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RECENSIONI

NACCI

BRUNO NACCI, IL SILENZIO DELL’INFINITO. UN FRAMMENTO DI PASCAL

LA SCUOLA DI PITAGORA, NAPOLI 2015

“Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie”: del frammento n. 187 dei “Pensieri” di Blaise Pascal (compreso nel corpus canonico pascaliano solo nel 1844) si occupano queste documentatissime 37 pagine del francesista Bruno Nacci. Il frammento, che si esprime in una forma letteraria caratterizzata dal ritmo anapestico, quindi con una sua forte e struggente valenza poetica, ha sempre affascinato lettori e studiosi di tutte le epoche e latitudini, proprio per la sua drammatica e angosciosa visione di un universo muto, eterno e infinito, in cui l’uomo può solo riconoscersi nella sua fragile inessenzialità, e nella sua totale solitudine.

Il Professor Nacci inserisce questa fascinazione pascaliana per l’immenso all’interno della riflessione logico-matematica del filosofo francese per l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, con la dichiarata intenzione di abbassare l’orgoglio umano (“domare la sua presunzione”), usando tali temi con fini apologetici, nel tentativo di convertire il non credente. Davanti alla grandiosità del cosmo e alla piccolezza umana, Pascal si perde, esattamente come il “naufrago” Leopardi, e prima di lui i cosmologi greci, Giordano Bruno, Cartesio, Montaigne. “Dio parla nell’universo una lingua raccapricciante, quella inarticolata che getta l’uomo nel terrore mostrandogli la sua insensata marginalità”; ciò che spaventa “non è l’infinitezza dell’universo in quanto tale e la sua insondabilità, ma il fatto che questa inesauribile profondità manchi di parola (e di senso), in un capovolgimento straordinario dell’assunto ottimista di Galileo”. L’uomo inadeguato a giustificare la sua presenza nel mondo, si sente inghiottito “come un punto”: Nacci naviga con assoluta competenza all’interno di tutto il corpus dei Pensieri, sempre cercando analogie tra il frammento esaminato e gli altri. Quello che lo precede, il 186, notissimo, infatti recita: “L’uomo non è che un fuscello, il più debole della natura, ma è un fuscello che pensa”.

© Riproduzione riservata             IBS, 7 agosto 2015

 

RECENSIONI

NACCI

BRUNO NACCI, DESTINI. LA FATALITÀ DEL MALE – ARES, MILANO 2020

Bruno Nacci è un noto e stimato romanziere, saggista, traduttore, consulente editoriale: nel suo ultimo libro pubblicato da Ares (Destini. La fatalità del male) utilizza la forma del racconto per confrontarsi con temi di elevato spessore morale e di spinosa complessità. Indaga infatti l’origine, le motivazioni, le finalità dell’agire criminale attraverso la vita di cinque personaggi appartenuti a diverse epoche storiche, che si sono macchiati di gravi colpe nei confronti dell’umanità, cedendo a impulsi malvagi o al fascino della trasgressione. I destini di Hitler e Pol Pot, del generale vietnamita Nguyen Ngoc Loan, dell’architetto del Führer Albert Speer e di Seneca assurgono nella narrazione di Nacci a emblema del male, di cui non si sottolinea più la banalità ravvisata da Hannah Arendt, quanto invece la fatalità. Fatali infatti risultano le scelte dei protagonisti, che li hanno condotti in un vortice incontrollabile di eventi efferati, con conseguenze devastanti.

I cinque racconti, frutto di immaginazione per quanto riguarda la descrizione accurata ed elegante di ambienti e personaggi, prendono spunto da dati storici concreti. L’episodio iniziale è ambientato a Burke, cittadina della Virginia, dove l’affabile e mite sessantenne asiatico Loan ha aperto da una decina d’anni un ristorante ben frequentato. La fortuita pubblicazione da parte di un quotidiano locale della storica foto che lo ritraeva nella feroce esecuzione di un prigioniero in una strada di Saigon, riporta a galla il suo passato di generale aguzzino al servizio dell’esercito vietnamita. Il reporter americano E.A., divenuto celebre e ricco come autore dell’istantanea premiata con il Pulitzer, pentito della risonanza mondiale avuta dallo scatto, raggiunge Nguyen Ngoc Loan nel suo locale per comunicargli di aver scritto un articolo sul Time nel vano tentativo di riabilitare la sua figura di militare, travolto dal tumulto di una guerra orribile e crudele. Il male, in questo caso, è ascrivibile sia all’assassino, sia all’ucciso che si era macchiato di truci violenze, sia allo spregiudicato giornalista, come pure al disumano teatro del conflitto e alla stessa fotografia, “perché non c’è niente di più ambiguo e più ingiusto che voler fermare il tempo illudendo chi non c’era di poter essere testimone di quanto non esiste più o non è mai esistito”.

Se il primo racconto del libro di Nacci ci riporta a un periodo tragico ancora abbastanza vicino a noi, l’ultimo tratteggia in maniera singolare e inaspettata la figura del filosofo Seneca, rivelandone aspetti caratteriali poco noti e insospettabili. Prima di suicidarsi, nelle ultime lettere in cui prende congedo da amici e nemici, ma soprattutto da se stesso, Seneca confessa i suoi molti peccati di ambizione, orgoglio, astuzia, lussuria, calcolo e codardia, assolvendosi tuttavia per il fatto di aver dovuto occupare una “posizione a un passo dal male assoluto, condividendone ogni responsabilità pur di alleviarne le conseguenze più gravi che ricadono su chi non ha armi o scudi con cui difendersi”. Riconosce di aver preferito “diventare ciò che detestava nel nome del bene comune, invece di detestare ciò che non era diventato”. Si era asservito a Nerone, “un buffone” di cui forse era stato, oltre che maestro e consigliere, addirittura il padre carnale.

