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RECENSIONI

NELLO SCAVO

NELLO SCAVO, L’ORIZZONTE DI NOTTE NON ESISTE – MANNI, LECCE 2023

Nello Scavo (Catania, 1972), inviato speciale del quotidiano Avvenire, è autore di inchieste importanti e coraggiose. Reporter internazionale, cronista giudiziario, corrispondente di guerra, collabora anche con diverse testate estere. Si è occupato dei conflitti in Africa e in Medioriente, di immigrazione clandestina, di politica vaticana, dell’invasione russa in Ucraina. Nel gennaio 2019 è stato il primo giornalista a salire a bordo della nave Sea Watch 3, che per  settimane è stata bloccata in mare dopo avere soccorso 49 migranti a cui non era stato permesso di sbarcare. La sua ultima pubblicazione, L’orizzonte di notte non esiste, mette in discussione il concetto di “confine” tra stati, là dove le frontiere nascondono in realtà muri invalicabili per chi cerca di superarli nel tentativo di salvare la propria vita. Il confine può essere una semplice formalità, o il bastione di una fortezza difeso con inflessibile crudeltà da forze militari impermeabili al sentimento della pietà.

Il testo di Scavo, rappresentato a Bologna nel luglio del 2021 con voce recitante di Ottavia Piccolo su accompagnamento musicale, racconta dunque la sofferenza di uomini donne bambini costretti a lasciare il proprio paese per cercare rifugio in zone ritenute più sicure e più ricche di quelle che abbandonano. Più sicure, ricche, sane. Raramente accoglienti.

La narrazione alterna alla nuda illustrazione di dati sui migranti la testimonianza di alcuni casi particolari, altamente drammatici, esposti con un coinvolgimento commosso ed empatico, che fa assumere alla scrittura un tono quasi lirico.

I profughi oggi sono circa 70 milioni, più di quanti ne ha provocati la seconda guerra mondiale: questo esodo massiccio e ingovernabile movimenta miliardi di dollari a beneficio dei contrabbandieri. Nel marzo dello scorso anno, la Corte penale dell’Aja si è pronunciata qualificando gli abusi contro i migranti come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ma nella stessa data il Consiglio di sicurezza dell’Onu, mentre condannava l’invasione russa in Ucraina, taceva delle violenze in Libia. Violenze che hanno portato il diciannovenne Mohamed, scappato dal Darfur, torturato e abusato nel campo di prigionia di Ain Zara, a impiccarsi. Il Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione in Libia viene sovvenzionato economicamente dal nostro paese, perché tenga lontani i profughi dai nostri mari. Contro questa tratta di carne umana si battono generosamente alcuni buoni samaritani, come don Mattia Ferrari, sacerdote modenese finito sotto tutela delle forze dell’ordine a causa delle minacce ricevute da ambienti vicini ai trafficanti e alle autorità libiche, o come la macedone Lence Zdravkin, che soccorre i rifugiati sulla rotta balcanica.

Gli episodi narrati da Nello Scavo sono diversi e ugualmente toccanti, sia che raccontino del piccolo ivoriano Simba (uno dei tantissimi “invasori con il pannolino” da cui ci difendiamo), che da un barcone “latrina di escrementi, carburante e vomito” viene gettato di notte tra le braccia di un operatore su una scialuppa della Guarda costiera, sia che descrivano la brutalità cui vengono sottoposti i bambini siriani, libanesi, turchi, giordani, costretti a lavorare 12 ore al giorno in botteghe artigiane, o trasportando sacchi di carbone. Nel deserto al confine tra il Messico  e il Texas sono sempre i minori che patiscono le angherie di contrabbandieri, pagati per scagliarli al di là del muro, chiusi in sacchi come fagotti. Persino le strutture di soccorso finanziate dall’Unione Europea come Moria, in Grecia, non garantiscono le misure elementari di igiene e assistenza. “Concepita per 3.000 migranti e profughi, ne ospita 20.000: un bagno (sporco) ogni 160 persone, una doccia ogni 500, una fonte d’acqua ogni 325”.

L’autore stesso ha provato sulla sua pelle il senso di abbandono e paura, come quando, in un viaggio dalla Somalia all’Etiopia per testimoniare ingiustizie e violenze del continente africano, è stato abbandonato dalla sua guida Hassan, che riteneva troppo pericoloso accompagnare oltre il confine un giornalista bianco, un “walking dollar”, banconota che cammina,  pollo da spennare, o da sequestrare negoziando un riscatto.

I confini, barriere fisiche e mentali, muri che dividono difendendo le civiltà evolute e condannando i poveri e gli sfruttati, si confondono nel buio della notte, come recita il titolo del libro: “L’orizzonte, di notte, non esiste. Il confine tra il pianeta e il firmamento, semplicemente sparisce. È così che viaggiano i sogni. È così che cominciano gli incubi. In un campo di prigionia, su una zattera, con le braccia trapassate dal filo spinato, oppure nello sguardo perso di un bambino nel deserto. È così che la Storia ci rivolgerà una domanda antica: «Caino, dov’è tuo fratello?»”.

