LUCIANA MORETTO, LA MEMORIA NON HA PALPEBRE – LA VITA FELICE, MILANO 2012
Da un frammento di Emily Dickinson, il titolo di questa raccolta di poesie di Luciana Moretto sembra suggerire che chi ricorda non chiude mai gli occhi, continua a tenerli ostinatamente e nostalgicamente aperti su volti, voci, gesti delle persone che abbiamo amato e che ci hanno lasciato. «Che cos’è la poesia se non il perpetuo racconto di un’assenza, di qualcosa che continuamente manca e che paradossalmente e sempre ci insegue con la sua presenza?», scrive nella sua partecipe prefazione Piero Marelli. Una poesia che si propone di annullare la distanza, recuperando tempi e spazi messi in ombra, ma mai definitivamente cancellati, dalla morte di chi ci è stato caro. In questo caso, del fratello dell’autrice, che lei è certa di poter ritrovare in un’altra, più generosa e perenne dimensione: «sicura dell’eterna compresenza / del tutto nella vita, nella morte», «certo prosegue di là, oltre il confine / d’ombra il patto di alleanza che un’anima / tiene accostata all’altra», «non arresa presenza, / garanzia di vita che continua» nella metafora di un asfodelo giallo reciso che persiste inspiegabilmente a rifiorire. Il fratello amato, le cui ceneri sono conservate in un’urna lontana, «nel continente estremo in vista / del mare», torna vivo nella foto dell’infanzia, sollevato in braccio dalla madre orgogliosa dell’unico figlio maschio. O nel quaderno ritrovato, con i riassunti dell’Iliade, e nei suoi inquieti vagabondaggi intorno al mondo, di cui la sorella poetessa si faceva rassicurante tramite presso i familiari «perplessi». O ancora nell’eco di una telefonata gentile, nelle immagini allegre del giorno del matrimonio. Ma soprattutto nella poesia più delicata del volume, che raffigura il fratello «smagrito e stanco» intento a curare le rose del suo giardino: «Spesso la morte è gentile / e ha buoni modi. Non toglie / qualcosa di vistoso, le basta / che muoia una cosa / una sola, diversa ogni volta. // E così piano piano / dalle tue mani ha tolto la rosa».
GIANFRANCO MORMINO, PER UNA TEORIA DELL’IMITAZIONE
RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2016
Il professor Gianfranco Mormino, docente di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Milano, ha pubblicato un saggio rilevante che, spaziando dall’etologia alla psicologia sperimentale, e basandosi soprattutto sulle scoperte più recenti delle neuroscienze, arriva a conclusioni filosofiche e scientifiche che potrebbero avere senz’altro importanti implicazioni etiche e pedagogiche in futuro. La sua indagine riguarda la teoria dell’imitazione, che pur interessando i comportamenti basici sia dell’uomo sia degli animali, è sempre stata disconosciuta o apertamente snobbata dal pensiero occidentale, con le uniche eccezioni di Spinoza nel passato e di René Girard tra i contemporanei.
«Ci riesce difficile pensare a comportamenti che non siano influenzati da modelli… nulla sembra sottrarsi alla forza degli esempi esterni, dai quali siamo invincibilmente attratti verso azioni standard che ripetiamo senza nemmeno esserne più consapevoli e che, per questo, attribuiamo ingenuamente alla nostra natura o ai nostri istinti».
La filosofia occidentale, «autoreferenziale e gerarchizzante… funzionale a una politica fondata su un sistema di obbedienza, ricompense e punizioni stabilite in ambito sociale», centrata «essenzialmente su un soggetto europeo, maschio, adulto e sano di mente», ha per duemilacinquecento anni trascurato di interessarsi ai processi psichici e all’agire sia degli animali sia degli esseri umani ritenuti intellettualmente o moralmente più deboli, non dominanti e non produttivi (bambini, razze considerate inferiori, minorati psichici, … donne), focalizzandosi soprattutto sui comportamenti razionali, maturi, spontanei e “liberi” da influenze esterne. L’imitazione, fondamentale nell’apprendimento e in qualsiasi processo cognitivo ma ritenuta attività gregaria, “scimmiottante”, è stata quindi presa in considerazione solo in un periodo recente, a partire dalla scoperta dei neuroni a specchio: mentre in precedenza essa veniva studiata esclusivamente nei suoi livelli elementari – fisiologici e neurologici – relativi al periodo neonatale e della prima infanzia, e nelle azioni più semplici di tutti gli esseri viventi. Oggi la ricerca si occupa dei comportamenti imitativi anche nei suo aspetti sociali, con le ovvie implicanze antropologiche e addirittura economiche.