Negli altri racconti che esplorano l’abisso dell’animo umano, Bruno Nacci indaga la propensione al male di tre personaggi “dannati”, in un periodo della loro esistenza lontana dall’esercizio effettivo del potere. Così il sanguinario despota cambogiano Pol Pot, durante gli anni universitari alla Sorbona era un promettente calciatore, “ingenuo, cordiale, gentile e simpatico… mite, giocoso e servizievole”, sensibile al fascino della poesia e della musica classica, prima di aderire agli ideali rivoluzionari che l’avrebbero trasformato in un mostro spietato. L’architetto nazista Albert Speer aveva percorso 31.940 chilometri in dodici anni di prigionia, camminando ossessivamente nel cortile del carcere di Spandau e immaginando di viaggiare da un continente all’altro, per distrarsi dal ricordo delle colpe commesse come ministro della guerra. Il più malefico dittatore del XX secolo, Adolf Hitler, da giovane dormiva in un rifugio per senzatetto, dipingendo e vendendo cartoline illustrate per poter assistere agli spettacoli dell’Opera: alla raffinatezza della passione per la lirica affiancava la rozza volgarità dei discorsi antisemiti con cui intratteneva gli ospiti del ricovero.

Vite di chi non ha saputo o voluto sottrarsi al male, che ci ricordano quanto ogni destino umano sia esposto alla tentazione di una scelta scellerata, gravida di effetti penosi e angoscianti per tutti.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Destini-fatalita-male-Nacci.html          

9 dicembre 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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NANCY

JEAN-LUC NANCY, L’EQUIVALENZA DELLE CATASTROFI – MIMESIS, MILANO 2016

Nel 2011 Jean-Luc Nancy (1940), uno dei più noti filosofi contemporanei, fu invitato dall’Università di Tokyo a tenere una video-conferenza sul tema Fare filosofia dopo Fukushima. Il volumetto recentemente dato alle stampe da Mimesis con il titolo L’equivalenza delle catastrofi riporta le tesi, provocatorie e inquietanti, da lui espresse in quell’occasione, prefate da un impegnativo saggio di Giovanbattista Tusa.

Di cosa parla Nancy in queste pagine? Sostanzialmente della nostra apocalisse prossima ventura, pressoché inevitabile se non si metterà mano a un cambio di rotta radicale nelle abitudini di vita, nella ricerca scientifica e tecnologia, nell’indirizzo economico e nelle scelte politiche dell’intero pianeta. Viviamo in un mondo disorientato e disordinato, assemblato in molteplici e confuse forme prive di una prospettiva comune e condivisa di sviluppo: un mondo capace solo «di moltiplicare l’immondo», in cui qualsiasi emergenza naturale (terremoti, inondazioni, siccità, eruzioni vulcaniche…) diventa catastrofe epocale e senza confini. Così è stato per Fukushima, il cui nome rievoca tragicamente nella rima il primo olocausto nucleare di Hiroshima: lì un sisma e lo tsunami che ne derivò provocarono una catastrofe tecnica, con ripercussioni sociali, ecologiche, sanitarie, economiche, politiche di cui è ancora oggi impossibile tracciare un limite, un perimetro nel tempo e nello spazio. Ciò avviene ogni qual volta nel mondo accada un incidente chimico o nucleare, un’improvvisa e imprevista epidemia, uno sconquasso della natura: tutto ciò produce «un’interconnessione, un intreccio e persino una simbiosi» degli effetti della catastrofe, che si riflette su ogni scambio culturale, politico ed economico globale.

Allora, se Adorno rifletteva sull’impossibilità di scrivere poesia dopo Auschwitz, c’è da chiedersi se sia ancora possibile oggi fare filosofia dopo Fukushima, dopo ogni devastante terremoto, dopo le stragi di guerra e gli atti di terrorismo, dopo i crolli finanziari che coinvolgono le economie nazionali. Nancy accusa l’intero occidente capitalistico di aver creato negli ultimi due secoli una complessità di sistemi interdipendenti, con l’unico fine del profitto economico e dell’accumulazione monetaria, per cui ogni avvenimento locale si ripercuote a livello universale, con conseguenze inarrestabili e imprevedibili. In questo senso, tutte le catastrofi sono equivalenti, e ad esse non si riesce più a opporre margini e a dare risposte in senso filosofico o religioso: l’energia atomica, anche ad uso civile, rimane un pericolo potenziale dagli effetti spaziali e temporali immisurabili, eccedenti le capacità di controllo tecnico e politico di qualsivoglia superpotenza. «La vita nelle sue forme, i suoi rapporti, le sue generazioni e le sue rappresentazioni, la vita umana nella sua capacità di pensare, creare, gioire o di tollerare è precipitata in una condizione peggiore dell’infelicità stessa: uno stordimento, uno smarrimento, un orrore, uno stupore senza appello».