 

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SoloLibri.net › … › L’orizzonte di notte non esiste di Nello Scavo,  2 febbraio 2023

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NEMIROWSKI

IRÈNE NÉMIROWSKI, LO SCONOSCIUTO – EDB, MILANO 2018

Di Irène Némirowski negli ultimi anni sono state tradotte molte opere: la più famosa, Suite Francese, ha avuto una risonanza mondiale. Proprio da questo romanzo, le edizioni Dehoniane hanno tratto una breve novella, Lo sconosciuto, proponendola in versione cartacea e in e-book. Dell’autrice, dobbiamo ricordare che nata nel 1903 a Kiev, in Ucraina, da una famiglia benestante di origine ebraica, dopo un’infanzia difficile dovette riparare in Finlandia, poi in Svezia e infine in Francia in seguito allo scoppio della rivoluzione russa. Convertitasi al cattolicesimo nel 1939, fu comunque arrestata in quanto ebrea nel 1942 e morì di tifo ad Auschwitz un mese dopo.

Il racconto di cui ci occupiamo risente naturalmente di questa atmosfera plumbea di violenza, persecuzione, miseria e pericolo, essendo ambientato nel maggio del 1940 in una stazione ferroviaria di una cittadina del Nord della Francia, invasa da profughi provenienti da zone occupate dai tedeschi: Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo. Nel disordine e nella disperazione di tanta gente ammassata (donne che partoriscono, vecchi malati, soldati feriti, tutti in attesa di prendere treni che non arrivano, sperando di scampare ai bombardamenti), si ritrovano semisdraiati sul marciapiede due fratelli, Claude e François, tornati in licenza dai rispettivi campi di combattimento per partecipare alle nozze della sorella. Claude è il più giovane, vivace e desideroso di dimostrare il proprio amor di patria in battaglia; François (più anziano, stanco, privo di illusioni e preoccupato per aver dovuto lasciare la moglie e i bambini), tradisce un tormento interiore che fatica a comunicare. “La notte era così limpida che si potevano vedere distintamente i volti disfatti, i vestiti sgualciti, i fagotti di biancheria e di poveri stracci, talvolta una gabbia d’uccelli coperta da un pezzo di stoffa scura, oppure una cesta dove miagolava un gatto, anche una barella”.

Nello squallore che li circonda, François confida finalmente a Claude un episodio recente occorsogli durante un pattugliamento isolato, in cui si era trovato a uccidere un giovane soldato tedesco. Rimasto accanto al cadavere del nemico sconosciuto, fruga nel suo portafoglio per recuperarne i documenti da inviare eventualmente alla famiglia. Tra varie fotografie, ne scopre una che ritrae i genitori del ragazzo: con stupore e sgomento riconosce nel padre di lui le sembianze del suo, disperso in Germania durante la prima guerra mondiale. Ricostruisce così la vicenda paterna, sempre ignorata, ma forse supposta e temuta: un ferimento, una probabile diserzione, e l’esistenza ricostruita oltre confine formando una nuova famiglia. Confrontatosi con Claude, François – assassino di un proprio fratello, nel ruolo inaspettato e crudele di novello Caino (“una cosa così … così straordinaria e così tragica”), si chiede se sia opportuno recuperare i rapporti con la matrigna tedesca, per concludere alla fine che “Ci sono cose che è meglio non dire”.

L’approfondita postfazione di Jean-Louis Ska perviene a una conclusione veritiera, anche se un po’ scontata: “Gli uomini sono fratelli e sono le circostanze o i discorsi ideologici che li trasformano in nemici”.

 

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https://www.sololibri.net/Lo-sconosciuto-Irene-Nemirovski.html        23 luglio 2018

 

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NEMIROWSKY

IRÈNE  NÈMIROWSKY, L’INIZIO E LA FINE – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2013

“Camille Deprez non avrebbe accettato di piegare il rigore delle leggi per piacere nelle alte sfere, ma aveva come massima meta l’arte comune agli ambiziosi di armonizzare le sue convinzioni con i suoi interessi. Nel mondo della giustizia aveva sempre goduto di un prestigio che si rifaceva meno alle sue funzioni che alla sua austerità, alla sua integrità. La sua giustizia era temibile. Tuttavia non era odiato, ma rispettato così come temuto. Nel senso del rigore soltanto. Lui si sentiva moralmente autorizzato a mettere d’accordo il proprio dovere con le proprie passioni”.

Il protagonista di questo bel racconto di Irène Nèmirowsky è un inflessibile procuratore di provincia, interessato tanto alla sua carriera quanto al trionfo delle legge, impermeabile a qualsiasi supplica o corruttela, e insensibile a ogni commozione. Condannato da un tumore in fase terminale, si trova a riesaminare la propria vita con la stessa severità con cui ha sempre giudicato le esistenze altrui, senza fare sconti né a se stesso né a chi si trova di fronte a lui in qualità di imputato. In questo caso, il figlio di un importante e contestato uomo politico: accusato di aver ucciso la moglie per gelosia, il giovane sarà in realtà oggetto di diverse valutazioni morali proprio in conseguenza del potere paterno. Procuratore e assassino si fronteggiano davanti al tribunale definitivo della morte, entrambi colpevoli in modi diversi. L’autrice spinge il lettore a interrogarsi sul mistero insondabile del male, sulla sua inevitabilità esistenziale, sulla sofferenza che provoca sia nelle vittime sia nei suoi artefici, sull’impossibilità del perdono legale, e sulla difficoltà della clemenza. Irène Nèmirowsky scrisse questo racconto (finora inedito in Italia) nel 1935, contemporaneamente al romanzo Jezabel, che pure tratteggia una figura femminile condannata per omicidio, egocentrica e incapace di pietà, in cui l’autrice rifletteva forse il tormentato rapporto con sua madre.