Riguardo alle motivazioni profonde dei processi imitativi, sussistono ancora negli studiosi forti differenze interpretative. Gianfranco Mormino propone in questo volume una sua suggestiva e originale ipotesi, postulante «l’esistenza di un unico meccanismo mimetico, rimanendo all’interno di una visione unitaria e continuista della logica della vita, passibile di essere applicata tanto agli uomini quanto agli animali». Contestando la presenza di una capacità innata di imitare gli altri, Mormino si interroga (da un punto di vista materialistico e antiteleologico) sulle cause che hanno determinato il successo della funzione della mimesi a livello evoluzionistico (perché e come un essere vivente imita, seguendo quali modelli e per raggiungere quali scopi?). Ed è convinto che ogni singolo animale – umano e non – imiti per meglio adattarsi all’ambiente, stabilizzando «atti motori trovati accidentalmente e rivelatisi favorevoli», e li replichi “autoimitandosi”, con l’obbiettivo di soddisfare i suoi bisogni e di procurarsi piacere. Esplorando l’ambiente circostante per meglio adattarvisi, l’essere vivente apprende in maniera fortuita i movimenti che favoriscono il suo sviluppo, passando poi dall’autoimitazione più elementare e fisiologica ad abilità più raffinate, acquisite nell’interazione con gli altri individui. Il volume si occupa anche delle implicazioni etiche e pedagogiche dell’autoimitazione, cioè di come il soggetto che imita si relazioni con l’interesse comune, di come il suo comportamento venga modificato dai divieti e dalle esortazioni educative della famiglia e della società, di come patisca le identificazioni e le rivalità con gli altri modelli: e lo fa coniugando metodi di indagine multidisciplinari, scientifici e filosofici, nell’intento di proporre un’ipotesi di ricerca scevra da qualsiasi forma di finalismo e intenzionalismo.
BRUNO MORONCINI, MONDO E SENSO – CRONOPIO, NAPOLI 1998
Questo piccolo libro del filosofo Bruno Moroncini, pubblicato nel 1998 ma ancora acquistabile online, è dedicato alle parole e ai silenzi di due grandi figure del pensiero e della poesia novecentesca: Heidegger e Celan, accomunati non solo dall’uso della lingua tedesca, ma soprattutto dalla presenza testimoniale alla tragedia del nazismo e dell’olocausto.
Viviamo in un mondo e in un’epoca storica in cui (come citato dall’esergo di Elie Wiesel) «tacere è proibito, parlare è impossibile»»: tacere e parlare, cioè, del senso e del non senso della nostra esistenza.
«La mondializzazione, la formazione del mercato mondiale e la globalizzazione dell’economia, che vanno di pari passo con l’unificazione mediatica e digitalizzata del mondo, comportano esattamente la scomparsa del mondo e del senso, la scomparsa del senso del mondo e del mondo del senso».
Un mondo che ingloba tutto, che non ha più un fuori cui rapportarsi, vive in una sorta di regime del senso, di perdita di significazione, in una chiusura conservativa che esclude rischio e libertà, in cui l’azione stessa «finisce per fabbricare cenere».
Heidegger (riletto qui anche attraverso Nancy, Arendt e Lacan) non è ancora stato riabilitato moralmente a causa della sua adesione al nazismo e del suo silenzio sui campi di sterminio: davanti al non-senso della follia hitleriana, il filosofo che pure aveva saputo coniugare nei suoi testi teorici la dignità umana con l’assoluta libertà, regredisce a una complicità effettiva con l’orrore, con il potere e la tutela di un senso “insensato”, optando per una distaccata apatia.
Diversamente da lui, Celan sceglie di parlare, pur consapevole che i suoi versi «devono dismettere il senso per farsi puri significanti del nulla di senso, della sparizione del mondo».
«Parla anche tu, / parla per ultimo, / dì la tua sentenza. / Parla – / Ma non dividere il sì dal no. / Dà alla tua sentenza anche il senso; / dalle l’ombra». La parola poetica «apre un mondo, instaura un abitare…è creatrice, inumana, altra, terribile»: nella sua luce deve tenere conto dell’oscurità, senza la quale nulla risulterebbe. Celan scrive poesie dopo Auschwitz, contravvenendo all’interrogativo adorniano. Ma le scrive inabissandosi nell’oscurità, nell’indicibilità, nel quasi mutismo dell’angoscia.