Che fare, quindi? Come salvare noi stessi e le generazioni future da questo orizzonte apocalittico che ci sovrasta, se ogni catastrofe naturale può diventare una catastrofe di civiltà che si propaga illimitatamente? Ripensando tutto, suggerisce Nancy. A cominciare da un’idea utopistica di sviluppo inarrestabile, di crescita economica e tecnica proiettata in un domani sempre più ricco e perfetto. Pensare il presente, lavorare per il presente, migliorare il presente. Abituarci all’idea di rifondare una civiltà che, modificando le esasperazioni economicistiche attuali, aiuti a preparare un domani vivibile e sostenibile per tutti, nel quale «la produzione conti meno dell’attenzione al fatto stesso della nostra esistenza».

 

© Riproduzione riservata     

19 febbraio 2017   www.sololibri.net/equivalenza-catastrofi-Nancy.html

 

 

 

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NANCY

JEAN-LUC NANCY, COSA RESTA DELLA GRATUITÀ? – MIMESIS, MILANO 2018

Nella sua appassionata introduzione, la filosofa Francesca Nodari, (direttore scientifico della rassegna Filosofi lungo l’Oglio e del festival Fare Memoria), si chiede se sia possibile investigare il concetto di gratuità al di fuori della sfera esclusivamente economicistica, in un’epoca come quella odierna dominata dal consumismo e dall’individualismo. Lo fa commentando un breve ma densissimo saggio di Jean-Luc Nancy (1940), voce prestigiosa dell’intellettualità internazionale, che ha a lungo indagato le problematiche politico-sociali e la funzione della corporalità nelle dinamiche intersoggettive e comunitarie della società moderna. La riflessione di Nancy si intreccia con quella espressa negli anni ’50 da Marcel Mauss nella sua fondamentale ricerca Saggio sul dono, e con le più recenti di Derrida in Donare il tempo, e di altri francesi come Blanchot e Levinas, tutte in qualche modo riferibili alle tesi heideggeriane sull’essere dell’uomo all’interno della comunità, per cui il donare è da considerarsi un’azione di rilievo non solo personale ma soprattutto sociale.

“Cosa resta della gratuità?”, allora, nella società contemporanea dello scambio, in cui ogni individuo è inserito in rapporti di corrispondenza vicendevole con gli altri? Nancy sottolinea «È certo che nessuna forma di scambio può essere gratuita. Le due nozioni si escludono. Lo scambio implica una reciprocità». Se auguriamo “Buongiorno” incontrando qualcuno, ci aspettiamo di essere salutati allo stesso modo; usando il denaro («così desiderabile e così detestabile») ci attendiamo un profitto, sia in un acquisto sia in un investimento. La gratuità, quindi, per l’homo oeconomicus non ha senso: a un dono corrisponde un controdono, e forse solo nella natura esiste un dono senza ritorno (George Bataille diceva che «il sole dà senza mai ricevere»). Anche la generosità più disinteressata attende un beneficio perlomeno simbolico, cioè di essere ricambiata in termini di potere, distinzione, riuscita, identità: in termini di «riconoscimento del debito». Debito che non va circoscritto alla sola sfera finanziaria, ma presuppone comunque il rapporto che intercorre con l’altro in ogni campo dell’esistenza, compreso quello sessuale: un rapporto che è sempre di ostilità o accettazione, di rifiuto o desiderio.

Il do ut des degli antichi rimane pertanto basilare, perché credito e debito creano in primo luogo un legame, un vincolo tra «animali parlanti». Secondo Nancy «noi siamo» nel momento in cui «siamo-con», «co-esistiamo», pretendendo di essere riconosciuti dagli altri, non solo nei termini dell’avere (dell’appropriazione o dello sfruttamento) ma soprattutto in quelli dell’essere. Nessun gesto, in tale prospettiva, può quindi definirsi gratuito: tuttalpiù “grazioso”, nel senso etimologico latino (gratis da gradito, gradevole): «Noi lo diciamo di un gesto elegante, di un fascino, di una vena eroica così come di una tensione trascendente o sublime, di un perdono senza fondamento…». Che, in quanto donato, crea un debito, il quale può essere saldato o non onorato, ammesso o rifiutato, e necessariamente spalanca un baratro tra chi dà e chi riceve, tra chi desidera essere riconosciuto e chi riconosce (o no): «Anche ciò fa parte della strana grazia che ci è fatta di esistere», conclude Jean-Luc Nancy, e di esistere-con.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Cosa-resta-della-gratuita-Nancy.html                22 aprile 2018

 

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NANCY

JEAN-LUC NANCY, M’AMA, NON M’AMA – UTET, TORINO 2009

Va sempre più di moda, anche tra gli editori maggiori, dare alle stampe conferenze o dibattiti tenuti in pubblico da scrittori, filosofi o personaggi di rilievo mediatico. Si pubblicano le trascrizioni della conversazione, praticamente senza nessuna revisione sostanziale da parte dell’autore, in modo che il lettore ricavi dalle pagine un’impressione immediata di spontaneità, di voluta semplificazione dei concetti. Questo ovviamente comporta per le case editrici un impegno meno pressante che la cura attenta richiesta da un saggio scritto, e per chi legge una facilità di apprendimento non sottovalutabile, anche se a scapito della profondità del messaggio.