 

«Leggere Donna» n. 166, gennaio 2015

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NEMIROWSKY

IRÉNE NÉMIROWSKY, JEZABEL – GARZANTI, MILANO 2014

Garzanti ripropone il romanzo di Iréne Némirowsky pubblicato nel 1936, di cui il traduttore e prefatore Lanfranco Binni sottolinea «l’epicità quasi brechtiana», capace di tratteggiare «un ritratto indimenticabile di donna, antico e moderno, archetipico e storico, crudele e vero, che affronta con dolore e con rabbia le dinamiche della complessità femminile e della sua prigione sociale». La protagonista del racconto è la gelida e bellissima aristocratica Gladys Eysenach, reincarnazione della spietata regina biblica Jezabel: smaniosa di asservire persone, sentimenti e situazioni esistenziali ai suoi personali ed egocentrici capricci, incurante delle sofferenze ed umiliazioni altrui, ed ossessionata esclusivamente dalla cura del suo aspetto fisico. Il romanzo si apre con queste parole:«Una donna entrò nella gabbia degli imputati». E’ appunto Gladys, accusata di aver ucciso un giovane penetrato nella sua camera da letto. Forse il suo amante, forse un ladro o un ricattatore: la donna viene condannata a una pena mite, e il sipario si chiude sulla sua vita inquieta e tutto sommato infelice. Ma la gabbia del tribunale in realtà è metafora di ben altra e più feroce costrizione: Gladys non accetta di invecchiare, è terrorizzata dall’idea di non venire più amata dagli uomini, di perdere il suo fascino seduttivo. «Com’era dolce vedere un uomo ai suoi piedi…Detestava la sofferenza; come i bambini, si aspettava ed esigeva la felicità». Passando da un amante all’altro, aspirando solo a suscitare invidia e ammirazione, arriva a falsificare il suo atto di nascita per celare i suoi anni, a frequentare squallide case d’appuntamento pur di godere della sua insaziabile sessualità: ma soprattutto proibisce all’unica figlia di realizzarsi nell’amore e nella maternità, lasciandola morire con indifferenza. La sorpresa finale riguardante l’identità del giovane ucciso riscatta la narrazione, con l’incalzare degli avvenimenti, da qualche indulgenza a toni da feuilleton.

 

«Leggendaria» n.111, maggio 2015

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NENCINI

RICCARDO NENCINI, IL MAGNIFICO RIBELLE – POLISTAMPA, FIRENZE 2017

Riccardo Nencini, Segretario Nazionale del Partito Socialista Italiano, «mugellano di nascita e fiorentino d’adozione» (come viene definito dal medievalista Franco Cardini nella sua affettuosa introduzione), ha pubblicato per Polistampa un saggio illustrato sulla vita e l’opera di Giotto: una settantina di appassionate e animose pagine che l’autore dichiara «figlie di una lunga ricerca d’archivio e di almeno una decina di conversazioni» con autorevoli storici e critici d’arte. In uno stile discorsivo e spigliato, Nencini si rivolge al lettore con un reiterato intercalare che sembra sollecitare non solo partecipazione e condivisione, ma addirittura consenso e solidarietà con le sue tesi («Immagina gli effetti», «Intendiamoci bene», «Giudica tu», «Veniamo al dunque». «Ora ascoltami bene» …).

Nel riscostruire l’ambiente in cui Giotto si formò e visse, propone una lettura non asetticamente specialistica dei suoi dati biografici e del suo percorso artistico, delineando così le caratteristiche principali di colui che rivoluzionò i canoni pittorici dell’epoca. Il volume illustra inizialmente il ruolo di faro intellettuale che tra 1200 e 1500 rivestiva Firenze, città che pur essendo svantaggiata quanto a posizione geografica (nessuno sbocco al mare, e lontana dalle grandi vie di comunicazione) seppe diventare il fulcro culturale della nostra penisola, culla di letteratura e arte, di commerci e prezioso artigianato: «fucina della conoscenza e del benessere». Quindi passa a indagare il paesaggio, aspro e seduttivo insieme, del Mugello, supponendolo verosimile scenografia degli affreschi giotteschi. In particolare, Nencini teorizza una corrispondenza geografica tra l’affresco dipinto ad Assisi “Il Miracolo della sorgente” e la cascata del torrente Rovigo, stretta tra gole rocciose che ricordano lo sfondo del quadro, fornendo testimonianze iconografiche della sua ipotesi. Da qui prende avvio la convinzione, suggestiva e polemica, che pretende Giotto nato non a Firenze, come vorrebbe la tradizione, ma proprio nel Mugello. E per precisione a Colle, allora frazione di Vespignano, nel 1267: non da una famiglia di contadini o lanaioli, bensì da un fabbro di nome Bondone di Angiolino. Giotto avrebbe ereditato dal nonno il nome, poi storpiato in Angiolotto; sarebbe stato battezzato nella pieve di Colle, e nel corso di tutta la sua esistenza avrebbe avuto in quelle campagne consistenti interessi fondiari, effettuandovi numerose compravendite di terreni e fabbricati, e affrontando diverse controversie giudiziarie.

