Ciò che sappiamo dei giapponesi si riduce forse a una serie di luoghi comuni che fanno il paio con quanto si dice nel mondo di noi italiani. Piccoli, dai capelli lisci e neri, dalle gambe storte; lavoratori fanatici, propensi allo spionaggio industriale e al turismo intruppato, potenzialmente inclini al suicidio. Sospettiamo in loro faziosi accanimenti e tragiche esaltazioni, di cui ci riconosciamo, noi latini, paciosamente incapaci; li reputiamo più accaniti di noi in tutto, nella finanza, nella tecnica, persino nell’arte. Chi ama Jukio Mishima sa quali livelli di drammatica morbosità, mescolata a meditata epicità, sappia arrivare la loro letteratura. Spietati nell’autoanalisi (e cosa ci si potrebbe aspettare da un popolo che usa cinque sillabe per scrivere il pronome “io”? Wa-ta-ku-shi-wa!), paiono altrettanto inesorabili nella rigidezza verso l’altro. Ma ecco che può bastare un romanzo – provocatorio, inatteso e veloce come un pugno a tradimento – a ribaltare tutti i nostri pregiudizi, a metterci di fronte a un universo sconosciuto e insospettabile, in qualche modo addirittura temibile. Blu quasi trasparente  è l’opera prima di Ryu Murakami, tradotta e pubblicata da Rizzoli a vent’anni dalla sua contestata apparizione, quando il giovanissimo e trasgressivo autore era stato insignito del prestigioso premio Akutagawa, inneggiante al romanzo nuovo e scandaloso, polemicamente ostile all’immagine ufficiale e patinata dell’Impero Nipponico.
Protagonista del libro è un gruppo di giovani di cui si sa poco o niente: li si può supporre studenti, impiegati o artisti, anche se nella vicenda non si parla né di università, né di uffici, né di mostre. I giovani – tra i quali il narratore ha lo stesso nome dell’autore, Ryu, quasi ad autorizzare a ritenere il racconto autobiografico-, sembrano dediti a poche, ripetitive, ossessive attività: droga, sesso, musica. Droga a fiumi, in siringhe passate di vena in vena, o in pillole sciolte in misture micidiali, incubi e allucinazioni percorsi dall’autore in uno stravolto delirio di abbagli visivi e sonori. Sesso meccanico e violento, per lo più di gruppo e angoscioso, descritto con analitica asetticità e un’attenzione maniacale a umori, sudori e liquami vari, con una particolare predilezione per il vomito, in ogni sua forma e variante. Musica sparata a tutto volume da stereo o stadi, sottofondo indispensabile a qualsiasi vicenda riguardi la generazione viziata e incolpevole del «rock and fuck»: J.Hendrix, Led Zeppelin, Door, Rolling Stones costituiscono il leit motiv di queste pagine, e forse il solo riferimento temporale, l’unico ancoraggio ai corrosivi anni ’70 in cui sono ambientate. Il romanzo è infatti abissalmente lontano da ogni storicizzazione, da ogni ambientazione geografica. E’ un Giappone privo di qualsiasi eredità orientale – di pensiero, di immagine o di civiltà – e invece inaspettatamente vicino ai sobborghi delle grandi metropoli occidentali. I suoi protagonisti appartengono a una realtà multietnica (coreani e africani, americani e irlandesi convivono senza differenziarsi in niente) di auto-emarginazione, di polemica e disperata contrapposizione a una cultura non più riconosciuta come tale. Avevamo, vent’anni fa, visto film sullo stesso argomento (Trash, ad esempio, che aveva fatto epoca), letto libri underground di cui ci è rimasto poco, se non vaghe sensazioni di malessere, e la constatazione che oggi tutto questo è stato spazzato via, non è approdato a nulla. E ora, Blu quasi trasparente arriva a insinuarci il sospetto che se il nuovo Oriente è così, se la giovane letteratura giapponese si è tanto e tristemente omogeneizzata, meglio Mishima, Tanizaki, Kawabata: sono più immaginosi, più sensuali, più lirici del documentarista Murakami e dei suoi spietati reportages.