È il caso di un volume ottimamente confezionato nel 2009 dalla Utet (copertina accattivante, rilegatura solida, caratteri grandi e spaziati, titolo indovinato), che ha conosciuto una decina di ristampe, e che tuttavia poco aggiunge sia al tema trattato, sia alla fama dell’autore, il notissimo filosofo francese Jean-Luc Nancy. M’ama, non m’ama è una breve conferenza tenuta da Nancy davanti a un pubblico di adolescenti dei due sessi, in cui l’autore si prova a circoscrivere il tema vastissimo dell’amore, attraverso definizioni abbastanza generiche sulla realtà di questo sentimento, decantato da ogni letteratura, arte, musica, di cui tutti abbiamo o abbiamo avuto esperienza: dolorosa o felice, faticosa o gratificante. L’autore lo descrivere nel suo nascere, crescere e spesso finire, tra esaltazioni reciproche e delusioni, rischi e contraddizioni, nella fedeltà e nei tradimenti: scoperta dell’intimità di noi stessi e dell’altro, impossibilità di definirne una misura. Ce ne offre una definizione molto toccante, quando afferma che l’amore è “la mia capacità di ricevere, di percepire e di lasciar venire a me una persona in quanto persona, per ciò che è e indipendentemente da ciò che ha”. Aggiungendo che il gesto in cui si esprime nella sua massima gratuità e tenerezza è la carezza, che “ci insegna che quel che conta nell’amore è la presenza dell’altro, il tocco dell’altro, e in certo modo, nient’altro”.

Il volume si conclude con un dibattito, in cui i giovani del pubblico porgono, quasi con pudore, domande incuriosite sulla reciprocità dei sentimenti, sulla difficoltà di esprimerli, sul tradimento, sul narcisismo: ad essere Jean-Luc Nancy, che abitualmente nei suoi saggi utilizza terminologie e concetti di non facile comprensione, risponde con la semplicità di un nonno affettuosamente complice.

 

© Riproduzione riservata      

https://www.sololibri.net/M-ama-o-non-m-ama-Nancy.html     4 giugno 2017

 

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NANNI

FILIPPO NANNI, ALLE MIE SPALLE – VALLECCHI, FIRENZE 2022

Quante volte, assistendo a una telecronaca, sentiamo ripetere dal corrispondente la frase “Quello che vedete alle mie spalle”, come fosse un mantra, chiamando lo spettatore a testimone della veridicità di quanto viene affermato, quasi a sottintendere che il giornalismo è sempre foriero di autenticità, limpidezza, illustrazione imparziale di notizie e avvenimenti… Filippo Nanni (Roma, 1958), attualmente vicedirettore del Giornale Radio Rai dopo un lungo periodo passato a Rai News 24, autore di varie pubblicazioni, ha seguito come inviato molti avvenimenti politici, giudiziari, sportivi e di cronaca in Italia e all’estero. A pieno titolo, quindi, è in grado di indicare pregi e difetti di un mestiere non facile, quale quello del reporter, e in particolare del telecronista, nel suo ultimo libro Alle mie spalle. Le notizie in Tv, pubblicato da Vallecchi. A partire da una difesa d’ufficio del racconto televisivo, che “ha caratteristiche particolari, ma non solo può competere ad armi pari con le altre forme di giornalismo, in certi casi riesce ad avere una forza dirompente e diventa quindi ineguagliabile. Questo succede sempre quando è assistito da immagini vigorose e spettacolari”.

Forte della sua lunga militanza a Saxa Rubra, rivela al lettore le modalità con cui si svolgono ogni mattina le riunioni redazionali con i responsabili dei vari servizi da mettere in onda nel corso della giornata, secondo uno schema calibrato in ordine di importanza: cronaca, politica, esteri, società, economia, sport, e buoni ultimi cultura e spettacoli. Indica quali siano le regole fondamentali da seguire per ottenere un efficace reportage, iniziando da una seria documentazione iniziale e dalla verifica delle fonti, per proseguire con la scelta di un set adeguato, fornendo un racconto dettagliato e coerente dei fatti, ma flessibile nella conduzione. Anche il linguaggio del corpo va controllato, senza stazionare immobili davanti alla telecamera, con invadenti primi piani del cronista e degli intervistati. Voce e pronuncia sono poi fondamentali: “Proprio la voce è l’arma vincente per catturare l’attenzione. Il tono consigliato è quello medio basso. Ritmo e pause ben armonizzate conferiscono autorevolezza. Importante anche il controllo della respirazione sollecitando il diaframma”.

Molte e puntuali sono le raccomandazioni rivolte a evitare ridondanze e sciatterie nella comunicazione verbale: assolutamente censurabili sono le frasi fatte, i convenevoli, i luoghi comuni, la retorica, l’eccesso di aggettivazione, il burocratese, le pause ad effetto, gergalismi e anglicismi, domande inopportune, formule di congedo ripetitive, polemiche gratuite, ammiccamenti e sottintesi. Perché mai le persone “tragicamente” scomparse sono sempre definite “solari”? E con quale mancanza di tatto si esplorano i sentimenti di dolore, rabbia, rancore, delusione, di parenti o sopravvissuti a eventi luttuosi? Nanni segnala con asterischi i vari livelli di banalità riscontrabili nelle telecronache cui assistiamo quotidianamente, riportando sarcasticamente le formule rituali più sfruttate, gli intercalari più irritanti (“voglio dire…”), la gestualità di moda (quattro dita sollevate a mimare le “virgolette”). Ecco un divertente elenco di espressioni abusate: “il cerchio si stringe, indagini a 360 gradi, la colonnina di mercurio, il ferito versa in gravi condizioni, la morsa del gelo, l’asfalto reso viscido dalla pioggia, tanta roba, assolutamente, quant’altro…”

Un’altra grave pecca imputabile al giornalismo del piccolo schermo è l’eccessivo ricorso agli “esperti”, chiamati a esprimersi su ogni questione sociale di rilievo: opinionisti, scienziati, militari, criminologi, generici tuttologi (“Ogni giornalista radiotelevisivo può raccontare di aver contribuito ad allargare la famiglia dei nuovi mostri, soggetti con poche qualità che sono riusciti a imporsi a colpi di ospitate”).