Riccardo Nencini basa questa sua tesi su numerosi dati d’archivio, fonti letterarie, ricostruzioni genealogiche, atti notarili e certificazioni degli investimenti immobiliari. Un’accurata ricerca, la sua, a cui non è estranea forse una punta di orgoglio campanilistico, oltre al legittimo desiderio di ripristinare la verità storica. Giotto mugellano, quindi, e non fiorentino: come Riccardo Nencini. Il saggio, con prefazione della Professoressa Cristina Acidini, è completato da una cronologia delle attività economiche del pittore, e da una bibliografia.

 

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www.sololibri.net/Il-magnifico-ribelle-Nencini.html      7 settembre 2017

 

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NERI

GIAMPIERO NERI, VIA PROVINCIALE – GARZANTI, MILANO 2017

Giampiero Neri (Erba, 1927) è arrivato a pubblicare il primo libro di poesia piuttosto tardi, nel 1976, dopo essersi dedicato a studi scientifici e filosofici, e al suo lavoro di bancario, esercitato per tutta la vita. I critici gli hanno generalmente riconosciuto una tenace professionalità nell’accostarsi alla parola scritta, fatta di impegno nell’osservazione della realtà e di fedeltà alla sua memoria personale: caratteristiche che si sono coerentemente espresse nella ricerca puntuale di uno stile colloquiale, quasi prosastico, e nella discrezione con cui ha interpretato il suo ruolo di intellettuale.

Oggi, novantenne, firma per Garzanti un volume di versi, Via Provinciale: nome della strada che da Erba conduce verso Como, attraversando i luoghi d’infanzia, abbandonati dopo l’assassinio politico del padre nel 1943. Quest’ultima opera di Neri è contrassegnata, anche graficamente, dalla scelta formale di esibire prose poetiche occupanti orizzontalmente l’intera riga, senza spaziature bianche, con scarsi a capo indicanti le troncature. Raccontini, illuminazioni, brani narrativi, squarci diaristici che mantengono però della poesia il ritmo e una sorta di musicalità interna, determinata dall’essenzialità espressiva del contenuto, dalla sua sobria necessità. Sull’esempio di Francis Ponge o di Dino Campana (ai cui Canti Orfici rende così omaggio: «uno dei grandi libri di poesia del Novecento italiano, testimonianza e riscatto della povera vita del suo autore»), Giampiero Neri nega qualsiasi aura lirica dell’espressione poetica, rivendicandone invece una scarna drammaticità di valore etico.

I temi di questa raccolta rimangono quelli tipici della sua scrittura precedente: la storia collettiva, raccontata nella sua inescusabile violenza, soprattutto relativa agli anni della seconda guerra mondiale che più hanno segnato la vita del poeta: qui però la sofferenza sociale si parcellizza nei ricordi infantili e giovanili del poeta (i vicini che si mangiavano il gatto, gli insegnanti con la divisa fascista, i compagni di giochi inventati con niente, le prime rivendicazioni salariali).La crudele indifferenza delle azioni umane trova un suo tragico riflesso anche nella durezza della natura, mai descritta idilliacamente, ma sempre con disincantato realismo, pur scevro da ogni volontà di condanna o di giudizio. Neri elenca animali domestici e selvatici che hanno marginalmente o profondamente segnato il suo immaginario: cani, vespe, caprioli, cavallette, bisce, aquile, leopardi, maiali.

Con la stessa leggera nonchalance cita i nomi di letterati classici e moderni che hanno nutrito la sua scrittura: da Ennio a Cicerone, da Collodi a Fenoglio, da Tolstoj a Grossman. O racconta episodi minimi della sua vita lavorativa in banca, di colloqui con conoscenti e conferenze cui ha assistito, di riflessioni sull’architettura e la toponomastica della sua città. E questi bozzetti tracciati con pennellate impressionistiche si concludono per lo più in sordina, con qualcuno o qualcosa che sparisce, si eclissa, rivelando amaramente la sua amara inconsistenza, non importanza, inadeguatezza. Tale quasi anglosassone understatement di Giampiero Neri si esemplifica chiaramente in alcune sentenze dal sapore proverbiale, di antica sapienza orientale: «Si dice di un maestro zen che, prossimo a morire, aveva invitato i discepoli nel suo giardino e rivolto a loro, sentendo gli uccelli cinguettare sui rami, aveva detto: “È tutto questo e nient’altro”».

Possiamo definire poesie i piccoli brani narrativi di Via Principale? Secondo me, alcuni di essi potrebbero venire letti come fossero versi, decasillabi o settenari, sullo stile discorsivo di un Giudici e di un Raboni. Per esempio: «Ben altro teneva l’attualità, / la guerra stava volgendo al termine». E ancora: «”Ci sarà il tempo” mi diceva il custode / “per capire anche gli altri”». Perché in fondo, cos’è la poesia? «La poesia, come il soffio del vento, va dove vuole e la si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano, come è stato detto».