Bruno Moroncini rilegge il poeta romeno con un’adesione empatica e riconoscente, sulle orme di altri due grandi interpreti celaniani, Szondi e Blanchot: perché al di là dello strazio, della morte, dell’incenerimento, Celan tenta comunque di recuperare un rapporto con l’Altro, con l’Oltre: «Scese, scese / scese una parola, scese / scese attraverso la notte, / volle risplendere, volle risplendere», «Nessuno ci impasta più di terra e argilla, / nessuno alita sulla nostra polvere. / Nessuno. / Lodato sii tu, Nessuno. / Per amor tuo vogliamo / fiorire. / Incontro / a te. / Un niente eravamo, siamo, rimar / remo, fiorendo: / la rosa di Niente, di Nessuno».
“Niente di finito – siamo nell’indefinito”, chiosa Adelelmo Ruggieri, commentando nella sua postfazione il titolo della raccolta poetica di Renata Morresi (Recanati, 1972), probabilmente volendo indicare però il carattere dominante del libro nella sua interezza. Bagnanti è insieme participio presente, sostantivo e aggettivo, ma nella prima sezione omonima identifica soggetti particolari, che popolano un’isola particolare: non più meta estiva di turismi selezionati o di massa, ma ormai soprattutto approdo di disperati: “scendono caldi sulla sabbia / i corpi lenti molli / dischiusi tutti storti e / terra, /rinati tutti a caso / uomo, donna – // scendono gli uccelli”; “dalle rocce dai picchi sulle acque gli iddii / vedrebbero popoli morbidi lentissimi / fondersi agli anemoni polipi i tanti / piedi avvinghiati agli scogli / staccarsi”.
Il linguaggio smozzicato, frantumato, privo di nessi connettivi, accosta immagini naturali luminose (“acqua oro-azzurra / in piena luce”) alle tracce drammatiche dei corpi annegati e resi deformi dalle onde sulla battigia, insieme a documenti inutilizzabili, a ossa spolpate, falangi, denti, che non sono solo quelli dei migranti africani dell’oggi, ma anche residui di antichi naufragi, di invasioni piratesche, di assalti alleati: catalogati da un implacabile “ufficio degli scomparsi / ampio mar mediterraneo”.
A questa desolante spiaggia isolana, assediata dalla calura e dal disfacimento dei corpi, si contrappone nella seconda sezione del volume l’ambiente borghese ma ugualmente disumano di un aeroporto invaso da vacanzieri intruppati in fila con le loro valigie, accaldati nei bar, stizziti dalle attese davanti alla toilette, persi tra i saluti ai parenti, dialetti e lingue straniere, controllo passaporti e assalti pubblicitari.
Altrettanto alienanti sono gli scenari in cui Renata Morresi ambienta i due ultimi capitoli della sua raccolta: il primo (Vendesi), narrante l’odissea di chi si affida a un’agenzia immobiliare per la ricerca di un appartamento, ed è costretto a una deambulazione frastornata tra quartieri, ambienti, condomini, stanze diverse: “rifinito con cura / funzionale servitissimo adiacente / su due livelli su tre livelli su / struttura ristrutturata di recente”.
Infine, Trenitalia è un malinconico omaggio al mondo composito dei passeggeri che anima le varie frecce bianche e rosse circolanti sui binari della nostra penisola: “«acqua, aranciata, caffè» // ognuno ti tocca del tutto / d’una piena mancanza / ognuno da un’unica polla / di aria ti invita / nella sua stella nana”.
Tutti soli, tutti insieme – migranti, turisti, inquilini, pendolari: l’affollata solitudine in cui siamo immersi.
SABINA MOSER, UNA SANTITÀ GENIALE – LE LETTERE, FIRENZE 2024
Sabina Moser (1961), di formazione filosofica e teologica, studia da tempo la figura di Simone Weil, su cui ha pubblicato diversi saggi e volumi. Questo suo ultimo testo, uscito da Le Lettere con prefazione di Marco Vannini, esplora in maniera finora inedita il legame che ha unito la filosofa ebrea francese (1911-1934) a San Francesco, accostando la ricerca severamente razionale di lei, originale pensatrice laica novecentesca, alla fede immediata e limpida del frate di Assisi vissuto sette secoli prima: in entrambi ritroviamo infatti la stessa volontà di adesione alla parola di Gesù e la scelta di un cammino esistenziale di purificazione e riduzione all’essenzialità della vita.
Weil aveva un approccio illuminista alla storia delle religioni, ed era fortemente polemica nei confronti dell’autorità ecclesiastica, Francesco aderiva totalmente al dettato delle Scritture, alla rivelazione cristiana e alla sacralità della Chiesa. Ma pur non conoscendo nello specifico il movimento francescano, Weil aveva provato relativamente a esso una forte attrazione emotiva durante un viaggio in Italia, e così ne scriveva: “Nel 1937 ho trascorso ad Assisi due giorni meravigliosi. Là, mentre ero sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato tanto spesso, qualcosa più forte di me mi ha costretta, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi”.