 

«L’Arena», 12 agosto 1993

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MURGIA

MICHELA MURGIA, L’INCONTRO – EINAUDI, TORINO 2012

Michela Murgia torna con questo romanzo alla sua Cabras natale, qui anagrammata in Crabas, «cittadina di novemila anime», che vive «di un respiro comune ritmato dal suono delle campane», in cui l’esistenza, continua «con balsamica noncuranza», in equilibrio tra tradizioni millenarie e ansie di modernità, animata da «una fede popolare in cui malocchio e rosario convivevano senza contraddizione». Qui passa le sue estati il bambino Maurizio, ospite dei nonni che lo accolgono con rustica amorevolezza: alla fine della scuola i genitori, operai in città, confondono il loro unico figlio tra i «ragazzini ossuti e bruni con qualcosa di rapace negli occhi», a giocare sulla strada partecipando di «una comunità infantile sbilenca e provvisoria». «È così’ che si diventa davvero fratelli a Crabas»: condividendo avventure nei campi e in battaglie navali sullo stagno, partecipando alle feste parrocchiali e alle sagre, ascoltando le storie di fantasmi raccontate dai vecchi seduti di sera all’esterno delle case. In paese bisogna fare i conti con il “noi”, poiché «tutti parlavano di sé al plurale con la ronzante fluidità di uno sciame d’api intorno all’alveare». Maurizio impara a intessere relazioni con gli altri, soprattutto vivendo in simbiosi con due amici, Giulio e Franco: con loro scopre il significato della solidarietà, della complicità e poi improvvisamente del tradimento e della separazione, per ritrovare infine il gusto della riconciliazione e della fraternità recuperata. Giochi, scontri, monellerie ruotano intorno alla vecchia chiesa di Santa Maria guidata da Monsignor Marras, cui i tre ragazzi incendiano il cortile e una palma centenaria nel tentativo di eliminare col fuoco una colonia di aggressive pantegane. Qui si anima anche il dissidio con il nuovo, evoluto parroco che inaugura una concorrente chiesa di periferia: polemica che sfocia in una dissacrante e divertente processione tra le due comunità che si fronteggiano a colpi di invocazioni, giaculatorie e rosari pochissimo devoti. Il racconto scorre veloce e pulito, senza particolari originalità lessicali o sintattiche: e lo stile appare addirittura qua e là un po’ inamidato, con i dialoghi tra i ragazzi spesso ingessati in un italiano molto letterario e irreale. Soprattutto la trama, piuttosto debole, non riesce a elevare la narrazione al livello di altre precedenti prove della Murgia.

 

«Leggendaria» n. 97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

NABOKOV

VLADIMIR NABOKOV, L’OCCHIO ‒ ADELPHI, MILANO 2014

Ritenuto uno dei più importanti testi di critica letteraria del ’900, è recentemente uscito da Adelphi in una nuova edizione Lezioni di letteratura, che Vladimir Nabokov aveva dato alle stampe negli Usa a partire dagli anni ’40: sette splendidi ritratti di capolavori delle letterature occidentali, da Mansfield Park di Jane Austen all’Ulisse di Joyce, raccontati esplorando non solo i moduli narrativi, gli artifici stilistici, i tic linguistici dei narratori, ma anche ricostruendo i luoghi interni ed esterni in cui i vari romanzi sono ambientati, con un’appassionata attenzione ai dettagli, e alla magia che si sprigiona dalla descrizione del particolare: sapendo che l’opera d’arte deriva dall’unione di esattezza e incanto,  che collega «la precisione della poesia e l’intuizione della scienza», secondo le parole dello stesso autore.

Nabokov (San Pietroburgo,1899Montreux, 1977) proveniva da un ambiente nobile e benestante, ebbe un’educazione raffinata, oltreché in russo, anche in inglese e francese, e dopo il trasferimento della famiglia in Gran Bretagna per sfuggire alla persecuzione comunista, si laureò a Cambridge in letteratura slava. Spostatosi poi a Berlino (dove suo padre venne assassinato probabilmente da sicari leninisti), quindi a Parigi, si inserì, frequentandola assiduamente, nella cerchia degli emigrati russi. Nel 1940 con la moglie Vera e il figlio Dmitri espatriò negli Usa, ottenendo la cittadinanza americana, e insegnando in diverse università. Visse gli ultimi anni in Svizzera, morendovi nel 1977. La sua ricca produzione letteraria, in russo e in inglese, affrontava temi diversi, dalle problematiche sociali alle ossessioni psichiche, dalla sessualità alla fantascienza, nutrita di stimoli e competenze scientifiche ad alto livello, soprattutto per ciò che riguardava l’entomologia e la teoria scacchistica. La fama internazionale gli arrise soprattutto con la pubblicazione di Lolita ‒ avvenuta negli Usa nel 1955 ‒, che suscitò reazioni sia scandalizzate sia entusiastiche, anche nelle successive trasposizioni cinematografiche (Kubrik 1962, Lyne 1997).