 

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www.sololibri.net/Via-provinciale-Giampiero-Neri.html;  15 marzo 2017

 

 

 

 

 

 

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NESSI

ALBERTO NESSI, TUTTI DISCENDONO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Alberto Nessi è poeta e scrittore ticinese tra i più noti per le frequenti collaborazioni a giornali trans- e cisalpini (dal Tages Anzeiger, al Quotidiano, a Cooperazione) e per il suo lavoro assiduo, attento, di sensibile cronista di un’età e di una regione in stridente conflitto tra loro e in se stesse. Zona di confine quella che fa da sfondo all’esistenza di Nessi (insegnante alle scuole medie in congedo) e nutre la sua scrittura: zona circoscritta – Chiasso, Mendrisio, Coldrerio – ma nello stesso tempo proiettata al di là di concreti e invisibili dogane dell’anima, scissa tra immobilismi e frenetiche rincorse al futuro. Luogo dove non è facile vivere, dove e di cui deve essere difficile scrivere. Alberto Nessi ne scrive con amore, con la dedizione che si offre a una causa che si teme persa ma si vuole fortemente salvare; ne ha scritto anche nell’ultimo volume pubblicato da Casagrande, Tutti discendono. Sono dieci storie corali, narrate dall’autore per gente che non scrive e che non legge, per i più che vivono “in discesa”, senza accorgersene e senza lasciare traccia di sé, se non nella memoria locale di chi li ha conosciuti. Sono storie scritte forse anche per esorcizzare la morte, «il moscone nero che un giorno discende sui nostri volti». Nessi è nato nel ’40, all’inizio della guerra: «Venni al mondo a fatica: sfido io, con quel testone! Appena mi vide mia madre si spaventò: – Oh Madonna, c’è qua il Lisandro! – Il Lisandro era un macrocefalo che abitava vicino a casa nostra e diceva sempre “universo pecora” e passava ogni giorno con il secchiello del latte appeso al mignolo. Mia madre pensava che i nati in tempo di guerra fossero difettati».

Di questa atmosfera bellica è impregnato il primo racconto, Vampate, che si apre con un bombardamento avvenuto per sbaglio su Chiasso e Balerna, mentre i cittadini si sbracciano per far capire ai piloti dei caccia che «alt, qui comincia la Svizzera». La storia non si ferma ai confini, e anche il Ticino più limitrofo all’Italia è coinvolto nella diaspora del fascismo, e poi nelle vendette dopo la liberazione… «Qui da noi arriva solo l’eco della storia, qualche bossolo disperso, e per vedere qualcosa bisogna aguzzare la vista». A Chiasso la storia non si fa, la si subisce: la subisce la gente semplice che non sa darsi una ragione di tanti incomprensibili sconvolgimenti. Il padre, il nonno, lo zio anarchico dell’autore sono figure a tutto tondo, caratteri forti, meno banali delle figurine patetiche e conformiste in cui ci siamo trasformati tutti, oggi. Anche i matti del paese hanno una loro individualità, i balordi fanno parte del paesaggio, sono membri del coro, trattati con bonomia e non rinchiusi in funzionalissimi e tristissimi istituti («Il Cecchino raccoglieva le belle cacche rotonde dei cavalli per le strade…Il Tano ha una malattia: quando vede le donne in costume da bagno si mette a urlare…»). A rifletterci, c’è un evidente restringimento dell’orizzonte sociale cui corrisponde una fittizia dilatazione dell’individualità man mano che si passa dagli anni della guerra ad oggi: alla coralità di allora si oppone l’isolamento attuale, al pubblico il privato, alla solidarietà l’egoismo, alla storia la psicanalisi. E questo percorso è ben rappresentato dal susseguirsi dei racconti, che si focalizzano sempre più sulla figura dell’individuo-autore. Le tragedie di una cittadina sono sostituite dai turbamenti di un adolescente e dei suoi pochi amici; lo sfasamento materiale, concreto della vita tra due dogane («donne spiavano i burlandi e si nascondevano dadi nel reggipetto per passare la dogana»; «mio padre…la sera nascondeva venti pacchetti di sigarette nelle calze agiose che arrivavano al ginocchio e passava la dogana col Virginia tra le labbra») diventa malessere individuale, conflitto morale («Essere ombre lungo piste prestabilite o cercare un punto di fuga verso territori inesplorati? Essere guardia o contrabbandiere?»). Il ragazzo si trasforma in un uomo in crisi, non più in sintonia con il mondo che lo circonda: «Così imparai anch’io a vivere un po’ in disparte, come un insetto che attraversi un vecchio mobile nelle crepe del legno e arresti il suo zampettare, in ascolto, al primo colpo sull’impiantito». E ancora: «Sono tornato con il treno delle dieci. Alla stazione dove tutti discendono mi sono fermato un momento sotto l’affresco dell’emigrante. Stare nascosto, mi sono detto. Spiare la vita degli altri. Cercare le tracce del Ragazzo nella Piccola Città. Vivere negli interstizi. Dire di no. Squarciare il nebbione dietro il quale si nascondono i morti».

A Chiasso scendono tutti, il viaggio è finito (l’immagine è ripresa da una bella poesia di Nessi: Le donne). Ci si lascia alle spalle un paese, un percorso di vita, un tempo diverso: le osterie dove il nonno giocava alla morra e quando buttava il tre gridava: -Trema Dio!- . Quale Dio trema più nei nostri bar, tra flipper e video games?