Francesco come alter Christus le sembrava incarnare il massimo esempio di vita evangelica, caratterizzato non solo dal rapporto interiore tra l’anima e Dio, ma anche dal profondo desiderio di rinnovare positivamente la comunità umana, attraverso la condivisione degli stessi ideali trasformativi, che nella sua introduzione il Professor Vannini identifica in povertà, umiltà, obbedienza, amicizia fraterna, accettazione della sofferenza, rinuncia a sé stessi, apertura gioiosa alla bellezza del mondo.
Sabina Moser nei cinque capitoli di Una santità geniale (accompagnati da un’appendice con accurate note biografiche, letture di brani originali e un’essenziale bibliografia attinente alle figure dei due protagonisti) sottolinea i tratti caratteriali, intellettuali e di fede che accomunavano o distinguevano Weil e Francesco, entrambi segnati da un’uguale e coerente dedizione alla parola evangelica, seppure nelle sostanziali differenze. Tra queste, prendendo a prestito il titolo di un noto testo della filosofa francese – La Pesanteur et la Grâce –, la gravità che contraddistingueva la ricerca approfondita, colta e tormentata di lei, discordava dalla leggerezza e dalla “perfetta letizia” attraverso cui il santo di Assisi rispondeva al richiamo divino.
La comune aspirazione alla spiritualità che li induceva a una spoliazione dei beni materiali aveva in loro modalità contrapposte: se Francesco aveva scelto di abbracciare positivamente una vita povera e peregrina attraverso una decisione personale e volontaria, Simone riteneva giusto attendere che fossero circostanze costrittive a ridurla in indigenza, abbandonandosi in tal modo alla sola volontà di Dio e rinunciando a imporre il proprio desiderio egoista, convinta che “dire io è mentire”.
Così infatti si esprimeva a questo riguardo: “Sono stata conquistata da san Francesco fin da quando ne ebbi conoscenza… Ho sempre creduto e sperato che la sorte un giorno mi avrebbe spinta a forza in quella condizione di vagabondaggio e mendicità che egli accettò liberamente… Sin dall’adolescenza ambivo al matrimonio di San Francesco con la povertà, ma sentivo che non dovevo essere io a darmi la pena di sposarla, perché un giorno lei stessa sarebbe venuta a prendermi a viva forza”.
Inoltre, non li animava un’uguale visione della fede: se l’assisiate coglieva l’aspetto personale della Provvidenza, Weil ne sottolineava l’impersonalismo, inteso come accettazione della volontà di Dio subìta e non intenzionalmente scelta, in ciò proponendo un’interpretazione stoica della rivelazione cristiana, basata sull’umiltà e la totale obbedienza, in grado di svuotare pensieri e azioni, sottraendoli a ogni imposizione soggettiva. Un’ulteriore difformità caratterizzava le loro esperienze di vita: Francesco diffidava della cultura e della scienza, ritenendole pericolosamente seduttrici e manipolatorie, lontane dalla semplicità e dallo spirito di carità. Simone al contrario era permeata di ogni sapere, conosceva a perfezione diverse lingue moderne e antiche, compreso il sanscrito; era consapevole delle ultime conquiste della fisica e della matematica; penetrava con acume critico sia le sacre scritture sia la filosofia, l’arte e la letteratura greca, con una predilezione particolare verso l’Iliade, e non le era estranea la sapienza orientale.
Cosa tuttavia accomunava queste due figure portatrici di una spiritualità luminosa e radicale, nonostante le evidenti diversità storiche, culturali e caratteriali?
Sabina Moser individua numerosi elementi che permettono di rilevare una consonanza effettiva nel loro agire e pensare, aldilà dei secoli di storia che li dividevano. Entrambi morti in giovane età (Francesco a 44, Simone a 34 anni) consunti dall’inedia, dai sacrifici e dalle malattie, erano attratti dal miracolo della bellezza, ovunque essa si esprimesse. Il primo aveva trovato in gioventù nell’ideale cavalleresco un modello di aristocratica cortesia, liberalità e coraggio disinteressato, che dopo la conversione mantenne depurandolo da ogni materialità nella difesa ammirata della magnificenza del creato e di tutte le creature. Simone era affascinata dalla purezza e armonia espressa dall’arte classica, risultato della perfetta concordanza tra l’elemento sensibile e quello ideale, in grado di volgere l’anima verso l’alto: “La bellezza è veramente, come dice Platone, una incarnazione di Dio”.