Lavoro ingrato, quello del telecronista, oggi minacciato dal proliferare dell’informazione sui social e reso ancora più difficile da stress, fretta, controlli e divieti, competizione e concorrenza. Filippo Nanni, consapevole della sua complessità, lo descrive affettuosamente,  ironicamente, con l’obiettivo di ottimizzarne le potenzialità.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 11 maggio 2022

 

 

 

 

 

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NASSAR

RADUAN NASSAR, IL PANE DEL PATRIARCA – SUR, ROMA 2019

Raduan Nassar, considerato uno dei grandi prosatori della letteratura brasiliana, è nato a Pindorama (São Paulo) nel 1935 da genitori di origine libanese. Autore di due romanzi e di una raccolta di racconti, dopo il successo ottenuto con Il pane del patriarca e Un bicchiere di rabbia, nel 1984 ha deciso di ritirarsi in campagna smettendo di scrivere. La casa editrice romana SUR pubblica ora, con prefazione di Emanuele Trevi e traduzione di Amina Di Munno, il suo secondo libro, uscito in patria nel 1975 con il titolo di Lavoura arcaica.  Libro bellissimo.

Narratore in prima persona è André, appartenente a una numerosa famiglia proprietaria di una fazenda in Brasile: sette fratelli e sorelle cementati da un rapporto affettivo profondo e sofferto, coltivato con eccesso di premure dalla madre, e con inflessibile severità dal padre. André, per la sua morbosa sensibilità nutrita di un cattolicesimo ossessivo e frustrante, riveste il difficile ruolo del figliol prodigo, avendo ripudiato i parenti nella sua fuga da casa, a cui poi ritorna più stremato che pentito. Il romanzo è diviso quindi in due parti: l’allontanamento e il ritorno, la ribellione e la resa.

Come in tutto il volume, il capitolo iniziale – scritto magistralmente -, presenta pagine fluide prive di punti fermi, in cui solo virgole e punti e virgola segnano brevi rallentamenti del respiro: il ragazzo viene svegliato, nella camera della pensione in cui ha trovato rifugio, dal bussare affannoso del fratello maggiore Pedro, venuto a cercarlo per riportarlo all’ovile. Si snoda tra i due un dialogo intessuto di assennato rimprovero da una parte, di febbrile resistenza dall’altra: “sentii nelle sue braccia il peso delle braccia fradice dell’intera famiglia”.

Il ricatto affettivo della sofferenza dei genitori, il ricordo seducente dei luoghi e delle persone amate (le danze vivaci e leggere delle sorelle nelle vesti variopinte, la cucina annerita, i corridoi silenziosi, l’odore del fieno e del letame, una capretta dal pelo lungo) non sortiscono all’effetto sperato da Pedro: André rimane preda del suo incubo, che solo a fatica e con il soccorso dell’alcol riesce a rivelare. La più imperdonabile delle colpe l’ha allontanato da casa: la più inconfessabile delle passioni. Nel delirio del giovane, il cesto della biancheria sporca dove i familiari nascondevano i loro umori e residui fisiologici in attesa di lavatura, diventa allucinazione accusatoria. Maestosa, solennemente ammonitrice, si erge poi nella sua memoria angosciata la figura del padre, che prima del pranzo impartiva ai figli riuniti sermoni moraleggianti, parabole quasi evangeliche in cui metteva in guardia da qualsiasi eccesso comportamentale, dalla brama di denaro, dallo spreco, dalla libidine, dalla competizione, esortando invece allo zelo, all’obbedienza, al rispetto e soprattutto alla massima tra le virtù: la pazienza.

André adolescente, scisso tra il desiderio di rispondere alle aspettative paterne e l’istinto di libertà, cerca scampo in fughe solitarie nei campi, sporcandosi di terra ed erba, di rapporti promiscui e colpevoli. Sempre inadeguato di fronte alle tradizioni austere della famiglia, decide tuttavia di accondiscendere al richiamo imperioso della fisicità: “Appena uscito dall’acqua del mio sonno, ma sentendo già le zampe di un animale forte galopparmi nel petto, dissi accecato da tanta luce ho diciassette anni e la mia salute è perfetta e su questa pietra edificherò la mia chiesa privata, la chiesa per il mio uso, la chiesa che frequenterò scalzo e con il corpo nudo”. In un pomeriggio luminoso, nella casa abbandonata dei nonni, ha l’improvvisa apparizione della bellezza, a cui cede, dannandosi e salvandosi insieme: “lei era lì, bianco bianco il viso bianco e io potevo sentire tutto il dubbio, il tumulto e i suoi dolori e potei pensare pieno di fede io non mi sbaglio in questo incendio”. In tre pagine che si sollevano all’altezza di un cantico biblico, Raduan Nassar descrive l’abbandono e il volo, il timore e il tremore di un bambino convertito all’unica redenzione possibile.