 

«Agorà» (Svizzera), 21 febbraio 1990

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NEUMAN

ANDRÉS NEUMAN, LE COSE CHE NON FACCIAMO – SUR, ROMA 2017

Dell’argentino, naturalizzato spagnolo, Andrés Neuman (Buenos Aires 1977) – narratore, poeta, traduttore, blogger, docente di letteratura all’Università di Granada –, la casa editrice SUR ha pubblicato nel 2017 il volume di racconti Le cose che non facciamo, arricchito in seconda edizione da un’interessante postfazione sull’arte di scrivere testi brevi. Molto prolifico, pluripremiato e tradotto all’estero, Neuman ha firmato sei romanzi di successo, un volume di versi e due libri di racconti.

Le cose che non facciamo contiene venticinque storie che esplorano soprattutto i rapporti familiari, di coppia o genitoriali, utilizzando misure e registri diversi: si va dal bozzetto flash al racconto più articolato, dal genere intimistico al surreale e al grottesco, con una notevole maestria formale per cui nessuna descrizione risulta indulgente o sbavata, i dialoghi sono serrati, le descrizioni puntuali, il tono anche se commosso mai scadente nella retorica.

Soprattutto il rapporto tra marito e moglie viene indagato con acuta perspicacia, e talvolta con sorniona perplessità, quasi chiamando il lettore a condividere un senso di stupore per come le relazioni coniugali sappiano complicarsi senza reale motivo, rendendo difficile la reciproca comprensione e qualsiasi convivenza. C’è ad esempio l’uomo così affezionato al suo migliore amico da prestargli la sua donna fino a quando sarà riuscito a emularlo nelle qualità fisiche e morali; la moglie che in spiaggia proibisce al marito di avvicinarla tracciando col piede una riga sulla spiaggia; una coppia perfetta e simile anche nei nomi, Elias ed Elisa, sincronizzata e simultanea in tutto, che poi implode inaspettatamente e fragorosamente; un’altra coppia solidale nelle cose non fatte (viaggi immaginati, sane abitudini tralasciate, palestre non frequentate, lingue mai studiate): “Mi piacciono tutti i propositi, dichiarati o segreti, che disattendiamo insieme. È questo che preferisco della vita a due. La meraviglia aperta sull’altrove. Le cose che non facciamo”.

I venticinque racconti sono raggruppati in cinque aree tematiche: oltre alla prima dedicata alla vita in due, particolarmente suggestiva è quella in cui Neuman affronta le relazioni interne alle famiglie, non sempre improntate al confronto ostile o all’indifferenza, ma anche pervase da un’inaspettata tenerezza. Se quindi leggiamo di conflitti irriducibili, possiamo imbatterci al contrario in narrazioni commosse relative ai momenti topici dell’esistenza: la nascita e la morte. In Dare alla luce un padre assiste al parto del primo figlio con una tale partecipazione emotiva da patire in prima persona le doglie, fino all’apparizione rivelatrice e sconvolgente del bambino: scenderà contento o piuttosto sconcertato lungo lo scivolo del tempo? mi accetterà? sarò degno del suo esordio? e cosa fare con tutta la meschinità e la crudeltà che ci trasciniamo dietro quando un figlio ci nasce, quando un figlio ci dà alla luce, cosa fare per sentire che malgrado tutto ci meritiamo un altro inizio?”. In altri testi, sinteticamente essenziali (Madre di spalle, Una sedia per qualcuno, A piedi nudi)), sono i due vecchi genitori a venire accompagnati all’ospedale (“quanto di più simile a una cattedrale in cui noi miscredenti possiamo mettere piede”) prima dell’ultimo saluto, con la consapevolezza di non essere riusciti a ricambiare la generosa dedizione di tutta la loro vita: “ci sono amori che non si possono ripagare. Per quanto un figlio contraccambi i genitori, ci sarà sempre un debito tremante di freddo”. Lo stato di orfano viene addirittura negato mantenendo fittiziamente vivi padre e madre in Juan, José.

Particolare è anche la sezione dedicata a L’ultimo minuto vissuto da diversi protagonisti prima di congedarsi dal mondo: un nonno che annega volontariamente nella vasca da bagno, un prigioniero di fronte a una finta fucilazione, diversi aspiranti suicidi, un pestaggio brutale precedente all’esecuzione. Sono presenti nella raccolta anche testi crudamente feroci, e altri intellettualmente sofisticati, che si servono di uno stile meno tradizionale e affabulatorio per tentare soluzioni più sperimentali. Tra i primi, si esibiscono testi narranti di errori giudiziari, persecuzioni poliziesche, abusi e violazioni nel privato dei cittadini, rese dei conti tra amici-nemici. Invece, nell’ultima sezione del volume, Fine e principio del lessico, cinque brani si misurano con la creazione letteraria, con le aspirazioni e le delusioni di scrittori e poeti, e qui per la prima volta Andrés Neuman si concede qualche puntualizzazione nei nomi dei protagonisti e nelle ambientazioni delle trame. In generale, gli altri racconti si muovono in tempi e luoghi indefiniti, quasi l’autore volesse significare che i sentimenti, i gesti, i pensieri e i dialoghi descritti rimangono gli stessi a qualsiasi latitudine e in ogni periodo storico.