Altro fattore che metteva in relazione i due era la comune, profonda disposizione all’imitazione di Cristo, esempio di povertà, umiltà, pazienza, giustizia, compassione e carità cui conformare la propria vita. Un Christus patiens, della Passione e della Crocefissione, definito dalla kénosis (cfr. Fil 2,6-11), cioè dallo svuotamento di ogni forza, potenza e imperiosità, che Francesco intendeva come positivo atto di amore verso le creature, mentre Simone in maniera più radicale indicava come mortificazione, nullificazione dell’io: “per diventare qualcosa di divino, non ho bisogno di uscire dalla mia miseria, vi debbo solo aderire… È al fondo estremo della mia miseria che io tocco Dio”.
Moser si sofferma sul complesso concetto weiliano di de-creazione, processo grazie al quale il nostro io, sparendo, distruggendosi, astenendosi dall’affermarsi nel mondo, scorge un dio che per amore ha abdicato egli stesso alla forza, rinunciando all’onnipotenza, e facendosi uomo ha accettato di scomparire per fare posto a noi creature: “Dio non ha potuto creare che nascondendosi. Altrimenti non ci sarebbe che lui”.
Francesco e Simone hanno entrambi compreso di essere stati chiamati a trasformare, nel segno dell’autentica fede cristiana, il modo di vivere della società in cui erano immersi, rinnovandola alla radice. La loro santità è consistita nell’operare affinché il mondo fosse prossimo al regno di Dio, promuovendo sentimenti di fratellanza, amicizia e pace, aprendosi alla grazia e alla trascendenza.
Rileggerli oggi significa constatare la necessità di un cristianesimo completamente rinnovato, come auspicava Weil: “Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti […] Un nuovo tipo di santità è qualcosa che scaturisce d’improvviso, una invenzione […] Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fisica: una santità nuova è un’invenzione più prodigiosa […] Il mondo ha bisogno di santi che abbiano genio come una città dove infierisce la peste ha bisogno di medici”.
EMMANUEL MOSES, OSCURO COME IL TEMPO – MOLESINI, VENEZIA 2022
Oscuro come il tempo, di Emmanuel Moses, è un libro-scrigno, ricco di tanti materiali diversi: oggetti, paesaggi, facce, voci, colori. Gode dell’atmosfera nordafricana e mediorientale, solare e speziata, da cui l’autore proviene, e insieme della sottile ironia e feroce abilità introspettiva della cultura francese che ha nutrito i suoi anni più maturi. Nato a Casablanca nel 1959 da una famiglia di intellettuali e artisti cosmopoliti e poliglotti (il padre era il filosofo franco-israeliano Stéfane Mosès, la madre la pittrice Liliane Klapisch, nipote dello scrittore tedesco Heinrich Kurtzig), a dieci anni si trasferì a Gerusalemme, dove si laureò in storia, e dal 1986 vive e lavora a Parigi. Ha pubblicato una trentina di pluripremiati volumi di poesia e narrativa, ed è ricercato traduttore dall’ebraico moderno.
Questa vivace duttilità di esperienze personali ben si rispecchia nella forma e nei contenuti dei suoi versi, che variano dalla struttura facile del motivo musicale ai toni più meditativi della riflessione filosofica, dalla saggezza dei proverbi arabi allo scherno contro ogni conformismo.
Sembra di intuire in Emmanuel Moses una predisposizione a giostrarsi tra gli opposti, tra l’adesione e il rifiuto dei sentimenti, delle ideologie, dei panorami in cui si immerge, attratto sia dalla realtà che dall’irrealtà, come suggerisce il titolo della prima composizione antologizzata. L’amore, ad esempio, che è uno dei temi più presenti nel libro, è raccontato nell’esaltazione del suo manifestarsi, nel fiero irrobustirsi della passione, per arrivare poi al disincanto amaro e fatalistico del tradimento, della stanchezza, dell’abbandono: “In cammino con gli uccelli migratori / In viaggio con te, amore mio / Sulla strada verso di te / Sulla strada, mia fuggiasca con le guance rosa”, “La musica accompagna l’amore / Dio ama gli uomini / Io ti amo con grazia danzante”, “Il mio amore capisce così bene il mio silenzio / Che capirà anche queste parole autunnali”, “Il desiderio, l’amore, il sospetto, l’odio / Sono il linguaggio che parleranno sempre meglio // … Prima di spingere di nuovo la porta di casa / Devastati dal silenzio”. Alla stessa maniera il rapporto con la natura e l’ambiente urbano affascina e intimorisce, seduttivo e inquietante nel suo febbrile manifestarsi.