André cerca vanamente di comunicare al fratello, tanto simile al padre, la sua esperienza trasfigurante: riesce solo a sfogare, “schiumante e addolorato”, la propria ansia di ribellione e verità, l’esasperazione contro ogni soffocante conformismo. “Io dovevo gridare che la mia pazzia era più saggia della sapienza del padre, che la mia malattia mi era più congeniale della salute della famiglia”. Pedro, dopo aver ascoltato sconvolto la sua confessione, lo riconduce nella fazenda amata-odiata dei genitori, esteriormente più docile e arreso, intimamente disperato. Il sollievo dei parenti non riesce a mascherare il disagio, l’imbarazzo, la paura aleggiante nell’aria: padre e madre improvvisamente invecchiati, non trovano le parole giuste per accogliere e comprendere il figliolo recuperato al loro affetto, che li aggredisce, scoprendosi estraneo alla rassegnata normalità di un mondo non più suo: “Non ci si può aspettare da un recluso che serva volentieri in casa del carceriere”. I rapporti violentemente spezzati non si ricomporranno nel tripudio della festa di ringraziamento, e la tragedia si consumerà in una macabra danza sacrificale.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 3 giugno 2019

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NASSIB

SÉLIM NASSIB, L’AMANTE PALESTINESE– E/O, ROMA 2005

Riguardo al romanzo L’amante palestinese di Sélim Nassib, pubblicato in Italia nel 2005 da E/O, Giancarlo De Cataldo si era allora espresso in questi termini entusiastici: “Un canto disperato all’amore folle che travolge le barriere e le differenze, l’amore che, se si potesse vivere sino in fondo, cancellerebbe tutte le guerre”.

L’amore travolgente di cui narra Nassib sarebbe quello, clandestino e osteggiato da tutti, nato tra Golda Mair e Albert Pharaon, lei ebrea lui palestinese, lei militante del movimento sionista e futuro primo ministro di Israele tra il 1969 e il 1974, lui rampollo di una famiglia di banchieri libanesi e proprietario di una scuderia di cavalli da corsa. Entrambi sposati, entrambi genitori di due figli, si incontrano a Gerusalemme nel 1929 e vivono per quattro anni un’intensa relazione affettiva e sessuale, ovviamente stigmatizzata dalle reciproche comunità di appartenenza.

Storia vera, romanzata o del tutto inventata? L’autore afferma di averla conosciuta da sempre, riportata a bassa voce da alcuni suoi amici, parenti stretti di Albert Pharaon. Sélim Nassib, nato e cresciuto a Beirut, è stato inviato nei Territori occupati per conto del quotidiano francese Libération e attualmente vive a Parigi. Ha pubblicato altri quattro romanzi con E/O, di cui gli ultimi due quest’anno: La ribelle di Gaza e Il tumulto.

Il volume di cui parliamo si apre con la descrizione della vita di Golda nel Kibbutz di Merhavia, dopo il trasferimento dagli Stati Uniti con il marito Morris Myerson. Il duro lavoro per bonificare la palude circostante, la mal tollerata promiscuità dell’esistenza collettiva e la severità delle regole imposte, insieme alla claustrofobia dell’esistenza familiare, l’avevano spinta ad assumere impegni politici di rilievo all’interno del nascente partito sionista, e alla frequentazione dei suoi principali esponenti politici: Ben Gurion, Ben Zvi, Katznelson, Levi Eshkol, il fraterno amico David Remez, da cui venne aiutata a evadere verso Tel Aviv, città laica e moderna dove le fu facile trovare un lavoro gratificante, affidando i bambini Menachem e Sarah alla sorella. Parallelamente alle vicende di Golda, Nassib racconta le circostanze biografiche che avevano convinto Albert Pharaon ad allontanarsi dall’ambiente familiare di Beirut (la moglie e i figli poco amati, la futilità dei rapporti sociali nell’alta borghesia libanese, la passione per i cavalli) per trasferirsi ad Haifa, sua città natale, concedendo alla propria inquietudine frequenti valvole di sfogo in ripetuti viaggi in Europa.

Fino a questo punto, la storia narrata risponde a fatti storicamente verificabili, così come la narrazione dei violenti scontri avvenuti in quegli anni tra arabi ed ebrei, e il rancore di entrambi i popoli verso il dominio britannico. Meno assodabile è lo svolgimento e la maturazione del rapporto amoroso tra Golda e Albert, a partire dal loro primo incontro, avvenuto a Gerusalemme durante la festa in onore del compleanno del re Giorgio V, tenutasi alla Government’s House nel giugno del 1929, alla presenza delle personalità più in vista del mondo politico ed economico musulmano ed ebreo.

Golda, accompagnata dal suo amante Zalman Shazar (poeta, storico e futuro presidente di Israele dal 1963 al 1973) partecipa come traduttrice ufficiale per la folta rappresentanza britannica. Viene descritta come decisa e scontrosa, agile pur nella sua robustezza, dai capelli fitti e neri, dallo sguardo indagatorio. Albert, elegante nell’abito di fattura inglese, dai gesti fluidi e dagli occhi tenebrosi, appare come un ibrido tra oriente e occidente, “un miscuglio improbabile di belva e di uccello ferito”. Tra i due scocca, inevitabile, il colpo di fulmine. Si danno appuntamento a casa di lei per la notte successiva, in cui consumano il loro primo focoso amplesso. Faccio fatica a coniugare quest’aspetto disinibito e sensuale della giovane Golda Meir con l’immagine della rigorosa donna di potere – anziana, arcigna, corpulenta, calzante dimessi scarponcini ortopedici -, recuperata dalla memoria dei miei ultimi anni di liceo. Ma Nassib si lascia trascinare in una descrizione che assume i toni eccitati e francamente un po’ ridicoli del feuilleton popolare: “Golda cede, subito, come una diga che si rompe sotto la pressione… I corpi si urtano e si lacerano senza freni… Non hanno abbastanza denti per mordersi, abbastanza braccia per stringersi… Si affrontano con assalti ripetuti, perfino le carezze briciano”. Eccetera.