In effetti, più degli accadimenti concreti in cui si imbattono i personaggi, hanno rilievo nel libro le sfumature della loro interiorità, le emozioni e gli affetti. Di questa propensione allo scavo e all’interpretazione psicologica, Neuman dà testimonianza nelle raccomandazioni finali rivolte a chi volesse cimentarsi con la stesura di racconti: una serie di quattro dodecalogi e un pezzo conclusivo sugli errori da evitare e di suggerimenti da mettere in pratica per meglio catturare l’attenzione dei lettori interessati alla narrativa breve.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 6 aprile 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NEWMAN

JOHN HENRY NEWMAN, POETA – JACA BOOK, MILANO 2010

Di John Henry Newman (Londra 1801-Birmingham, 1890), cardinale, teologo e apologista cattolico, si mantiene oggi sensibile memoria non solo nel mondo ecclesiastico per la sua autorità dottrinale, ma più in generale in ambito letterario come raffinato poeta e saggista.

Presbitero anglicano e docente universitario, in gioventù fu figura trainante del Movimento di Oxford, che intendeva spiegare razionalmente i dogmi e la fede cristiana. In seguito a una profonda crisi personale e dopo gravi lutti familiari, si convertì al cattolicesimo e venne ordinato sacerdote nel 1845, quindi elevato al cardinalato nel 1879, beatificato nel 2010 da papa Benedetto XVI, e infine proclamato santo il 13 ottobre 2019 da papa Francesco. Newman fu osteggiato da una parte della gerarchia cattolica coeva per la sua convinzione che anche i laici dovessero partecipare alla vita della Chiesa, e per avere espresso opinioni contrarie al dogma dell’infallibilità pontificia, ma ebbe comunque un’influenza profonda nel rinnovamento del cattolicesimo (al punto da venire considerato tra i “padri assenti” del Concilio Vaticano II), e nella conciliazione con la dottrina anglosassone.

In un’epoca come quella del tardo ’800 segnata da grandi scoperte scientifiche e tecnologiche, e dall’avanzare delle filosofie positivistiche, materialiste e di politiche liberali, Newman rinvigorì uno spiritualismo di stampo umanistico, basato sul valore della coscienza come fondamento dell’azione e dell’impegno del credente (il suo motto cardinalizio Cor ad cor loquitur – il cuore parla al cuore -, esprimeva appunto l’influenza che un rapporto personale può esercitare nel convertire gli uomini dallo scetticismo alla fede). La sua meditazione teorica ruotò intorno alla relazione tra fede e ragione, e venne ribadita in tutte le opere omiletiche e teologiche (Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, Sermoni all’Università di Oxford, Grammatica dell’assenso), come in quelle più prettamente letterarie.

Il volume Poeta, pubblicato da Jaca Book nel 2010 con la cura di Luca Orbetello, offre ai lettori una scelta antologica dei suoi versi religiosi, oltre al poemetto Il sogno di Geronzio e al Saggio sulla poesia scritto nel 1828, con notevole irruenza giovanile, in commento alla Poetica di Aristotele. In questo testo, molto vicino alla sensibilità romantica di Shelley e alla sua Defence of Poetry del 1821, Newman sottolineava il valore essenziale, nell’espressione artistica, del sentimento interiore, della personalità morale, dell’immaginazione e della spontaneità, esibendo una totale avversione per il tecnicismo compositivo, l’eccesso di criticismo e lo sfoggio culturale colpevoli di soffocare ogni ispirazione poetica.

La selezione di versi proposta nel volume indica chiaramente a quali intendimenti si attenesse l’autore, già a partire dalle prime prove edite nella raccolta Memorial of the Past, del 1832, e in seguito nel fondamentale contributo all’antologia oxfordiana Lyra apostolica del 1836: una costante ispirazione biblica intrecciata alla finalità di combattere lo spirito liberale del suo tempo, ribadendo i valori della fede e della trascendenza, attraverso la celebrazione ispirata di alcuni modelli da glorificare, come san Filippo nel cui ordine aveva preso i voti, la Madonna o i simboli delle varie festività religiose. La sua composizione più nota, adottata anche per l’uso liturgico della Chiesa Anglicana, scritta nel 1833 durante un tempestoso viaggio in mare, assume i toni della preghiera popolare, quasi inteneriti nel fiducioso affidarsi alla guida divina: “Lead, Kindly Light, / amidst th’encircling gloom, / Lead Thou me on! / The night is dark, / and I am far from home, / Lead Thou me on!”

Decisamente originale è infine il poemetto The Dream of Gerontius, composto nel 1864, in cui la contemplazione della morte dà origine a una rappresentazione dell’invisibile e dell’ultraterreno di grande efficacia drammatica, riuscendo a fondere l’aspetto religioso con la meditazione filosofica. Il poeta descrive i sentimenti di un’anima che nel momento del trapasso, quando si interroga sull’ esistenza trascorsa e su ciò che l’aspetta, rimpiangendo gli affetti che lascia e la bellezza della vita terrena e temendo il giudizio divino, oscilla tra timore e speranza, nel suo viaggio attraverso l’universo, scortata da schiere di angeli. L’orrore di un “informe abisso, vuoto, senza confini” che possa avvolgerla, inghiottendola nel nulla, è contrastato dalla preghiera e dalla fede nell’immortalità promessa dalle Scritture: “Sollevati, o mia anima languente, e fatti forte; / ed in questo tratto svanente / di vita e di pensiero che ancor dev’essere percorso / preparati all’incontro col tuo Dio”. Con profondo acume psicologico, Newman descrive la vertigine del distacco, il senso di perdita delle cose amate, la tentazione della negazione e il richiamo dell’abiura, per poi approdare alla serenità dell’abbandono a una realtà diversa, alla leggerezza della libertà dai vincoli fisici, all’immedesimazione con lo Spirito. Contesa tra le potenze del Bene e del Male, l’anima infine accetta con umiltà il giudizio divino, disponendosi alla purificazione di un periodo di penitenza prima di arrivare alla beatitudine luminosa della visione di Dio, “nella verità del giorno sempiterno”.