L’occhio, scritto nel 1930 e poi riscritto in inglese nel 1965, è un romanzo breve ambientato tra gli émigrés russi in una vivace Berlino che allora si presentava come un centro culturale di attrazione per l’intera intellettualità europea. Intorno all’enigmatico personaggio principale, Smurov, ruotano infatti una quantità di figure eterogenee, ognuna delle quali conferisce al protagonista doti e caratteristiche particolari, in una singolare proiezione e sovrapposizione di desideri e aspirazioni. Nella prefazione, Nabokov scrive provocatoriamente: «Sono sempre stato indifferente ai problemi sociali, mi sono semplicemente servito del materiale che avevo a portata di mano, così come un commensale spensierato può disegnare a matita un angolo di strada sulla tovaglia o disporre una mollica e due olive in posizione diagrammatica tra menu e saliera». I commentatori più impegnati hanno rimproverato allo scrittore russo «questa indifferenza per la vita di gruppo e per l’irrompere della storia», accusando i suoi libri «di una totale mancanza di rilievo sociale». In realtà, anche in questo «ghirigoro di racconto», come l’autore definisce L’occhio, l’attenzione alla società e ai suoi ruoli codificati esiste, eccome! sebbene l’ottica privilegiata sia quella più strettamente psicologica e della critica di costume, spesso polemica e beffarda.

I personaggi che animano il romanzo hanno origini e caratteri disparati. A partire dal narratore, che nelle pagine iniziali (di sapore intensamente cechoviano) si presenta in prima persona come un giovane precettore vulnerabile e impacciato, che improvvisamente e per taedium vitae decide di spararsi dopo essere stato selvaggiamente picchiato da uno sconosciuto. Il suo risveglio in ospedale rimane fluttuante in uno stato di semi-veglia, sospeso tra morte apparente e sogno, svincolato dal corpo ma in una condizione di lucido sonnambulismo. E in tale stato di coscienza-incoscienza riprende a vivere in una casa abitata o frequentata saltuariamente da molte altre persone. Tra di loro, due raffinate e sensibili sorelle, Evgenija e Vanja, danno vita a un salotto in cui si incontrano banchieri e industriali, militari vanagloriosi e aspiranti intellettuali, una dottoressa pacifista e sfaccendati dal passato misterioso, come appunto il protagonista Smurov. Il quale si dichiara a volte eroe di guerra, altre volte avventuriero, artista, combattente rivoluzionario: timido, aggressivo, bugiardo, imbroglione, cleptomane, seduttore, delicato, eccitabile, a seconda dell’interlocutore con cui si intrattiene in conversazione. Innamorato della gentile Vanja, si trastulla nottetempo con una cameriera dalle abitudini furfantesche e disinibite, nello stesso tempo rivelandosi sessualmente inibito e volubile.

Il narratore, reduce da un maldestro tentativo di suicidio, definisce sé stesso «freddo, insistente, instancabile occhio», che tutto vede e registra, senza sprecarsi in troppi commenti: il titolo russo del racconto di Nabokov suonava infatti Sogljadataj, termine militaresco per indicare “l’osservatore, la spia”. La vicenda si dipana con tranquilla agilità (tra rivelazioni a sorpresa, scambi di persona, riconoscimenti a incastro) fino all’epilogo, imprevedibile e illuminante, che dovrebbe sperabilmente svelare la reale natura di Smurov. Ma «l’inferno di specchi» in cui si riflettono i vari personaggi in realtà non è che la moltiplicazione del medesimo tipo umano, una proiezione dello stesso occhio narrativo, una fantasia post mortem che già negli anni ’30 presupponeva l’esistenza di avatar ingannevoli. Chi è il narratore e chi il narrato? Il suicidio si è realizzato concretamente, oppure è stata una messinscena, l’illusione di un cervello malato? E infine, l’occhio che guarda sarà quello di Smurov, dell’io narrante, o di Nabakov stesso? Come a dire che la vita è sogno, inganno, miraggio.

«C’è un gusto stuzzichevole nel chiedersi, guardando al passato: ‘Che cosa sarebbe successo se…’, sostituendo un avvenimento fortuito a un altro, osservando come, da un attimo grigio e sterile del proprio tran-tran quotidiano, germogli un evento meravigliosamente roseo, che nella realtà non era riuscito a sbocciare. È un mistero, questo ramificarsi della vita: avvertiamo, a ogni istante trascorso, strade che si dividono, un ‘quindi’ e un ‘altrimenti’, con innumerevoli, vertiginosi zigzag che si biforcano e si triforcano sul fondo oscuro del passato». Da un tempo trascorso e perduto lo sguardo contempla un presente fasullo, che si propaga per inerzia al di là dell’esistenza concreta, addirittura pevalicando la morte individuale, su un palcoscenico in cui si muovono inconsistenti e fragili comparse, «farfallio su uno schermo»: l’unica felicità possibile finché si è al mondo, sapendosi destinati a sparire nel nulla, «sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare sé stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue».

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 12 marzo 2019