L’autore in più di un’intervista ha affermato che alla radice dell’esperienza intima del Medio Oriente, c’è “un formidabile desiderio sensuale […] quasi sempre frustrato”.  E proprio su questa sensualità del mondo arabo, non solo nella fisicità dei corpi, ma anche negli odori e colori del paesaggio naturale, torna spesso nel corso della narrazione. Che si snoda lungo i quattro anni successivi del tormentato rapporto tra i due innamorati, sempre più coinvolti nei destini incrociati dei loro popoli. Gli scontri intorno al Muro del Pianto avvenuti subito dopo il loro primo incontro li avevano visti fronteggiarsi astiosamente, e l’incomprensione era cresciuta dopo la strage di Hebron con l’uccisione di 67 ebrei, mentre il protettorato britannico continuava a comportarsi in maniera ambigua, appoggiando prima una poi l’altra delle fazioni contrarie.

«“Tu non conosci la società palestinese” mormora Albert. “È povera, per tre quarti analfabeta. Non capisce nulla di quanto le sta succedendo. Le terre vengono comprate e i contadini, trasformati in fantasmi, infestano le strade di Haifa e di altre regioni. Non sanno nemmeno più con chi lamentarsi né con chi prendersela. Per dieci anni i palestinesi si sono fidati dei propri dirigenti, senza rendersi conto che questi ultimi erano impotenti o complici. E quando l’hanno capito, alcuni sono impazziti e hanno risposto selvaggiamente alla violenza inafferrabile che subivano. È orribile. Ma voi siete in questa terra, tra questa gente. Non avete scelta. Siete obbligati a vivere con noi”.
Golda non ha sentito nulla, è cieca. Ma alle ultime parole di Albert trasalisce come per effetto di una scarica elettrica. Ha voglia di ucciderlo. Albert vede che ha voglia di ucciderlo. Lei grida: “Noi? Chi sono questi noi? Noi siamo venuti qui per non dipendere più da nessuno, capisci? Non ci sono altri all’infuori di noi!”»

Gli amori clandestini tra arabi ed ebrei non erano infrequenti in Palestina, ma quello tra Golda e Albert si rivela sempre più impossibile proprio per la crescente influenza di lei all’interno del movimento sionista, che sicuramente non poteva in alcun modo approvare il tradimento di una sua dirigente con il nemico. La rottura, prevedibile ma dolorosa per entrambi, arriva nel 1933: le loro esistenze si divaricano, tra nuove avventure sentimentali e differenti approdi ideologici. La vita di Albert sbiadisce con malinconica rassegnazione, quella di Golda si direziona verso un trionfo politico riconosciuto a livello internazionale, in una terra sempre più dilaniata dall’odio e dalla violenza.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 23 novembre 2024

 

 

RECENSIONI

NATANGELO

MARIO NATANGELO, CENERE – MONDADORI ELECTA, MILANO 2024

Secondo Erri De Luca, che ha scritto una breve nota introduttiva a Cenere, quando muore la propria madre. “si sradica l’albero della vita e al suo posto si forma un vuoto di voragine”. Cenere è l’ultimo libro pubblicato dal vignettista satirico Mario Natangelo (Napoli 1985), che dal 2009 disegna le sue strisce per Il Fatto Quotidiano, dopo aver esordito su Linus, Samarcanda e L’Unità. Quest’ ultima opera è il resoconto a fumetti del lutto patito con la perdita della mamma, morta nel marzo del 2023 a 62 anni in seguito a una lunga e penosa malattia. Pochi giorni dopo le esequie e la cremazione, strazianti come succede in ogni addio definitivo, Natangelo ha iniziato a pubblicare sul suo quotidiano una trentina di tavole in cui raccontava la sua esperienza del distacco, offrendo insieme un affettuoso omaggio alla persona più cara.

Diario di un dolore intimo, privato, che sa farsi collettivo nel momento in cui riflette l’esperienza sofferta da molte altre persone, senza caricarla di retorica o pietismo, ma alleggerendola con una dose calibrata di ironia rivolta principalmente a chi racconta sé stesso e il mondo che gli ruota intorno.

Cosa fa un figlio adulto quando sua madre viene a mancare? Ripercorre la strada che ha condiviso con lei dall’infanzia, ricorda episodi minuscoli (tenerezze, impazienze, litigi, gite, canzoni), raduna e conserva gli oggetti più significativi, ripesca fotografie, legge testimonianze di autori che hanno patito lo stesso strazio (Barthes, Loewenthal, De Luca, Camon, Murakami), e soprattutto si rimprovera per le disattenzioni e le insofferenze con cui l’aveva ferita.

La prima tavola pubblicata su Il Fatto raffigura l’autore seduto su una barella del Policlinico Gemelli, alle due di notte, un’ora dopo il decesso di lei, mentre i parenti – raccolti intorno al cadavere disteso sul letto e coperto da un lenzuolo -, si tengono per mano, piangendo e recitando il rosario. Il commento irriverente del figlio esplode con sarcasmo: “Che terroni!”. Ma subito dopo vengono cercati proprio nei familiari più prossimi conforto, comprensione e vicinanza: nella sorella Anna, nelle nipotine, negli zii e soprattutto nell’ “amato padre”. Figura, quest’ultima, mal sopportata e bonariamente contestata, perché lontana dalla sensibilità materna e in perpetuo conflitto con l’erede maschio (“Dio dimmi: perché ti sei preso il genitore sbagliato?”), ma infine riscoperta proprio nella comunanza delle memorie e della nostalgia, al punto che gli si regala un cagnolino con l’intento di alleviarne la solitudine vedovile.