Tutta la poesia di John Henry Newman è cristianamente nutrita dalla fede nella redenzione, ma anche dalla consapevolezza della caducità e fragilità umana: fa tesoro degli insegnamenti della Chiesa così come della letteratura e della filosofia mondiale, dai tragici greci a Dante, da Shakespeare a Pascal. Pur esprimendosi nel rigore intellettuale della fedeltà alla tradizione scolastica, sa sollevarsi a potenti immagini di creazione fantastica e visionaria, che la proiettano oltre i confini ottocenteschi in cui è cronologicamente situata.

 

«La Poesia e lo Spirito», 29 maggio 2025

RECENSIONI

NGUYEN CHI TRUNG

NGUYEN CHÍ TRUNG, ELEGIE AL FUTURO POETA  – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2019

Le tre sezioni di Elegie al futuro poeta sono state composte da Nguyen Chí Trung tra il 1990 e il 1996, e oggi vengono offerte ai lettori italiani dalle edizioni Interno Poesia. L’autore è nato nel 1948 in una città sulla costa del Vietnam del sud: cresciuto a Saigon, si è poi trasferito per motivi di studio in Germania, dove è rimasto lavorando come ingegnere. Attualmente vive a Stoccarda, scrive in tedesco e vietnamita e traduce poesia nelle due lingue. Nel 2013 è uscita a Saigon una raccolta dei suoi versi in sette volumi.

Il libro di cui ci occupiamo presenta una cinquantina di poesie in quartine, tutte rivolte a un “tu” in forma di invito, augurio o preghiera conformemente alla struttura del Sutra, secondo la tradizione vedica indiana. Versi sapienziali, quindi, indicazioni etiche miranti a conseguire la purezza e la pace interiore attraverso una condotta consapevole, e sentimenti di accoglienza nei riguardi di ciò che accade. Ma anche considerazioni malinconiche sulla fugacità del tempo, sulla corruzione della società contemporanea, sulla fragilità di ogni sentimento umano, sulla consolazione offerta dalla bellezza intuita in rare, miracolose epifanie. Ogni quartina si apre con le stesse parole “You come”, che la curatrice Filomena Ciavarella traduce con “Tu che vieni”: un appello che è insieme sollecitazione e consiglio, implorazione e avvertimento, rivolto a una presenza amicale, filiale o fraterna, o al destinatario immaginato nel titolo, il poeta di un domani ipotetico, più minaccioso che benevolo.

Com’è infatti il secolo futuro ipotizzato da Nguyen Chí Trung? Di arroganza, di vagabondaggio, caotico, traboccante di Sesso, senz’Anima, senza Padre, di Niente, degli inganni e dei disastri, abbandonato. “Tu che vieni in un secolo dove non c’è Gioia / Non portare con te tutto ciò che è sepolto / Anche se vecchie voci riecheggiano / Non sono abbastanza per compensare il futuro”; “Tu che vieni in una distesa di cadaveri / La vita in sé contiene la sua fine / Sulla strada dietro di noi i nostri lamenti lasciamo / E quelli che sono stati perduti nei tempi passati”. I “versi dolenti” dello scrittore vietnamita, “tristi per il nulla”, diffidano anche dell’amore (“Amare, che vuol dire? Amare è uccidere / È suicidarsi notte dopo notte / È distrugger di sé l’anima e il corpo”), per cui l’unica raccomandazione da seguire consiste nel vivere il momento presente, senza pretendere risposte ai quesiti eterni e tormentanti: “Parlare del futuro, cosa importa! / Affidare sé stesso a qualcuno? Non consegnarti a nessuno”. Poiché “Vivere è mantenere il proprio cuore”, nemmeno la poesia, oggi praticata da una cricca di versificatori “concentrata solo sulla fama”, e nemmeno la natura, con la luna pietrificata e una vegetazione sconfitta dall’incuria e dall’abuso, possono assicurare salvezza.

Nella postfazione, Giulia Basile accomuna Chí Trung a Leopardi, per la sua consapevolezza priva di illusioni sulla realtà onnipresente del dolore, della solitudine, della vanità dell’esistenza, destinata a perdersi “nell’infinita notte”. Forse solo nella quartina in esergo si intuisce uno spiraglio di fede: “Apro sinceramente questo cuore, / Le mie mani si alzano, implorando il cielo e la terra. / Lasciatemi continuare a essere un piccolo essere umano, / Non fatemi somigliare ad un altro”; altrimenti rimane solo il rimpianto per essersi spinti troppo oltre, in un territorio di nebbia, lontano da casa.

 

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https://www.sololibri.net/Elegie-al-futuro-poeta-Chi-Trung.html    13 settembre 2019

L’Indice dei libri del mese, n. XI, 2019