La scrittura risulta evocativa e rigogliosa, talvolta al limite della retorica, in un lirismo che può ricordare Prévert ma subito si corregge con una sterzata canzonatoria e pudica, scegliendo una cadenza narrativa e quietamente descrittiva. L’andamento colloquiale sfora inaspettatamente nella visionarietà più immaginosa, il sarcasmo nella devozione, la prosaicità nel sublime, mantenendo però una costante uniformità e coerenza formale, ed esibendo una particolare acutezza nelle spiazzanti metafore.
Nella nota finale, Moses afferma di aver composto la raccolta (uscita in Francia nel 2014) seguendo un percorso eccentrico, “al culmine della coscienza, evitando la coscienza”, in una lotta che ambisce a sottrarre al “Tempo-Caino” ricordi ed emozioni, oscillanti tra l’eternità e “il ritmo discontinuo, caotico, delle ore grigie” quotidiane. Solo la poesia può resistere al dissolvimento, con la sua forza mite che l’autore non riesce a definire, quando gli si chiede cosa sia: “Ma prima di tutto c’è la poesia, più misteriosa, più incandescente, più aspra ancora // La poesia continua là il suo viaggio / Galleggia / Hai mai visto una poesia fare naufragio?” Essa si oppone allo scorrere implacabile dell’esistenza, e alla morte odiosa (“Possa la luce respirare ancora / Possa il giorno continuare a riversarsi sui campi”).
La concretezza della vita viene celebrata attraverso la concretezza degli oggetti: una finestra, un muro, la cucina, un carciofo, la sigaretta (pantheon dei poeti!), a cui viene dedicata un’ode spiritosa e riconoscente. Eppure, anche nel glorificare l’esistente, il poeta è assillato da fosche previsioni sul futuro: “Quando non ci sarà più la banchisa dove nascondere gli orsi bianchi, loro cosa faranno? / Quando la metà delle isole sarà scomparsa, con le loro vecchie città costiere coloniali / Cosa faranno?”, “Cosa succede alle cassette postali delle case demolite?”
Se il tempo si fa oscuro, Moses si aggrappa all’illusione di un dio vicino e benevolo, a cui rivolge una laicissima e panica Preghiera: “Dio della pioggerella e della terra sonora / Dacci la forza di attraversare i giorni infausti / Dio degli uccelli esotici e dei fiori stupefacenti / Dacci la gioia del sole che cola nel groviglio dei rami / Dio della linfa e della nebbia / Dacci la dolcezza sensuale e la malinconica dolcezza / Delle stagioni che passano”.
ELISABETTA MOTTA-FABIO PUSTERLA, COLORI IN FUGA – LA VITA FELICE, MILANO 2011
Un modo decisamente particolare,e originale, di avvicinarsi alla poesia di Fabio Pusterla, attraversandola tutta, dalle origini agli esiti più recenti: Elisabetta Motta scandaglia la produzione del poeta ticinese attraverso le tracce lasciate nei suoi versi dai colori,dalla luce,dall’ombra e dal buio che, come afferma l’autore “non possono sottrarsi al significato simbolico e morale che si è su di loro cristallizzato nella storia umana”. Quindi l’azzurro e il verde richiamano la vitalità e il dinamismo della natura, il bianco la luminosità e il rigore dei paesaggi invernali elvetici, il rosso e il giallo il calore e la passionalità, il grigio nelle sue varie sfumature la trasparenza o l’oppressione, il nero ovviamente la morte e il lutto, il contrasto e il silenzio. “Colori in fuga” che si inseguono nel mondo cromatico di Pusterla, che li ritiene importanti per penetrare nella comprensione della sua scrittura: “Esistono nella loro complessità, talvolta nella loro lotta serrata; e forse manifestano ai miei occhi la sfuggente, bellissima e terribile contradditorietà del nostro esistere”. Attraverso l’individuazione e l’analisi dell’utilizzo dei colori nei versi del poeta, Elisabetta Motta enuclea i temi fondanti e ricorrenti del suo corpus letterario: aderenza alla poetica degli oggetti, conservazione della memoria, resistenza all’omologazione, accettazione del disagio del vivere, recupero del dialogo tra l’io e il mondo, attenzione all’aspetto psicologizzante o metaforico del paesaggio, riflessione sulla morte e sulla violenza della storia, partecipazione al reale nella sua quotidianità, denuncia ecologica. Una poesia degli affetti,inoltre, che sa farsi coscienza civile e partecipe al destino di ciascuno e di tutti, anche attraverso la frequentazione assidua di nomi fondamentali della letteratura e dell’arte, come testimoniano i sei saggi finali dello stesso Pusterla, che cita pittori, scrittori e fotografi rivisitati con percettiva e acuta sensibilità.