Dopo qualche giorno di sbandamento e incredulità, il dovere professionale riprende il sopravvento su chi scrive (“il lavoro è un ottimo posto in cui nascondersi dal dolore”), e l’idea di condividere con i lettori il proprio sconforto trova subito una rispondenza solidale nel pubblico, creando una comunione di reciproche confessioni e consolazioni. Nella ricorrenza del trigesimo dalla scomparsa della madre, Natangelo pubblica una caustica striscia contro la moglie del ministro Lollobrigida che gli procura critiche e querele, facendolo ripiombare nell’atmosfera straniante delle polemiche futili della carta stampata e degli scontri politici, e distraendolo crudamente dalla necessità di raccogliersi ancora nell’intimità del ricordo e del rimpianto. È “il primo passo nel dopo”, nel vuoto della perdita, nella mancanza di un sostegno insostituibile, ma anche nell’accettazione di un destino che accomuna tutti gli esseri viventi. L’ultima tavola firmata dal vignettista si intitola appunto “salvezza”, perché “nel dopo siamo tutti salvi”, quando qualcosa di fondamentale è finito, e altro ricomincia a vivere.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 25 marzo 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NATOLI

SALVATORE NATOLI, L’ANIMO DEGLI OFFESI E IL CONTAGIO DEL MALE

IL SAGGIATORE, MILANO 2018

Uno dei più importanti e lucidi filosofi italiani, Salvatore Natoli, ha dedicato un saggio ai Promessi Sposi, rileggendoli in un’ottica particolare, non tanto e non solo letteraria, ma soprattutto da un punto di vista etico e sociologico. L’animo degli offesi e il contagio del male esplora dunque i temi eterni e contrapposti di bene e male, innocenza e colpa, perdono e vendetta, giustizia e sopruso, indagando la psicologia e il comportamento dei principali personaggi manzoniani, e confrontandoli con le modalità di reazione delle vittime e dei carnefici contemporanei. Partendo dalla definizione di classicità dei Promessi Sposi, “un modello di lingua e scrittura” che oltre ad aver costituito un codice linguistico è stato un “grande romanzo popolare”, Natoli si sofferma su un episodio particolare, raccontato nel secondo capitolo, quando Renzo, dopo aver affrontato in un violento alterco Don Abbondio, torna a casa infuriato, “con una smania addosso di far qualcosa di strano e terribile”. L’atteggiamento reattivo di Renzo, condivisibile da parte di chiunque subisca una violenza, suscita il commento fuori campo dell’autore, che così si esprime: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi”.

Il male quindi produce un effetto duplice: non solo nella sopraffazione materiale compiuta, ma anche nel trasformare i buoni in cattivi, inducendoli ad emozioni, e spesso ad azioni, vendicatrici e a loro volta colpevoli. Renzo, da giovanotto schietto e pacifico qual è, si sente tentato da sentimenti addirittura omicidi, rischiando così di passare dalla parte del torto. Il male infetta, è epidemico e contagioso. Ammorba l’animo degli offesi, come rilevava anche Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Natoli distingue poi tra male patito e male inflitto: il primo (la peste manzoniana, i terremoti, le carestie, i mutamenti climatici che costringono milioni di persone a emigrare) è naturale, inevitabile e innocente; il secondo ha responsabilità umane, è colpevole, iniquo e pertanto imputabile. Tra i personaggi dei Promessi Sposi che hanno patito il male, sono da citare Renzo e Lucia, Agnese, il popolo minuto; tra coloro che hanno inflitto il male Don Rodrigo, Gertrude, Egidio, l’Innominato, i rappresentanti del potere. Don Rodrigo incarna la prevaricazione, il capriccio, il desiderio che non si pone limiti; Gertrude, il prodotto patologico di una tortura familiare e sociale che si vendica della propria sofferenza; Egidio la violenza bruta; l’Innominato la sopraffazione del comando. Poi ci sono i vili, gli inetti, i cinici, gli ipocriti, gli intriganti. Manzoni è maestro nello scrutare la fragilità umana, l’ambiguità esistente all’interno delle strutture sociali ed ecclesiastiche, il dolore degli innocenti così come le nefandezze dei colpevoli. I monatti che lucrano sui morti di peste rimandano alla crudele avidità degli scafisti di oggi.

Come rispondere al male, se nemmeno affidarsi alla Provvidenza aiuta? Secondo Natoli “Per riparare all’ingiustizia non vi è altro modo che operare secondo giustizia… Ogni atteggiamento reattivo replica il misfatto, non lo riscatta: lo spirito di vendetta ne è la mimesi… non libera affatto dal male ma lo diffonde”. L’unica maniera per spezzare la catena del male è praticare il bene, rispondendo all’odio con il perdono, come raccomandava Fra Cristoforo a Renzo davanti all’agonia di Don Rodrigo.

Rimane ineludibile la domanda: si possono perdonare i reati, o vanno comunque penalmente perseguiti? Perdonare assolve anche il crimine?

 

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https://www.sololibri.net/animo-offesi-contagio-male-Natoli.html   4 aprile 2018