GIULIO MOZZI, LA STANZA DEGLI ANIMALI – :due punti, PALERMO 2010
La casa editrice Duepunti di Palermo pubblica questo libriccino, scarno e terribile, di Giulio Mozzi nelle sua collana “Zoo, scritture animali”. Ma gli animali di cui parla lo scrittore padovano sembrano in realtà un pretesto (mortifero, ossessionante, da incubo) perché in realtà perno vero del racconto è la stanza che li raccoglie e li conserva, li protegge e nasconde. Gli animali sono infatti piccoli pesci, granchi, meduse, spugne, vermi, conchiglie: quasi sfatti o putrefatti in vasi di vetro incrostati e colmi di formalina puzzolente, il cui odore asfissiante ammorba il giardino e la casa che ospita questa stanza. Un ripostiglio buio, senza finestre, arredato con scaffali di metallo sopra cui il padre del protagonista -scienziato e sommozzatore- allineava i suoi barattoli con le prede conquistate durante i suoi avventurosi viaggi in giro per il mondo. “Questi sono gli animali. Questi sono i miei ricordi”: memorie che si alterano in allucinazioni, si trasformano in tormentose angosce. Perchè “nella stanza degli animali, il 17 giugno del 1994, venerdì” avvenne la tragica violenza familiare, inspiegabile e volutamente non motivata, che arrivò a spezzare in due la vita del protagonista. La casa fu venduta a parenti, la stanza degli animali svuotata, ripulita e imbiancata. Non così si può fare con i ricordi, con l’anima: “io sono vivo data l’impossibilità di morire, tutto ciò che vive dentro la mia mente è morto, tutto ciò che è dentro la mia mente non può morire”. Il figlio va a trovare il padre in carcere, gli porta ogni volta qualcosa, elencando con puntigliosa tristezza i suoi fragili e non consolanti doni; il padre tace, o ripete una litania senza senso, come una giaculatoria: “C’era e non c’è la rosa”. Realtà e sogno, esistenza e morte, pazzia e speranza di salvezza (e di perdono) si confondono, nei versi malinconici e delicati che chiudono con un rondò questa alta prova di scrittura, asciutta e straziante.
HERTA MÜLLER, ESSERE O NON ESSERE ION – TRANSEUROPA, MASSA 2012
Essere o non essere Ion è il primo libro di versi che Herta Müller ha scritto in romeno, lingua del suo paese natale, ma non lingua materna – che invece è stata il tedesco. Lingua dell’oppressione e della persecuzione, lingua del sistema poliziesco che la costrinse all’esilio nell’87, e che qui la scrittrice premio Nobel nel 2009 recupera con una intelligente e ironica operazione di straniamento, di destrutturazione, di burlesco mascheramento. Un volume spiazzante e giocoso, questo proposto da Transeuropa, in cui ad ogni poesia tradotta in italiano da Bruno Mazzoni fa da specchio una pagina coloratissima di collage originali della stessa Műller, ottenuti utilizzando ritagli di riviste e giornali, graficamente eterogenei, che ripropongono gli stessi versi in romeno. Poesie sospese tra un andamento narrativo e colloquiale, fiabesco o sarcastico: vaporose e insieme concretissime, che assumono di volta in volta l’inconsistenza o la vivacità delle associazioni estemporanee e inconsce, di automatismi-lapsus-collegamenti onirici, di dialoghi stralunati tra personaggi improbabili, inventati o reali. La voce poetante è a volte maschile a volte femminile, può essere o non essere Ion, o qualsiasi altro protagonista; si affastellano i nomi più diversi: Ernest, Oskar, Liliana, Grigore, Mircea, Otilia, Bogdan… E le figure più comiche, strampalate, tragiche, patetiche di un immaginario teatrino dell’assurdo che tanto ricorda Ionesco: «una zia che aveva il singhiozzo e un odore sgradevole», «una vedova / sorda e magnetica con un debole per le bietole», «un uomo pelato come una rapa, ha / una gamba grigia di legno, che scricchiola appena, e / caligine nella mente, ma oro nei denti», «una dama / (con bigodini nei capelli, il rossetto arancione)». Anche i numerosi animali sembrano balzare fuori da un inverosimile paese delle meraviglie: «i cani con / lo zufolo di cera», «anatre selvatiche con tatuaggi / da creatura umana», «una capra da trasporto / pelle e ossa», «mosche a decine… hanno problemi psichici», «due canarini / uno rapato e l’altro abbacchiato», «una pecora stregata che cantava un blues». E poi tarme, oche, topi, cuculi, zanzare, volpi, gatti: un vero zoo urbano, in un paesaggio fitto di treni e autobus, di dogane e fabbriche dismesse, dove le coordinate si intrecciano, le direzioni si confondono, mancano i punti di riferimento e ogni contorno appare sfumato, sballato, sconcentrato («all’angolo della bocca / molto in alto / o in terra», «non aveva la benché minima idea / dove fosse la macelleria»). Insomma, la poetessa ammette quasi gioiosamente la sua confusa percezione dell’esistente: «che una certa sensibilità al bailamme ce l’abbia», evidente nei dialoghi smozzicati e straniti: «Te l’ho detto / ahò, che mi fa male / persino un po’ / il basilico», «Oplà!, / la cosa si fa seria / cocco mio», «mi ha chiesto Mihai: / -ce l’hai? / Non ce l’ho, gli ho detto, / dai su, mangiamo». E nelle conclusioni che non concludono, che rimangono sospese e stupite a interrogarsi: «farei la stessa cosa / che semplicemente farei, / avete afferrato l’idea, non è così», «secondo me / ciò che si può / non è escluso». Eppure, al di là di questo ritmo narrativo veloce e quasi ansimante, assolutamente privo di punti fermi, e con scarsi segni di interpunzione, qua e là si intuiscono tremori non vinti, assilli di violenze subite e mai perdonate, ironie feroci contro il potere burocratico e militare più ottuso, che possono ricordare gli sbeffeggi di Shostakovich parodianti il sistema staliniano: «ciò che faccio è vietato», «Però quando lo sono, lo sono! Di- / ciamolo pure, colpevole», «anche questi pestati a sangue / domani avranno delle sigarette», «Il signor colonnello non è più ciò che è», «questi, oplà, come ben sappiamo poiché è scritto nel / rapporto sulla produzione, ti avrebbero pappata / tutta intera»: a ricordarci che anche sotto le sembianze del gioco, del sorriso, del sogno, la poesia può continuare ad essere qualcosa di tremendamente serio, e pericoloso.
HERTA MÜLLER, IL RE S’INCHINA E UCCIDE – KELLER, ROVERETO 2011
Dopo Il paese delle prugne verdi esce da Keller questo secondo testo di Herta Müller, premio Nobel 2009. Il volume dal titolo allusivo comprende due scritti: racconti o meditazioni, autobiografia e critica letteraria e sociale insieme. Herta Mueller, nata nel 53 in Romania, ma in un villaggio di lingua tedesca, cresce tra umili lavori dei campi, dolorosa vita familiare – con una madre succube del padre alcolizzato-, macabre visite ai morti del paese, profondi silenzi e più profonde riflessioni. Sul mondo che la circonda e quello a cui aspira, ma soprattutto sul rapporto che unisce il pensiero alla parola, nella sua vita di bambina e di adolescente costretta al bilinguismo: “Finora ho pensato molte cose senza ricorrere alla parole, non ne ho trovate nel tedesco del villaggio, e neppure nel tedesco di città, nel rumeno… e in nessun libro… Cosa può fare il parlare? Quando gran parte della vita non quadra più, anche le parole vanno a fondo”. Trasferitasi dalla campagna in città nella Romania di Ceausescu, conosce la violenza della polizia comunista quando inizia a scrivere e a opporre al potere una tenace e silenziosa resistenza. Allora il Re del gioco degli scacchi di suo nonno diventa metafora di violenza e sopraffazione, incubo e terrore, inquisizione e assolutismo. La scrittrice ne fa un simbolo di morte, a cui opporsi con dignità:”E’ un re di stato…mette in scena la morte inflitta come fosse un suicidio…lo si sa, ma quel che succede ogni giorno non lo si può provare…Quando barcolla si pensa che s’inchini, ma lui s’inchina e uccide.” Questo Re dell’ingiustizia e della persecuzione segue la scrittrice ovunque, assume la dimensione di tutte le cose incomprensibili e terrificanti con cui ha a che fare, anche quando riesce a trasferirsi in Germania. La letteratura,allora, la parola scritta e letta,sua o di amici intellettuali, può diventare un’ancora di salvezza, cui aggrapparsi per dissentire e resistere, per proclamare la propria dignità di essere umano assetato di libertà.
IBS, 29 maggio 2011
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